Dario Levantino fa il suo esordio con “Di niente e di nessuno” raccontando Palermo e la sua periferia

Dario Levantino, classe 1986, fa parte di quella cerchia di siciliani che in Sicilia ormai non vivono più da un po’, ma che continuano a fare della Sicilia scenario dei loro sogni, a omaggiarla con la loro produzione. Dario, ormai insegnante al Nord, fa il suo esordio da scrittore con Di niente e di nessuno: romanzo di formazione crudo e vivido recentemente pubblicato da Fazi Editore e presentato per la prima volta proprio a Palermo presso la libreria Modusvivendi.

Il protagonista di Di niente e di nessuno è Rosario. Rosario è un quindicenne palermitano, di Brancaccio per la precisione. Quartiere che non ha bisogno di presentazioni; una delle tante periferie dimenticate, come tante ce ne sono al sud. Rosario ha quindici anni e vive in una famiglia infelice: il padre è sprezzante, poco interessato alle sorti della famiglia, invischiato nella vendita illegale di petidina – medicinale analgesico usato dagli sportivi dopo allenamenti intensivi; la madre è una donna passiva, debole, con nessun sogno nel cassetto realizzato, ossessionata dalla morte del padre, sepolto dalle macerie durante il terremoto del Belice del 1968, e da ciò che del padre le è rimasto: un vecchio trofeo di pallone.

Rosario si allontana dal quartiere solo per frequentare il liceo, uno “buono”, in centro. Scrive poesie e vince premi letterari, ma continua a non pagare il biglietto. “Un si scanta di nenti e di nuddu” (non si spaventa di niente e di nessuno) eppure sono tanti i momenti in cui ha paura.
La formazione del protagonista di Di niente e di nessuno prima che essere scolastica, resta di strada, quasi selvaggia. Spesso è una condizione insita nell’essere nati in certi luoghi: si è condannati prima ancora di nascere. Come una spada di Damocle con cui si è costretti a lottare per tutta la vita. E forse è qui che risiede la drammaticità dell’essere palermitani e che inevitabilmente finisce per riconoscersi in tutte le opere che da siciliani hanno trovato genesi.

Rosario nutre un amore atavico per la madre, è questo sentimento che muove molte delle sue decisioni, come quella di giocare a calcio nella squadra di quartiere aldilà delle ostilità con cui dovrà confrontarsi. Ogni azione del ragazzino è finalizzata a renderla contenta. Come l’autore stesso ha affermato durante la presentazione: il comportamento di Rosario richiama quello di Enea che nel momento della fuga si fa carico del padre, fisicamente, sulle proprie spalle, e lo conduce in salvo.
E il richiamo all’epica non si riscontra soltanto nella figura stessa di Rosario, le figure della tradizione greca e latina sono esplicitamente riportate sul testo. E per Rosario, quando gli eroi parlano, parlano in siciliano.

Altro che latino, altro che greco. Quando Achille raggiunge Ettore, gli fa: «Uora ti fiddulìu tuttu», che fidduliare, per chi non conosce il palermitano, vuol dire ‘tagliare la pelle della faccia con un coltello’.
Gli antichi non si spaventavano di niente e di nessuno. È per questo che me li immagino parlare in palermitano.

 

 

Il linguaggio adoperato da Levantino, per il resto, è colto e preciso. La sua formazione classica, prima da studente e poi da insegnante, è palpabile, eppure non mancano sulla bocca dei personaggi quelle tipiche espressioni siciliane (prontamente tradotte per gli altri abitanti della penisola) che dopo tutto rendono meglio. Perché in fondo chi nasce in Sicilia sa di odiare l’isola che gli ha dato vita proprio perché sarà costretto ad amarla per sempre: non sono radici che si estirpano facilmente anche se si dovesse andare via per non tornare mai più. Probabilmente anche conferire alle figure della mitologia il linguaggio del dialetto palermitano sottolinea l’aspetto tragico di certe regioni di Italia, in cui però si conserva la pietas di cui sono gli antichi erano capaci. Se da un lato i richiami mitologici sono una cartina di tornasole per la lettura psicologica dei protagonisti, dall’altra dare loro voce palermitana sottolinea quasi un certo orgoglio regionale. E Rosario di Di niente e di nessuno diventa quasi un eroe.

Dal passaggio da una vicenda all’altra si respira il tempo sospeso tipico di una certa sicilianità: tutto cambia e tutto resta com’è. Ma se da un lato c’è la stasi, dall’altra c’è la resilienza di Rosario.
Levantino afferma: “[Di niente e di nessuno] è autobiografico nel senso che il protagonista pensa, immagina, parla e sogna come penso, immagino, parlo io”. Se da un lato è possibile riconoscere nel protagonista il Dario persona, nell’intero libro è impossibile rivedere il Dario insegnante che ama gli adolescenti e che soprattutto negli adolescenti ha fiducia. Perché Rosario non si fa corrompere, Rosario lotta.
E a Palermo la lotta è rimasta solo agli adolescenti.

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