8 gennaio 2016. David Robert Jones compie sessantanove anni. ★(Blackstar) il suo 27emo album in studio esce a distanza esatta di tre anni dal precedente The Next Day. Cos’è questo strano oggetto che abbiamo tra le mani, cos’è questa stella nera su sfondo bianco?
L’album è stato anticipato a metà novembre dal singolo omonimo con un video diretto magistralmente da Johan Renck. Un uomo bendato, un’atmosfera che oscilla tra uno scenario futuristico e qualcosa di ancestrale, tremori e cerchi sciamanici. Un teschio con pietre preziose raccolto dal casco di un astronauta che giace in un angolo. È il Major Tom di Space Oddity? È il suo ritorno dopo le apparizioni in Ashes to Ashes e nel remix di Hallo Spaceboy? È dal futuro che arriva Blackstar?
Facciamo un passo indietro.
È il 2014, David Bowie incontra Maria Schneider, musicista jazz allieva di Gil Evans (suo The Thompson Fields, scelto come miglior disco Jazz 2015 dal Telegraph) da anni in attività con la sua big band Maria Schneider Orchestra (MSO) per registrare un pezzo che sarà poi la sigla della drama fiction The Last Panthers, diretta proprio da Johan Renck. Nasce così Sue (or In A Season of Crime) che sarà pubblicata prima come singolo e confluirà, poi, nella raccolta di Bowie, Nothing Has Changed (che ha la particolarità di raccogliere il materiale di Bowie in un ordine cronologico inverso partendo da Sue per arrivare a Liza Jane, singolo del 1964 di David Jones & The King Bees). Composto insieme alla Schneider, Sue è un pezzo di jazz sperimentale che sembra risentire molto delle atmosfere cupe e noir à la Scott Walker. In quella big band il sax leader è Donny McCaslin, da dieci anni con la MSO. McCaslin ha anche una band sua con cui si esibisce nel Village di New York; con lui suonano il pianista Jason Lindner, il bassista californiano Tim Lefebvre e Mark Guiliana alle percussioni. Guiliana ha partecipato anche lui alle registrazioni di Sue, ha trentacinque anni, newyorchese, cresciuto alla corte del bassista israeliano Avishai Cohen, ha poi preso una propria e personalissima direzione tra hip hop, breakcore, jazz ed elettronica sperimentale fino alla collaborazione del 2015 con l’osannato pianista Brad Mehldau (Mehliana: Taming the Dragon). Fanno tutti parte della nuova scena newyorchese, il loro è un jazz innovativo che ha rotto i ponti con la tradizione classica; lavorano tutti costantemente su più progetti paralleli, collaborando spesso l’uno con l’altro.
È a questo mondo che il sodale e amico di sempre, nonché ancora una volta suo produttore, Tony Visconti fa riferimento quando racconta, in un’intervista al mensile Mojo, di aver avuto sempre bene in mente To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar: per la grande apertura mentale di un collettivo di musicisti che si conoscono da anni con l’idea di far confluire nel processo creativo tutto quello che può affacciarsi attraverso le esperienze di ciascuno. Bowie con un passato da sassofonista (chi può dimenticare l’assolo di Sons Of The Silent Age da Heroes?) s’innamora del talento di McCaslin, qualche sera dopo va a vedere il gruppo al 55 Bar, NYC. Contatta McCaslin, vuole fargli ascoltare una demo, ‘Tis a Pity She Was a Whore, che ha scritto ispirandosi a quello che ha sentito quella sera, vuole lui e la sua band nel suo nuovo disco. Non ha ancora ben chiaro cosa ne verrà fuori ma sa benissimo da dove partire.
