Dentro lo stesso sogno: Un’Increazione Abbacinante

La pubblicazione di Dentro lo stesso sogno – Conversazioni da parte di Wojtek Edizioni, grazie alla curatela di Salvatore Toscano e all’intervento di Bruno Mazzoni, nonché di tutte le persone che formano la casa editrice, permette di mettere in relazione due tra i più grandi autori contemporanei: Antonio Moresco e Mircea Cărtărescu. Chi già conosce gli autori troverà nel testo-intervista probabilmente alcune conferme rispetto ad un filo che collega i due spiriti, chi vi si approccerà con uno sguardo ancora non del tutto avvezzo alla scrittura della “strana coppia” vi troverà invece interessanti chiavi con cui scardinare i testi di due autori che di certo non fanno della scrittura “semplice” il loro cavallo di battaglia.

Tra le questioni più interessanti che vengono sollevate dalle conversazioni vi è quella del rapporto tra la letteratura e l’infanzia. La risposta sicuramente più decisa proviene in questo caso dall’autore romeno che proclama come appunto la letteratura tutta sia in realtà letteratura per l’infanzia. Questo elemento si ritrova fortemente all’interno della trilogia di Abbacinante, in particolare in relazione alla costruzione della storia familiare e alla scelta del nodo del sé bambino come strumento di ingresso al bozzolo della falena, ma anche come elemento storicizzato e storicizzante.

Mircea Cărtărescu

Il suddetto è infatti un romanzo dove il corpo di Mircea si muove tra i suoi genitori, tra i gameti che ne hanno stabilito l’esistenza. Un corpo tra le ali, come l’allegorica farfalla/falena che rappresenta la trilogia nella sua interezza (Abbacinante: L’ala sinistra, il corpo, l’ala destra), storia di un bambino che si affaccia sul mondo, di un bambino che esplora la propria genia tra personaggi magici e mostruosi, sbattuto qui e là in una dimensione entomocentrica, un’esplorazione misteriosa alla ricerca della trasfigurazione che esamini il più nudo dei vermi sino alla più immobile crisalide destinata a spiegare le ali, a trasformarsi un adulto che aspetti solo di essere bruciato. Insetti enormi, insetti ingeriti, invasioni di insetti, le bestie sono ovunque, le bestie del disgusto e allo stesso tempo gli esseri più numerosi di questo mondo lacerato, lacerante, attraversato dal tempo senza che Tempo ve ne sia. Trasfigurante è la dimensione della nascita dei corpi, dell’emersione delle anime, di cui Cărtărescu regala descrizioni di allucinatoria potenza con bambini che crescono nel ventre materno senza venirne partoriti, sostituendosi attraverso la crescita al corpo della creatura genitrice, sino a feti che crescono nei cervelli come masse tumorali, sviluppando battiti cardiaci pulsanti nei crani ospiti, come nel cranio dello strambo Herman che accompagna la vita di Mircea nel suo bloc di Viale Ștefan cel Mare. E la nascita, attimo infantile per eccellenza, neonatale, è il momento del tutto, il nocciolo dell’eterno, in un continuo succedere di eventi già accaduti “perché il passato è tutto e il futuro è niente”, ed è sotto la nascita che avviene ogni nuova scoperta, la scoperta del proprio corpo modificato, l’ingresso della differenza, la scoperta della propria diversità, con Cărtărescu in grado di introdurre all’interno di questo salire e scendere dalla dimensione del reale argomenti duri, offrendone affreschi struggenti come nel caso della malattia mentale, del suo trattamento e della sua comprensione. Una malattia orrorifica accompagnata dal discorde e momentaneo compiacimento e dalla sua affermazione assoluta sull’Io, una malattia reale ed allegorica sottoposta al controllo, all’estraniamento, una malattia che si fa specchio di una vita abbandonata nella lotta infinita tra il sé e l’altro senza però offrire il sollievo del possibile equilibrio, ma solo la sottomissione dei suoi molteplici elementi o la fuga nell’allucinazione da vivere come realtà.

