C’è un tempo per la nostalgia e c’è un tempo per sondare nuove direzioni. Dan Bejar è sempre stato un cantore di sofisticazioni e atmosfere, nel corso degli anni con sapiente cultura sonora è riuscito a portarci fino al fondo segreto dei suoi album e della sua musica lasciandoci immergere dentro richiami ambulanti e possessioni nostalgiche. Così nell’ultimo decennio i Destroyer ci hanno regalato dischi con cui potevamo scappare dal nostro tempo, rifugiarci placidamente nelle sonorità avvolgenti di un album come Kaputt (2011), dove i dannati anni Ottanta la facevano da padrone, o ancora dirottarci verso una ballata epica alla Bruce Springsteen nella eccitante Dream Lover di Poison Season, e avvilirci di synth-pop con ken, disco ispirato agli anni di Margaret Thatcher che contiene un sortilegio come Sky’s Grey (provare per credere).
Il nuovo album Have We Met pare quasi riassumere gli appunti degli ultimi anni per andare ancora oltre, alla ricerca di un tempo perduto nel tremeabondo futuro. Le evocazioni degli anni Ottanta sopravvivono, i synth si lasciano sentire per riavvolgerci ancora, ma la promessa si sposta immediatamente in avanti – a partire dalle note di piano di Crimson Tide, e dalla voce di Bejar che non ha bisogno di travestimenti e riverberi. Il testo si costruisce sopra le sue esitazioni, e in fondo per tutto il corso del disco siamo preda della scrittura di un Bejar che nelle sue incertezze riesce a essere arguto. Allora Have We Met appare subito come un disco di contaminazioni inedite, che persino nella sua ricercatezza arriva all’orecchio in modo del tutto naturale.
Bejar ha parlato di un disco intimo, composto in una specie di isolamento: i testi sono emersi dall’inconscio, da quel sottosuolo oscuro di cui è difficile essere consapevoli. La musica ha preso invece una sua direzione chiara, la si può sentire farsi largo nelle odissee sintetiche di Kinda Dark, dove la tensione si fa soffusa, e la tastiera ci accompagna al naufragio. Uno schianto al largo di cui avvertiamo le vibrazioni in una canzone manifesto come The Raven (Bejar ci assicura che il pezzo non ha niente a che fare con Edgar Allan Poe, non a livello conscio almeno): “Just look at the world around you / Actually, no, don’t look” – così vanno le parole mentre una chitarra tentennante scava tra i dubbi di Bejar, e si insinua nel nostro di sottosuolo.
Messi da parte un po’ di ingombranti fantasmi il cantautore canadese riparte da un mondo allo sbando preda di oscure malinconie a cui fa bene di incarnarsi in synth pianoforte e chitarre, per sfinire in una traccia conclusiva che mette i brividi. Foolssong è una ballata di libertà: che sia ambientata a Nagasaki o meno si estende fino al confine del mondo, che esistano o meno gli occhi dell’invocata Liza (“dear Liza / where the honeyed diamonds of the light leaving your eyes were?”) o che si incarnino dentro altri occhi, il finale tetro e lorchiano accompagna fino al fondo della notte invocando spettri, rumori, e allucinazioni sonore. Un crescendo.
“Sono un pessimista, ma nei piccoli momenti della mia vita anche un totale ottimista”, ha confessato di recente Bejar raccontando proprio l’ultima traccia del nuovo album. Questa altalena emotiva si lascia sentire per tutte le canzoni di Have We Met, questa tensione tra una ricerca irrequieta di luce dentro la notte, e oscurità nello splendore, rendono il disco una zona d’ombra illuminata, condita dalla mano di John Collins – già compagno di avventure al basso nei New Pornographers per Bejar. Sentiamo la mano di Collins schiantarsi decisa su Cue Synthesizer, che nelle intenzioni di Bejar doveva prendere una direzione alla Leonard Cohen prima che ne venisse fuori una distorsione funk che cupamente fa suonare una chitarra su un testo incalzante.
Come gran parte della produzione dei Destroyer anche Have We Met è un disco dall’animo oscuro, eppure sa come portarci fuori da un’era glaciale emotiva grazie ai suoi spigoli sintetici e all’avvenenza di una nostalgia melomane fuori dal tempo. Dan Bejar gioca con i suoni e le retromanie per sussurrarci infine che l’angoscia futura è appena un’allucinazione, e che il disagio dei cantori può essere ancora una traccia gettata all’avvenire. E forse sta proprio qui la promessa inedita di questo nuovo album: lasciarsi andare ai chiaroscuri di tutte le giornate per farne musica.