Se ne sono sentite di ogni: le serie-tv come “romanzo del futuro” (Rushdie), con i tempi, la qualità e il coraggio “che il cinema hollywoodiano non sa più offrire” (Bertolucci), e così via. Per anni, Breaking Bad prima, Fargo e (la prima stagione di) True Detective poi, avevano silenziato ogni possibile dissenso rispetto al culto, spesso acritico, della serialità americana. Oggi, tuttavia, come ha ben argomentato Andrea Coccia su Linkiesta, sembrano finalmente aprirsi degli spiragli per coloro che ritengono il presunto dominio delle serie-tv una bolla mediatica destinata a scoppiare.
Vuoi per l’inflazione dei temi trattati, per l’offerta sempre più ampia e frammentata o, perché no, per l’esodo in massa sul carro dei vincitori (leggi: Amazon) di quegli stessi autori (leggi: Woody Allen) che un nuovo modo di raccontare la contemporaneità (leggi: The Office) aveva reso immediatamente inadeguati, fuori luogo, sta di fatto che il mondo delle serie TV affronta oggi una fisiologica fase di stanca. Certo, sarebbe ingiusto pretendere che nascesse un nuovo West Wing ogni anno, ma forse ci si è crogiolati un po’ troppo nell’illusione che la serialità di qualità fosse il nuovo paradigma, e non l’eccezione. Con la crescita dell’audience e degli investimenti, poi, ci si avvicina a grandi passi a quella fase barocca che ogni fenomeno culturale, più o meno rilevante, si trova sistematicamente ad affrontare, in cui il progressivo esaurimento della novità viene mascherato sotto una spessa coltre di fondotinta e lustrini.
I segnali sono molteplici. Sorvolando sulla discussa seconda stagione di True Detective, eccessiva ma con i suoi motivi di interesse, prendiamo il caso di Lilyhammer: quello che era poco più di un divertissement, un “I Soprano vanno in Norvegia”, simpatico ma, in fin dei conti, irrilevante, è entrato a pieno titolo un esemplare del “livello più alto di quello che possiamo definire adult entertainment”, nelle parole del protagonista Little Steven Van Zandt (QUEL Little Steven). Allo stesso modo, è innegabile che il proliferare di supereroi, pur problematici, che ci rendeva così indigesta la Hollywood contemporanea, stia iniziando ad affliggere il mondo delle serie-tv, allo stesso modo di reboot (Better call Saul), remake e adattamenti di storie già viste sul grande schermo (Minority Report, La casa…). È finalmente giunto il momento di mettere le cose in chiaro: così come, negli anni ’60, la new Hollywood fu appannaggio di un manipolo di giovani autori rivoluzionari – Coppola, Scorsese, Lucas… – così oggi la serialità effettivamente innovativa, valida e destinata a durare nel tempo è anch’essa, com’è normale che sia, minoritaria, all’interno di un panorama generalmente mediocre. Sebbene ci si sia voluti illudere del contrario, una serie-tv, non è, in sé rivoluzionaria: dilatare i tempi del racconto può essere tanto un modo innovativo di raccontare una storia, quanto il trucco più vecchio del modo per nasconderne l’assenza.
Nulla, a mio parere, simboleggia meglio questa (temporanea?) crisi quanto Vinyl, la strombazzata, bombastica, quanto fallimentare serie-tv ideata e prodotta da Mick Jagger e Martin Scorsese, che ne dirige anche il convulso pilot. L’idea, in sintesi, è quella di combinare:
(a) un racconto dell’industria musicale degli anni’70, pieno di strizzate d’occhio agli aficionados, abilmente soppesate con “personaggi” che tutti sanno riconoscere come Warhol, Elvis e Alice Cooper. Oltre a questo, Julian Casablancas vestito da Lou Reed(!);
(b) una crime story in cui il protagonista, Richie Finestra, rigorosamente bello e maledetto, cerca invano di svincolarsi da un passato oscuro, nonché dalle indagini della polizia, e il pubblico non sa proprio da che parte stare, perché in fondo, “è stato solo un incidente, poverino”;
(c) una conflittuale storia a base d’amore, eroina e ambizione tra un aspirante rocker (James Jagger, infilato lì da papà Mick con nonchalance) e la stagista della casa discografica che li ha scoperti, a cui il ruolo di dispensatrice di sandwich e “tonificanti omeopatici” comincia a stare stretto.
Insomma, se questo non è un Mad Men in ritardo di dieci anni poco ci manca. Protagonisti problematici che rischiano continuamente di distruggere, intercambiabilmente, la propria compagnia e la propria famiglia, con una moglie stupenda li aspetta (invano) giocando alla brava casalinga; un alcolismo dilagante, misteriosamente conciliabile con l’orario d’ufficio; segretarie o provocanti ma ingenue, o arriviste ma insicure; New York e il suo essere sempre, incredibilmente un passo avanti al presente. Sembra una storia già scritta e, forse, lo è.
Non è però questa similitudine (ai limiti del plagio) il vero, o quantomeno, l’unico elemento che rende Vinyl il simbolo perfetto di come la serialità televisiva possa essere intellettualmente e visivamente pigra quanto la propria controparte cinematografica. Al di là delle troppe e poco interessanti sottotrame, dell’improbabile frangente mobster, nonché della colpevole carenza di peluria sui corpi dei suoi protagonisti, Vinyl presenta tutti quei vizi che la televisione e il cinema hanno definitivamente incorporato negli anni ’90: trame che non riescono ad assumere vita propria pur se defibrillata a colpi di flashback, personaggi schematici oltre ogni immaginazione e, infine, una pruderie di fondo nel linguaggio, nei corpi e persino nella gestualità dei protagonisti, che nemmeno l’ubiquità della cocaina (così presente che mi sarei aspettato di trovarla citata nei titoli di coda) può mascherare. Il tutto, all’interno di un contenitore patinato, in cui, non so spiegarmi come, si ha spesso la sensazione di essere di troppo, di stare assistendo per sbaglio a delle prove teatrali, con gli attori che indossano costumi, non gli abiti dei loro personaggi. Forse, il fatto che il monocale di uno squattrinato punk newyorkese eroinomane sia così cool e pulito da non sfigurare a Wisteria Lane non aiuta la credibilità della situazione.
C’è infine quello che io chiamo lo Scorsesismo mancato di Vinyl. Se partiamo dall’assunto che il serial contemporaneo dovrebbe, in principio, restituire agli autori quella libertà espressiva che la Hollywood ingessata dei kolossal gli aveva tolto, allora Vinyl è un duplice fallimento. Restano, dell’autore di Mean Streets, forse colui che ha saputo raccontare meglio la cocaina e i suoi effetti sulla personalità, l’attenzione alla colonna sonora, molto chicche e inediti di Sturgill Simpson e David Johansen, così come quella per il dettaglio nella ricostruzione storica (pur se entrambi impallidiscono a confronto con quel gioiello di American Hustle). Ma di Scorsese, purtroppo, in Vinyl mancano sia lo stile, scimmiottato invano dai vari registi alternatisi di puntata in puntata, con quei close-up, visti e rivisti, al momento della sniffata, che soprattutto l’essenza, lo spirito iconoclasta e sopra le righe che ne ha caratterizzato tutta l’opera. Se insomma Vinyl fosse un sottogenere di quel rock che pretende di voler raccontare, sarebbe l’adult dello Sting ultima maniera, di un Billy Joel qualsiasi: depilato, ripulito, terribilmente piatto.