La trilogia di “Abbacinante” è profondamente Eterna ma allo stesso tempo intrisa di Storia. Ripetuti sono i ripiegamenti del tempo nello spazio mentale dei protagonisti, drappeggi onirici e surrealisti che coprono con un velo la realtà storica romena dai Daci alla deposizione di Ceaușescu, evento storico sul quale si affaccia l’ultima parte del romanzo (termine che Cărtărescu a dire il vero, rigetta). È un libro dell’etere ma anche un libro del corpo, pagine intrise di sangue e di sperma, così come quelle foto di Andres Serrano, che accompagnano la copertina di un disco del 1996, stesso anno in cui il primo volume (Abbacinante – l’ala sinistra) vede la luce. Lo scrittore romeno utilizza per la sua opera un registro linguistico elevato e chirurgico, che sfonda le mura del poetico, trasforma i periodi in commoventi spirali lisergiche spingendo la lingua contro il suo limite, trasmettendone allo stesso tempo il potere e l’inadeguatezza. Trasforma i corpi in organi, gli organi in cellule, le cellule in mitocondri, i mitocondri in atomi e gli atomi in mitocondri e questi in cellule e quelle in organi e questi in corpi e i corpi in fusioni di corpi e i corpi fusi in masse umane che si fanno specie, che si fanno nullità nel pianeta, che viene reso una palla impazzita nell’universo che è Dio e Dio che è l’universo. Senza Tempo, senza Morte, universo che è Rigenerazione, intriso sino alle viscere di Spirito ma non per questo meno sintomatica descrizione del principio di conservazione dell’energia. Ma proprio questa assenza di morte universale si riversa invece nella violenza più pietosa ed insieme spietata: nelle carni squartate delle prostitute, nei gesti di morte degli abitanti delle fogne, nella bolgia di sangue delle rivolte della rivoluzione romena con lo sguardo che si pietrifica davanti ad una ragazza appena conosciuta la cui carne ti esplode tra le braccia, sbrindellata dai proiettili della Securitate. Quello stesso sguardo che vuole piangere la disperazione di un amore possibile abortito prima ancora di fare capolino sulla terra e che si chiede perché piangiamo quello che non morirà, rispondendo che non è dato fare altrimenti, perché davanti all’Eterno l’unica cosa che si può urlare è:

Non togliermi la vita, Signore, non farmi scomparire Signore! Non spegnere la luce, Signore! Non darmi l’eternità nella quale non proverò più nulla, mai, non penserò più e non vedrò più nulla e non toccherò più nulla con le mie dita!”.

Le fondamentali dita di un libro tanto biblico quanto impregnato di sensi, dei sapori e degli odori del sarmale e della sua carne speziata, del tatto, del sesso e di orgasmi terrorizzanti e infernali, della vista di una Bucarest brulicante e dormiente, sognante e disperata, con una Casa del Popolo che vi si affaccia come il Castello di Vlad. Una città totale, leit-motiv della produzione letteraria del romeno che anche in Solenoide pone l ’abitare è elemento chiave del romanzo.  L’abitare i luoghi dello scritto è parte viva della sua genesi, Bucarest in ogni suo elemento, in ogni suo angolo risucchia il lettore per le sue vie nate morte. Viene delineata da Cărtărescu come la città più triste del mondo, ogni suo spicchio è decaduto e decadente, in una dilatazione del tempo infinita, corrosiva, di un tempo che mangia gli intonaci, divora pareti, demolisce palazzi e ne costruisce altri destinati a sorgere già devastati. Le lunghe camminate per i vicoli ricolmi di detriti, calce, immondizia accompagnano il protagonista sino alla propria abitazione, ad una casa sogno a forma di nave, una casa dalle stanze infinite, che scompaiono e ricompaiono sempre nuove, sconosciute e inconoscibili. Una casa sorta sulla spirale elettromagnetica che dà il titolo al romanzo, una casa dove gli amplessi si trasformano in scene tarkovskiane, abbracci fluttuanti, feroci rapporti sospesi nell’incanto della fisica e del sogno, una casa collegata ad una rete neurale fagocitante dolore, dove gli elementi del reale svaniscono al contatto con pavimenti, lenzuola, lucchetti, sedie dentistiche, una casa che contiene Bucarest nella sua totalità, dentro mura contenenti il destino delle nostre proiezioni, mura contenenti la storia dei nostri cervelli in stand-by.

