È complicato pensare a un’intervista ai Verdena in questo momento, dopo che i due volumi di Endkadenz sono stati analizzati in ogni loro aspetto, anche in quelli che magari non ci sono. Non che prima, comunque, fosse più semplice. Ci siamo incontrati con Roberta Sammarelli, in un bar vicino al negozio Tosi Dischi di Reggio Emilia, poco prima che presentassero in tenuta acustica il secondo volume di Endkadenz. Tutti i dubbi, una volta sentito suonare, sono scomparsi, confermando quell’idea che fosse un disco ingabbiato nella sua dimensione in vinile e compact disc, e che aspettasse soltanto di esplodere nella sua dimensione live.
D: Dopo i concerti di Asolo e Torino ci avete fatto un po’ preoccupare. Va meglio adesso la situazione?
Roberta: A dir la verità no, ma è perché siamo sempre stati così. Stare in tour è abbastanza stressante e ci sono giorni in cui siamo un po’ più nervosi di altri in cui possiamo rilassarci di più. Non è una cosa che, purtroppo, si possa prevedere. Stando tante ore in macchina in viaggio, ogni tanto, succedono cose che mandano tutto in malora, così come accade che, nonostante la stanchezza e le otto ore di macchina, il concerto fila liscio. È una vita un po’ così la nostra. A Torino non è successo niente di particolare in realtà, è stata una di quelle occasioni in cui se Alberto non lo avesse detto al microfono nessuno se ne sarebbe accorto. Alberto è fatto così, non ha filtri e se c’è qualcosa che non gli va bene non riesce a tenersela dentro fino alla fine. Sentiva male il suono sul palco, ma se non lo avesse detto nessuno credo l’avrebbe notato. Ad Asolo lo hanno visto spaccare la chitarra e si sono chiesti cosa c’era che non andava, ma sono imprevisti che in tour possono capitare.
L’essere senza filtri è sempre stata una caratteristica del vostro stile e che vi ha fatto tanto apprezzare qui da noi. Le persone cercano sempre qualcosa in cui riconoscersi e i Verdena per tanti sono diventati quasi un simbolo o qualcosa in cui potersi rispecchiare, anche se non c’è mai stato un tentativo da parte vostra di ricoprire questo ruolo.
Sì, anche se noi siamo più testimoni delle varie interpretazioni che le persone hanno di noi e della nostra musica. Ovviamente nessuno può avere le sensazioni che abbiamo noi e che ci spingono a scrivere, perché sono nostre, ma notiamo nel pubblico questa volontà di ritrovarsi e di dare un senso a queste cose, ed è una cosa bella. Non ci preoccupiamo molto di questa cosa di essere ‘simboli’, chi ci conosce sa che non ci importa assolutamente di essere mitizzati e che non ci influenza. L’unica cosa che ci interessa davvero, e da sempre è stato così, è essere giudicati per la musica che facciamo.
In Italia siamo abituati a dare un valore fondamentale ai testi e alle parole che li compongono, una necessità quasi politica per descrivere la produzione di un gruppo. Questa vostra peculiarità, di dare molta importanza al suono senza, ovviamente, tralasciare le parole, vi ha portato tante critiche nel corso degli anni.
Sì. Le parole per noi devono, principalmente, suonare bene. Questa cosa è fondamentale perché trattiamo la voce esattamente come se fosse uno strumento. Nella cultura musicale italiana la voce è considerata spesso come il primo violino di un’orchestra, quasi sempre al di sopra delle altre parti. Per noi, invece, la voce deve essere uno dei tanti strumenti che usiamo, allo stesso modo del basso, della batteria, delle chitarre e delle tastiere, devono essere tutti alla pari. Questo si nota anche dal volume che diamo alla voce nei dischi. Spesso ci dicono che è troppo bassa rispetto agli altri suoni, ed è perché in un paese come l’Italia siamo abituati a vedere la voce sovrastare tutti gli altri strumenti. Questo però non vuol dire che il testo non sia importante, anzi. Specialmente in questi ultimi due dischi non è così. Alberto ci ha messo otto o nove mesi per scrivere i testi dei due volumi di Endkadenz. Ci siamo trovati in studio insieme a lui, per provare a dargli una mano, e abbiamo visto che è un lavoro veramente immenso. Ad alcuni basta scrivere un testo che abbia senso per chiuderlo, poi, con la musica. Alberto, invece, deve trovare delle parole che insieme abbiano un significato e che possano creare quella sonorità che cerca. All’inizio scrive la parte vocale in inglese e poi va a cercare quelle sillabe che in italiano possano ripetere gli stessi suoni nel modo migliore, cercando le parole che finiscano in un quel modo preciso o che in mezzo ne ripetano un’altra. Questo significa che la ricerca delle parole non può essere infinita come per gli altri perché il campo si restringe e diventa molto limitato. Alberto, in ogni caso, anche se non avesse questa necessità non scriverebbe testi che possano raccontare una storia tradizionale. Chiunque lo conosca sa che non potrebbe scrivere dei testi troppo espliciti perché non è da lui. In tutti questi anni ci ha sempre detto che l’importante è scrivere dei testi di cui non si possa vergognare ed è quello che ha sempre fatto.
Sembra sempre che non ci possiamo meritare un gruppo come i Verdena, e ci ritroviamo quasi a respingere chi riesce a esprimersi come fate voi, in totale libertà artistica e personale. Qualcuno, addirittura, pensa che i Verdena siano in qualche modo i colpevoli del fatto che la nostra musica non riesca quasi mai a sfondare all’estero, vista l’attenzione che si è creata intorno a voi.
Ho lette cose del genere e penso siano follia pura. Non penso che i Verdena abbiano precluso qualcosa agli altri per il semplice fatto di esistere. Noi abbiamo sempre pensato alla nostra storia. All’estero non ci andiamo tanto spesso non perché non vogliamo, o perché siamo bergamaschi e poco simpatici, ma perché siamo italiani e, almeno nel rock, non siamo ancora così credibili. Stiamo provando anche noi, con i nostri mezzi, a cambiare i luoghi comuni sulla musica italiana. Anche se da un lato ci scherniscono noi siamo fatti così, pensiamo alla nostra storia, e continuiamo a provare ad andare all’estero, nonostante tutto.
Endkadenz continua quella sperimentazione del suono che Wow aveva inaugurato. Nel secondo volume, però, in tutte le differenze del caso, sembra esserci un ritorno a un suono più fisico e arrabbiato, quasi a riprendere alcuni temi di Requiem.
In realtà è una casualità che le canzoni siano state divise in questo modo, perché le session di registrazione dei due volumi sono state le stesse. Caleido, per esempio, che è forse una delle più arrabbiate, come dici tu, è stata la prima che abbiamo registrato ma che poi è finita penultima in scaletta. C’è qualcosa di Requiem, ce ne siamo accorti anche noi verso la fine, nel senso che volevamo tornare a quel tipo di suono anche se in un modo diverso.
Il cantiere sonoro dei Verdena, quindi, è ancora aperto?
Assolutamente sì.
Per chiudere, visto che fra poco suonate, come mai non suonate più tanto spesso i brani de Il suicidio del samurai?
Non saprei, non ci divertiamo più così tanto a suonare quelle canzoni come un tempo, forse perché sono un po’ troppo dilatate. Le dovremmo riarrangiare per farcele piacere oggi e ci stiamo pensando. A ogni concerto, comunque, ne facciamo sempre una per ogni disco, per rispettare la par condicio (ride).
Foto a cura di Anna Agostini