Nelle mappe del rock, la Georgia ha sempre voluto dire una cosa in particolare: R.E.M. Una band che faceva dei propri dischi autentiche incursioni visive, a partire dal nome, legato ai movimenti oculari nel sonno che generano l’attività onirica, agli artwork psichedelici e all’attività di Michael Stipe come regista di videoclip. È impossibile forse cominciare a parlare dei Deerhunter senza pensare alla componente visiva, rispetto anche al nome della band, ispirato da un videogioco.
Immaginate allora alcuni ragazzi di Atlanta, amanti di indie rock, punk e in particolar modo di psichedelia, che si guardano attorno nei primi anni Duemila: scrutando, colgono solo band dedite al revival, attualizzato o meno, sia esso post-punk, garage o disco.
Sono ormai passati dieci anni dal primo album dei Deerhunter, Turn It Up Faggot, un disco rabbioso dove la band manifestava tutto il suo disprezzo verso il conformismo del mondo indie rock statunitense e la maggioranza di quei gruppi che si rifacevano ai vecchi fasti del post punk. Da allora il percorso della band è stato sempre molto tortuoso e impercettibile, barcamendosi tra noise, psichedelia, mostragli dai loro concittadini R.E.M, e un’imprevedibile sensibilità pop cui solo il termine art-rock riesce a renderne giustizia. La collera e la frustrazione sono rimasti, invece, elementi cruciali per la formazione di Atlanta, guidata da Bradford Cox da sempre in vena di attriti e provocazioni, un personalità tanto esilarante quanto ansiogena, la croce e delizia della band.
Dopo due anni dall’impatto noise di Monomania che aveva fatto dei Deerhunter i pionieri di un suono, figlio tanto della migliore stagione del rock acido e psichedelico quanto della capacità di manipolare e rimanipolare ogni dettaglio, tornano con un album che sfodera la meno controcorrente delle tematiche: il passaggio alla maturità. Lo stesso Cox ha dichiarato come il suono dell’opera gli ricordi “il primo giorno di primavera” e, come ribadisce all’infinito nella perla dream pop Living In My Life, ha realizzato di volersi concedere nella sicurezza piccole cose, anziché continuare a sgomitare per andare oltre.
Gli ostacoli si smaterializzano, come suggerisce il titolo dell’album, così come il sound della band che si apre a composizioni ultramelodiche, da pace dei sensi.
Nel brano Breaker, che vede per la prima volta il chitarrista Lockett Pundt dividersi i vocals con Cox, i Deerhunter sembrano inscenare la propria beatificazione. In Snakeskin tentano il loro primo funk scanzonato, mentre nella travolgente Take Care si mischiano sonorità synthpop e divagazioni prog, senza mai perdere la centralità del brano.
Fading Frontier recupera quella dimensione intima finora inedita e si qualifica come il loro lavoro più accessibile, empatizzare con Cox e soci non era mai stato così facile.