Tornando dunque ad Abbacinante, esso si pone come un libro dunque colmo, ma non sazio di sensi, con inchiostri che ne chiedono altri, con righe che piangono la perdita di tutto quel mondo che travalica l’umana cinquina. In questi spazi immensi, la prosa di Cărtărescu, come detto, è anche prosa politica laddove la Storia si riaffaccia prepotente. È figlia del sentimento opprimente della dittatura, nipote degli strani sogni indotti che essa genera, del miracolo romeno, dell’appartenenza ai giovani pionieri, pronipote del brusco risveglio, del cibo razionato, delle bombe di Timișoara così anche come vengono raccontate dallo stesso autore all’interno delle incursioni nella sua vita personale all’interno del testo pubblicato da Wojtek.

Antonio Moresco

Riguardo questo elemento infantile anche Moresco richiama ad un sé che in particolare viene inserito in uno degli episodi de Gli Esordi facendo emergere però l’elemento differenziale tra la propria infanzia “medievale” e l’infanzia socialista del romeno. Il racconto infantile di Moresco si innesta su dimensioni magiche fatte di pelli mnemoniche che incidono il mondo sugli infanti, strutture oniriche emanazione del tempo e dello spazio che richiamano le temporalità strappate al Tempo da Cărtărescu.

Se c’è un qualcosa che Moresco modella come un tornitore quelle sono le quattro dimensioni. La scrittura di Moresco fonde (in tutte le accezioni del verbo fondere) la lingua del tempo e la lingua dello spazio, le fa colare l’una dentro l’altra, portandoci in un Altrove Eterno. Proprio l’Eterno (non in quanto infinito, ma in quanto fuori dalla logica temporale) si insinua in ogni interstizio sin dalla prima pagina de Gli Esordi, primo volume di questa discesa (o salita?), quando il protagonista inserisce all’interno del suo vissuto quotidiano i così detti “giochi dell’eternità”.

Cosa è un gioco dell’eternità? Il ripiegamento del tempo in unicum in cui la linea è sostituita uno spazio solido attraversabile, più tangibile che intellegibile, fa sì che la perdita dell’idea dell’esistenza come una freccia temporale trasformi in gioco dell’eternità le piccolezze della vita. Essa non è infatti frutto di una generazione tendente poi ad una fine, ma di una Increazione, di un esordio reiterato. Esordio in questo caso, non è prima volta di tante, ma prima volta di tutto. È tutto stato e tutto sarà. Gioco dell’eternità è dunque passare il dito sulla fiamma di una candela, vestirsi con lentezza, passeggiare. Ne Gli Esordi il piccolo quotidiano dell’umano funge ancora da sfondo in grado di emergere, come nei giochi psicologici della Gestalt, aprendoci la strada ad una complessità che non tarderà ad arrivare, anche e soprattutto in relazione alla prosa. Quando in Canti del Caos la frattura spazio-temporale diviene totale è la stessa lingua a piegarsi all’esigenza del non essere più del tempo. Il linguaggio di Moresco si riempie di primadopo, padrifigli, madrifiglie, predomandare, sta per comincerà, violentando le possibilità semantiche e verbali, imprimendo alle parole una funzione sensoriale che cerca di esulare dalla coppia significato/significante. L’incedere della scrittura si fa esperienziale e l’italiano in questo caso sembra porsi come affannoso delimitatore del debordante piuttosto che come strumento di precisione. Così come il tempo assume tratti spaziali, anche lo spazio assume tratti temporali, le stanze, i letti, le vie, le case, si dilatano e si restringono proprio come la percezione del tempo vissuto, interiore.

