Con la ventennale esperienza con i Tre Allegri Ragazzi Morti, insieme a Davide Toffolo e Luca Masseroni, e la creazione de La Tempesta, fra le etichette più importanti del nostro paese, si può dire che Enrico Molteni abbia visto nascere e crescere la scena indie (ma non solo) italiana. Il 26 maggio è uscito Quando eravamo swing, un album basato sulla rielaborazione delle canzoni storiche della band di Pordendone, realizzato insieme all’Abbey Town Jazz Orchestra. Abbiamo colto quest’occasione per fargli qualche domanda sullo stato della nostra musica e di questo nuovo progetto, che seguiremo live il 4 luglio per la serata inaugurale del Flowers Festival.
D: Collaborando con l’Abbey Town Jazz Orchestra alla realizzazione di Quando eravamo swing avrete sicuramente potuto notare come le dinamiche di una band differiscano da quelle di un’orchestra. Quali sono gli aspetti più divertenti e quali, invece, le difficoltà di andare in tour con questo progetto?
EM: Noi allegri siamo in tre mentre loro sono in più di venti, sicuramente molte cose cambiano da un punto di vista tecnico/logistico. Le difficoltà sono spesso legate agli aspetti tecnici, di spazio sui palchi, di trasporto, di ristoro, di alloggio. Un aspetto divertente è la sensazione di gita che hai quando sei su una corriera verso la città dove si suonerà, ma anche la varietà di personalità, sia umane che artistiche, con cui ti trovi a condividere le esperienze. In vent’anni noi Tre allegri ci siamo conosciuti bene ma non ancora del tutto. Cosa sarebbe successo se fossimo stati in trenta?
Questo album non vede soltanto la partecipazione dell’Abbey Town Jazz Orchestra, ma anche la collaborazione di Maria Antonietta, Alfredo Puglia e Jacopo Garzia dei Mellow Mood. Quando sono avvenuti gli incontri con queste personalità della scena musicale indipendente e perché avete scelto proprio loro?
Jacopo ed Alfredo sono parte della divisione reggae de La Tempesta, la nostra etichetta, sia per i Mellow Mood che per il progetto Paolo Baldini DubFiles. Essendo proprio Paolo colui che ha chiuso il disco Quando eravamo swing in studio, il rapporto con quelle due fantastiche voci era nell’aria. Maria Antonietta, che pubblica i suoi dischi sempre con La Tempesta, è stata invece invitata proprio perché pensavamo che sarebbe stata perfetta per interpretare la versione serenade di Occhi bassi. Già che c’era ha anche duettato con Toffolo ne Il mondo prima di Elvis, la versione swing de Il mondo prima.
Quali sono le influenze provenienti dal mondo della musica jazz e swing che più sono state importanti all’interno dei vostri dischi e in quale misura si sono dimostrate significative?
Non ci sono molte influenze di quel genere nei nostri dischi, ma diciamo che siamo sicuramente un laboratorio attento e pronto a tutto, quindi alcuni nostri miti arrivano proprio da quell’area. Per dirne un paio, Chet Baker e Ornette Coleman.
Andare in sala di registrazione con un’orchestra vi ha intimorito o entusiasmato? E nella dimensione live?
Il disco è stato registrato in presa diretta, c’era sicuramente dell’entusiasmo quando per due giorni ci siamo chiusi dentro il Teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento. Fuori, lo studio di registrazione mobile. Abbiamo cablato tutto e continuato a suonare per ore. Dal vivo c’è un’energia difficilmente immaginabile, bisogna venire almeno una volta a vedere lo spettacolo per capirlo.
Sembra che La Tempesta stia dando un’attenzione maggiore all’evoluzione della musica elettronica italiana, coproducendo l’ultimo album di Godblesscomputers e di Yakamoto Kotzuga. Sintomo che qualcosa, nella scena indie italiana di cui voi, certamente, siete fra i punti di riferimento, sta cambiando? Può essere considerata, secondo te, allo stremo di una musica che rispecchia profondamente le nuove generazioni?
Yakamoto Kotzuga e Godblesscomputers sono indubbiamente due produttori talentuosi e sono anche giovanissimi. I loro dischi sono belli e siamo orgogliosi di aver la possibilità di confrontarci con queste nuovissime leve, le cose cambiano ed è giusto rimanere sempre attenti.
Con i Tarm avete visto nascere e crescere la musica indipendente italiana e, in alcuni casi, da underground diventare un vero e proprio fenomeno di massa. Tante persone nuove sono esplose e altri hanno confermato la loro qualità. Sembra sempre, però, che sia un ambiente parecchio autoreferenziale che difficilmente riesce a superare i confini nazionali. A cosa è dovuta, secondo te, questa nostra difficoltà di ‘sfondare’ anche all’estero? Quali sono i possibili sviluppi secondo te, viste anche le nuove modalità con cui ci si approccia alla musica?
Domanda difficilissima da rispondere in poche righe, servirebbe un libro. Anche perché risposta chiara e tonda non c’è. A mio avviso la lingua è il primo intralcio verso la diffusione della nostra musica all’estero. Poi c’è una carenza di infrastrutture, siamo in fondo un paese latino che gioca in un campionato straniero. Diciamo che confido molto in un futuro con l’Italia un po’ più presente nelle dinamiche mondiali della musica di qualità, credo che le carte non ci manchino. Anzi, in fondo il nostro buon gusto è riconosciuto da tutti, dobbiamo solo farlo valere.
Intervista a cura di Francesco Pattacini e Ilaria Del Boca