Deerhunter – Monomania

Se i Deerhunter fossero stati una qualsiasi indie rock band di talento, con questo album, seguito dell’acclamato Halcyon Digest (2010), avrebbero completato l’ammorbidimento del suono, adagiandosi su un arioso psych pop ancor più lirico e smussato, su cui affinare il songwriting, rendendo la produzione più matura e dettagliata, conquistando così una notorietà ancor maggiore e dunque sbocciando a pieno come nuova entità mainstream alla fine di un’ascesa dall’underground americano.

Si da il caso, però, che il quartetto di Atlanta sia tutto fuorché una band come le altre. La via che intraprendono è dunque singolare, sorprendente e capricciosa, in linea con lo stile del frontman Bradford Cox, che decide di darsi un nuovo personaggio, di non fare il cantautore che matura, ma di fare la Popstar (nel senso più Bowie-esco del termine) e di consumare il suo appetito punk (nel senso più Ramones-esco del termine).

Monomania è sommariamente un album in cui i Deerhunter si abbandonano ai pruriti di un garage rock sporco, irrequieto e, per la maggior parte, efficace. Perdono buona parte del suono dettagliato e liquidamente psichedelico verso il quale sembravano orientarsi, per recuperare una produzione più low fi, uno stile più essenziale e asciutto, rumoroso e viscerale, ma caratterizzato comunque da una scrittura quanto mai straightforward.

Neon Junkyard e Leather Jacket II palesano dall’inizio il nuovo tiro sporco e garage, non come regressione ma come nuovo ed inedito indirizzo stilistico; le chitarre del secondo pezzo ne sono un esempio lampante, mai la band aveva osato parti di chitarra tanto selvagge, irrequiete e schizofreniche.

Dopo questa doppietta iniziale, è il turno dell’unico episodio firmato da Lockett Pundt, chitarrista e secondo autore della band, songwriter più quieto, dal timbro al contempo malinconico e dis-emozionale, che in questa The Missing consegna uno dei pezzi più memorabili e istantaneamente di spicco di tutto il disco.

In Monomania però, a differenza di Halcyon Digest, in cui Lockett aveva un ruolo prominente (per il maggior peso avuto sull’indirizzo sonoro e in generale per il carattere più disteso e spazioso del disco), a farla da padrone sono l’estro e le passioni garage di Bradford, la cui voce, effettata e iper-compressa, prevale insolitamente sulle strumentali. Non troviamo la melodia e le chitarre duellanti di Desire Lines, gigante al centro dello scorso disco, opera di Poundt, ma si susseguono spunti garage pop, esili e scarni, divertenti e divertiti in Pensacola, col tiro più serrato in Dream Captain.

Le linee esotiche di Blue Agent le danno il tono pacato e sinuoso che la distingue dalle altre e verso la gentile T.H.M. ci si domanda se i Deerhunter non facciano talvolta un passo indietro, come a rielaborare in chiave attuale stilemi in area Microcastle o precedenti. Ma poi su Sleepwalking giocano a fare gli Strokes, su Back To The Middle sfoderano un sapiente psych pop abrasivo e, di seguito, sulla title track, affondano forse l’unica vera coda incisiva dell’album, con il prepotente singalong a scandire “mono-mono-mania”, a coronare le fisse viscerali di un Bradford Cox al comando, carismatico, padrone, mestierante, ma di conseguenza in più episodi eccessivamente autoindulgente, finendo per proporre pezzi che non hanno lo spessore di alcuni lavori passati.

L’artista si affida spesso alle proprie risorse di stile e di colore per sviluppare idee in alcuni casi insipide o scarsamente edificate. Monomania è un disco meno ambizioso di altri nel catalogo della band, è un rimandare uno status ed una maturità in parte già acquisiti, per voler intrattenere, più che conquistare, con un tagliente garage rock acido e sporco.

Nitebike è l’unico episodio solista e chiede, se non entusiasmi, almeno il riconoscimento che merita. Purtroppo è la conclusiva Punk (La Vie Antérieure), che non avrebbe sfigurato lungo il disco, a lasciare un po’ freddi; un semplice polverone noise che si alza nel finale risulta una soluzione eccessivamente comoda, in un congedo non all’altezza di Twilight At Carbon Lake, meno che mai di He Would Have Laughed.

Microcastle consolidava la band come una delle più brillanti del panorama indie rock e Halcyon Digest sfiorava lo status di capolavoro nel lirismo psych pop, conquistando anche chi non era esaltato dalla psichedelia un po’ ambient un po’ shoegaze-pop dei Deerhunter. Da parte sua Monomania non è certo un disco che amplia il consenso, è più rivolto a chi apprezza le caratterizzazioni della band, a chi sa (e vuole) divertirsi con loro. Un disco di livello, di intrattenimento, secondo chi scrive un ottimo ascolto, ma che in un ottica più ampia rappresenta un po’ un gioco, una sorta di parentesi esplorativa di una band che ha già dimostrato di saper fare ben più che qualche trucchetto e da cui era ben lecito aspettarsi di più.

4AD, 2013

Tracklist:

  1. Neon Junkyard
  2. Leather Jacket II
  3. The Missing
  4. Pensacola
  5. Dream Captain
  6. Blue Agent
  7. T.H.M.
  8. Sleepwalking
  9. Back To The Middle
  10. Monomania
  11. Nitebike
  12. Punk (La Vie Antérieure)
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