La questione che abita il testo è dunque fortemente metafisica, ma allo stesso tempo Moresco infarcisce i romanzi dei riferimenti corporali più gretti, degli istinti più primordiali: l’opera moreschiana è Spirito e Materia, come il Marx che non riesce del tutto a liberare il suo materialismo dallo Spirito hegeliano. Per l’appunto, la Materia, i Corpi. I Corpi moreschiani sono fragili, smontati, luridi, esagerati. L’attenzione di Moresco alla corporeità interiore è esasperante, la sua focalizzazione sullo sperma, il mestruo, gli escrementi (in particolar modo in Canti del Caos) è al limite del rivoltante, ma è attentamente focalizzata all’opposizione tra l’inglobamento metafisico dell’uomo ed il suo essere poco più che bestia. La ripetizione di questi tratti è spesso ai limiti della sopportazione, non tanto per una crudità di fondo, quanto proprio per lo sviluppo di una ripetizione annoiante, la quale sembra avere però un sapore heideggeriano. Una noia aprente, annullante, che costringe allo schiudimento di tutto ciò che rispetto a quella ripetizione è qualcosa d’altro. La corporeità esteriore è una corporeità violenta. La sessualità è composta da un lato da sporgenze, protuberanze, dall’altro da carni tagliate, squarciate. Il sesso o è estremamente violento o estremamente dolce o estremamente violento e allo stesso tempo estremamente dolce, tanto che la prima parte di Canti del Caos gira interamente intorno ad uno Snuff-Movie e l’ultima parte intorno a due innamorati che vivono la disperazione della separazione e la tensione dell’estremo tentativo di ritrovarsi. Moresco pone come substrato della costituzione delle peculiarità umane (raziocinio, amore, memoria, immaginazione, estetica) quell’insieme di liquami che la magnificazione della bellezza ad ogni costo ha rimosso, Moresco ci ricorda, rubando la coppia concettuale a Rilke, invertendola, che il bello si fonda sul tremendo. Sul disturbante. Sul rimosso. La Musa di Canti del Caos è una bellezza presentata semi-divinamente, in maniera quasi soprannaturale, così come la ragazza circassa è invece una bellezza storica ne Gli Incendiati. Ma il personaggio impegnato nell’atto di sodomizzarle non sarà invece risparmiato dallo sporcarsi con le loro feci.

Moresco prende la donna e l’uomo e li getta nel fuoco (anche letteralmente) e ci dice che li dobbiamo prendere così, con il loro candore e con il loro lerciume, trasformando l’errare nel mondo in un lungo e doloroso processo di scoperta, di superamento, di accettazione, un viaggio che come racconta lo stesso Moresco all’interno delle Conversazioni lo ha portato al collasso psicofisico come se lo scrittore fosse in quel momento una partoriente creatura incarnata.  La distruzione assoluta del romanzo e dello scrittore alla fine risulta indagare quello è l’assoluto della Morte.

“Sono nato il 30 ottobre del 1947, all’imbrunire, brandello di carne rigettato con furia da un altro corpo concepito nove mesi prima da un soldato reduce dalla più grande guerra mai combattuta su questo pianeta e da sei anni di campo di concentramento, e da una domestica non più giovane, sventrata al momento del parto dalla mia grossa testa infelice. Sono morto il 30 ottobre 2010, nel cuore della notte, investito da una macchina mentre camminavo per strada succhiando un tronchetto di liquirizia e fantasticavo.”