Blackstar è stato registrato tra il gennaio e il marzo del 2015 al Magic Shop Studio di New York in una quarantina di giorni, quindi allo Human del figlio di Visconti per la post-produzione e le parti vocali di Bowie. Il pezzo di apertura è affidato al singolo Blackstar: dieci minuti che nascono dall’incontro di due canzoni. Come per tutte le canzoni dell’album, anche questa poggia su un testo ricco di suggestioni tanto immaginifiche quanto criptiche. Cosa sta succedendo mentre incedono melodie mediorientali da drone music sorrette dal beat di Guiliana? Chi è morto, per chi brucia quella candela solitaria? Chi sono le donne che assistono alla sua esecuzione e perché sorridono? Entra il sax di McCaslin piano, poi comincia a farsi parossistico, nel video la gente comincia a tremare. Gli strumenti pian piano scendono d’intensità, si apre un’atmosfera di attesa, inizia, di fatto, la seconda parte della canzone. Bowie canta (e lo fa magnificamente, c’è tutto Bowie in pochi secondi, sembra di ascoltare tutto quello che ha fatto finora con quella malinconia che da sempre sottende la sua ricerca verso nuove forme di espressione) che qualcosa è accaduto ma non può dirci perché, possiamo solo seguirlo. Chi è Bowie, cosa cerca di dirci? Ci dice di non essere una pop star, una star del cinema, una star dei fumetti, non una stella bianca. Una Stella Nera. Ma di cosa o chi sta parlando? Di se stesso, dell’Isis come vogliono alcune fonti? La verità è che non possiamo saperlo e non importa affatto. In Scott Walker: The 30th Century Man da lui stesso prodotto, Bowie racconta di essere sempre stato affascinato dalle liriche di Scott Walker, dal poterle leggere a proprio piacimento, dalla magia di poter entrare in quelle immagini e farle proprie. È un invito che non possiamo non cogliere al cospetto di un lavoro come questo.
La seconda traccia è ‘Tis a Pity She Was a Whore. Qui la versione è ben diversa da quella della demo (poi confluita nel singolo di Sue), si apre come se venisse fuori da Low con quel sax straordinario e procede come una cavalcata selvaggia. È un album, questo, dove si raggiunge un livello sonoro di straordinaria accuratezza, il solo possibile per rendere giustizia a un’alchimia tra i musicisti coinvolti che non solo è raro trovare nelle registrazioni odierne ma che merita di figurare tra quelle dei grandi classici della storia della musica leggera. Basta ascoltare questi cinque minuti per capire cosa ha trovato Bowie in questi musicisti e quanto c’è di loro nella grandezza di questo lavoro. Il pezzo prende spunto dall’omonima e scandalosa tragedia del 1663 di John Ford ma è, in realtà, un’invettiva contro la Seconda Guerra Mondiale che non rinuncia a rispecchiare la scabrosità dell’originale (Black struck the kiss, she kept my cock / Smote the mistress, drifting on /‘Tis a pity she was a whore). Lasciando la parola allo stesso Bowie: “If Vorticists wrote Rock Music it might have sounded like this“.
È il momento di Lazarus, brano che fa parte del musical omonimo che Bowie ha messo in scena a New York in un teatro off-Broadway tratto da L’uomo che cadde sulla terra di Walter Tevis (Bowie interpretava il protagonista nella trasposizione cinematografica del 1976). Nel nuovissimo video c’è ancora l’uomo bendato di Blackstar che stavolta giace in un letto e inizia levitare grazie ad una misteriosa donna che si nasconde sotto di lui. Chi è questa donna? E chi è l’altro Bowie che canta nella stanza (un ospedale, un manicomio?) Che cosa scrive l’altro Bowie al tavolino dove ricompare il teschio di Major Tom? È una scrittura automatica suggerita dal teschio, cos’ha visto, cosa conosce Major Tom? Il video sembra ancora suggerire un legame con il mistero che attraversa l’intero disco, con i temi della morte e della resurrezione (Look up here, I’m in heaven / I’ve got scars that can’t be seen / I’ve got drama, can’t be stolen / Everybody knows me now). È una ballata straniante che lascia sul finale maggior sfogo alla band con l’ingresso della chitarra di Ben Monder (chitarrista jazz di New York, presente alla session di Sue con la MSO e che ha appena pubblicato con la prestigiosa ECM di Manfred Eicher).