Nell’incipit de Gli Increati Moresco ci toglie subito l’imbarazzo delle date, scandisce un periodo e ce lo lancia contro. Ci offre per qualche riga un porto sicuro e poi inizia ad affondarci. Il narratore è morto. Tutto quell’insieme vivido di corpi che ci ha accompagnato nella lettura dei volumi, è morto, sta morendo, è sempre stato morto, non morirà mai. La Carne assume l’eternità, l’Increazione, del Verbo. Gli Increati è un libro che spacca i mondi, che solleva i morti contro i vivi e i vivi contro i morti, che trasfigura i vivi in morti e i morti in vivi, è il volume finale che si ricongiunge in un circolo mnestico con il volume iniziale realizzando quel primadopo che Canti del Caos ha introdotto in quando perno, o per continuare con la metafora circolare, in quanto diametro. Gli Increati moltiplica, sdoppia, tripartisce, rifonde, sfonda, abbatte. Se fosse un quadro sarebbe il Trionfo della Morte di Bruegel gettato in un tritacarte e poi rimescolato striscia dopo striscia senza soluzione continua, ma con lo stesso sentimento originario. Gli Increati è fondamentalmente morte, ma al contempo è una brocca dalla quale sgocciola la vita di cui questa è stata riempita sino all’orlo. È una teologia umana, che racchiude quel rapporto materia/metafisica non nella coppia scientismo/religione, ma nell’emersione dell’irrisolto in quanto dono, in quanto motore increatore, trasformando il mistero della Morte e la sua insolubilità in qualcosa di umanamente peculiare e non in una conoscenza perduta, mancata.

La Distruzione ed il Ripiegamento di tutto, del tempo, dello spazio, della memoria, della bellezza, della vita, della morte, sono al contempo la loro esplosione più piena che Moresco ci getta in faccia dopo averci immerso nella dissoluzione. Tutto ciò può avvenire solo grazie al sacrificio di diversi fattori. Il reale in quanto tale è il sacrificio supremo, è ciò che Moresco immola nella sua idea di letteratura. Ma ciò con significa che esso non sia fondamentalmente presente. Nonostante l’emersione dell’impossibilità, non si ha mai la sensazione che si stia leggendo un libro dichiaratamente fantastico. I luoghi, gli accadimenti risultano a tratti surreali ed onirici ed in altri momenti dotati di una realtà percettiva iperaccentuata che va oltre la capacità descrittiva del realismo puro, non è rievocazione, ma inglobamento. Il reale è e non è, si sente, ma non si vede, dando al testo una propria forza trascinante, rendendolo viaggio ma allo stesso tempo àncora. La tracimazione diventa simbolo, destino. Moresco ti porta via ed insieme ti ricorda che non si può andare da nessun’altra parte, perché tutto è nulla e nulla è tutto ed in quanto essere umani ci troviamo a nuotare nella loro totalità. Possiamo scegliere (forse) la tipologia delle bracciate, ma non l’acqua che ci bagna, quella che ci ha bagnati, quella che ci bagnerà e quello che ci resta da fare è imparare a fare qualcosa delle gocce che ci si attaccano alla pelle.

La pubblicazione di Wojtek ha quindi la sua importanza nella duplice funzionalità di poter introdurre e di poter fare luce in un movimento tanto di sorvolo quando di estrazione e di offrire ad ogni tipologia di lettore primi o nuovi strumenti per due degli autori che più si avvicinano a farci tastare il magico. Per aprire il confronto ho cercato di esaminare le due grandi trilogie dei due autori, attraverso la chiave di due elementi specifici, ma la bellezza del testo è che questo permette di trovare nuova luce in ogni tratto della loro produzione, dalla produzione poetica al Levante, dalle Lettere a Nessuno a L’addio, ognuno potrà ricavarne qualcosa per sé addentrandosi attraverso mille porte. Una Conversazione che è una porta verso il sensibile sovrasensibile.

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