Quarta traccia è la nuova versione di Sue (or In A Season of Crime). È un pezzo molto diverso dal singolo pubblicato più di un anno fa. La grandeur da jazz band con la sua prominente sezione dei fiati lascia il posto al pezzo forse più sentito dal quintetto: la chitarra di Ben Monder ha un ruolo primario soprattutto nella prima parte con accordi taglienti sulla batteria di Guiliana che dissemina, come in un campo minato, i suoi tempi dispari e del basso sempre impeccabile di Lefebvre, quindi tocca al sax di McCaslin verso un finale ancora affidato a un sound potente e sconvolgente per bravura e intensità (gli ultimi secondi dovrebbero essere assunti a paradigma di come dovrebbe suonare una band di livello oggi). Il testo è ancora una volta ambiguo e cupo (cos’è successo anche qui? Chi è Sue? Perché vuole che sia scritto “Sue the virgin” sulla lapide, chi è il pagliaccio con cui è andata?).
Girl Loves Me apre apparentemente uno squarcio di tranquillità ma dura un attimo, il tempo di far entrare in scena le percussioni, stavolta affidate a James Murphy degli LCD Soundsystem (che avrebbe dovuto collaborare maggiormente al disco di Bowie salvo essere stato poi risucchiato dai nuovi progetti con la vecchia band) che danno all’intero pezzo un ritmo marziale ma curiosamente sghembo. Ha un testo che mescola il Nadsat, il gergo inventato da Anthony Burgess per A Clockwork Orange e il Polari, uno slang con forte accento cockney usato ancora negli anni ’60 soprattutto in ambienti teatrali e in quelli della cultura gay londinesi (e che riesce a dare un sound assolutamente sinistro all’intero pezzo).
Dollar Days è la sola canzone nata interamente in studio. Introdotta da una melodia molto eighties suonata da McCaslin, gioca su un giro di chitarra provato dallo stesso Bowie in una pausa di registrazione. Il sax di McCaslin si concede ancora il tempo di un ampio assolo nella parte centrale lasciando una rapida conclusione all’elettronica di Guiliana. È la canzone più classica del disco e anche il primo momento di respiro in un lavoro che si mostra incredibilmente coeso e coerente.
La conclusione è affidata a I Can’t Give Everything che chiude i quaranta minuti dell’album e ricorda A New Career In A New Town da Low con la sua armonica e il suo sax. Come se questo salto nel futuro non potesse non guardare indietro a quel grande capolavoro che è stata la Trilogia Berlinese.
È dunque cos’è davvero questa stella nera e da dove arriva? Chi ha preso la bellissima edizione in vinile (Tony Visconti: I’ll be very, very thrilled. I’ve got to tell you, I’ve cut the vinyl and the vinyl mastering is superb. This is going to be a vinyl you must have. You’re not going to paste it up on your wall, this one you’re going to play over and over again. The vinyl sounds like good old-fashioned vinyl) si è trovato davanti a un packaging estremamente elegante e completamente nero. Major Tom, Kubrick, Burgess ci lasciano pensare quasi a questo disco come il monolito di 2001 Odissea nello Spazio, un oggetto levigato e perfetto che proviene dal futuro e cambierà la mente di chi ne verrà a contatto. Più volte si è parlato di Low ed è chiaro che la trilogia berlinese è un termine di paragone inevitabile. Anche qui Bowie realizza un’opera per molti aspetti perfetta che più che anticipare sembra voler addirittura dettare i termini di un nuovo cambiamento. È un’opera che non compiace il pubblico e che anzi lo sfida portandolo su territori che non sono congeniali né ai suoi fan né a quelli della scena jazz contemporanea. E, nello stesso, tempo, è anche un disco che prescinde dal pubblico perché opera assoluta di un artista inarrivabile che alla soglia dei settanta anni ha maturato il diritto di suonare e cantare senza scendere a patti con nessuno che non siano il proprio gusto e il proprio indiscutibile genio.