“Io sono uno scrittore bastardo, giunto da nessun luogo”, così si raccontava Danilo Kiš come un vagabondo perduto dentro un mondo scomparso e smembrato nell’Europa centrale. Di Clessidra, l’opera a cui era legato come a un punto di arrivo, Kiš diceva che era “l’immagine di un tempo incrinato, di creature incrinate e del loro incrinato autore” – Clessidra è una faglia perfetta, confessava in un’intervista. Potremmo dire la stessa cosa a proposito di Kiš: pure lui è una faglia perfetta, qualcosa che quando ci capiti sopra sventra e spezza in due la terraferma, e una volta avanzati non puoi più smettere di perderti in quel suo mondo di frattaglie polifoniche e squarci illuminanti. Persino le note biografiche di Danilo Kiš sono una faglia di contraddizioni e scontri tellurici: non si può ridurre Kiš a uno scrittore serbo, allo stesso tempo è uno scrittore jugoslavo, un ebreo errante, un ateo dai vagheggiamenti ortodossi, un esiliato che vaga tra Parigi e Belgrado, un illuminato borgesiano che vuole oltrepassare Borges con una spruzzata di Joyce, e prima di ogni altra cosa un homo poeticus, malgrado tutto. Naturalmente tutte queste cose sono ancora riduttive per definire Kiš e il suo mondo, ci vorrebbe il soccorso di tutta la sua lucentezza enciclopedica per raccontarlo, il suo modo di mettere insieme frammenti, una mescolanza di linguaggi, elenchi, citazioni, poesia, prosa, clessidre, vecchie vite che si confondono a tentativi polifonici di vita. Ecco, forse solo così, mettendo insieme materiale per una decina d’anni, si potrebbe arrivare a raccontare chi è Danilo Kiš – ma lasceremo questa sfida ad altri e parleremo di cose più barbare.
Letteratura bastarda
La faccia di Danilo Kiš è già un’enigma a sé. A guardarla nelle vecchie e rade foto che ci sono in giro, sembra un incrocio tra quella di Keith Richards e di Leonard Cohen, qualcosa a metà tra una rockstar e un cantastorie errante, e sai già che quella è la faccia di un uomo che ti porterà insieme a lui dentro l’abisso da cui è divorato, solo che non puoi sapere che tipo di abisso sarà finché lui non te lo sbatte in faccia e dentro l’anima con le parole. Allora puoi sperare di cominciare a risolvere l’enigma, capitando a casaccio dentro suggestioni e stralci: “Quando all’uomo non rimane altro, comincia a scrivere. La scrittura è un atto di disperazione, di non speranza. L’unico dilemma è se mettersi la corda al collo o mettersi a scrivere.” A questo punto è già chiaro che si tratta di uno scrittore sincero, ma questo urto, questa sincerità abbacinante si spinge fino a cose molto più scomode e affilate dall’ironia quando ci dice – lui, il serbo dentro una Jugoslavia smarrita – che il nazionalismo è solo una paranoia, e “nella variante serbocroata si tratta della lotta per attribuirsi l’origine nazionale del cuore di marzapane che si vende nelle fiere paesane”. È un po’ quello che succede ovunque quando si ha a che fare con il nazionalismo, alla fine diventa tutta una questione di marzapane. Arriviamo così a un punto cruciale dell’esperienza di lettura che è Danilo Kiš, quella letteratura totale e bastarda che preferisce dirsi jugoslava che serba, con il desiderio di sconfinare in una letteratura dell’Europa centrale, una letteratura che vuole recuperare l’Est, dialogare con le poesie di Aleksandr Blok, fino a deviare rotta verso le storie universali che vengono dal Sudamerica. Mettiamo tutti questi ingredienti a shakerare e abbiamo ancora una minima parte del mondo di Danilo Kiš. Perché poi si va all’affondo a leggerlo.
“A Berlino, al momento della dichiarazione di guerra, mentre gli operai richiamati sotto la bandiera sembravano spettri e i cabaret saturi del fumo denso dei sigari risuonavano di strilli femminili, mentre la carne da cannone tentava di affogare dubbi e disperazioni nella birra e negli schnapps, Novskij, soggiunge Blum, fu l’unico, in quel manicomio europeo, a non perdere la testa, e il solo ad avere una chiara prospettiva.” (Una tomba per B.D.)
Una tomba per Boris Davidovič, anche post-detto sette capitoli di una stessa storia, è la storia dell’uomo consumato e mortammazzato sotto il peso delle ideologie, delle infinite variazioni di questa storia. Non importa se le fonti documentaristiche, e quindi le storie, siano tutte assolutamente reali o solamente verosimili né ci metteremo a parlare di non fiction, e nemmeno importa che all’epoca il libro abbia sollevato la grave protesta dell’Unione jugoslava degli scrittori, che accusò Kiš di aver plagiato in serie Solzenicyn, Joyce, Nadežda Mandel’štam, Borges, eccetera. Quello che veramente importa è il piccolo scrigno di luce che si apre da ognuna di queste storie, poeti fatti a pezzi dalla rivoluzione, confessioni estorte, assassinii e lager, storie scritte secondo quella polifonicità di frammenti che segue la grande apertura borgesiana di cose come Storia universale dell’infamia, un’apertura che rimescola le carte del punto di vista e estende il racconto potenzialmente all’infinito, un’apertura delle porte della percezione di autori-mondo come Roberto Bolaño e Danilo Kiš, e di azzardi sperimentali come La letteratura nazista in America o la kišiana Enciclopedia dei morti.
È interessante pure come Una tomba per Boris Davidovič non si possa ridurre a un’opera di denuncia. È vero che Danilo Kiš non ha avuto una gioventù spensierata (semmai devastata), che ha assistito al massacro di Novi Sad, e che il padre è scomparso, mandato a morire in un lager; è vero che ha dovuto improvvisare un battesimo ortodosso per scacciare la paura ebraica di venire perseguitato, e che è tornato a vivere in Serbia con la madre solo per salvarsi la pelle; ma Kiš vuole prima di tutto scrivere letteratura, non “un veicolo di testimonianze”. Anche se perseguitato dalla sparizione del padre per tutta l’infanzia e l’adolescenza – “queste misteriose sparizioni di persone, che costituiscono il nucleo della mia letteratura, sono un fenomeno cruciale del XX secolo” – Kiš si scaglia contro le ideologie che dovrebbero starsene alla larga dalla letteratura, e con loro la politica – sono quelle che distruggono l’homo poeticus, questo essere strano e visionario che “soffre sia per amore sia per la propria mortalità, per la metafisica quanto per la politica”.
“Forse è più facile dirlo a lei che ai neurologi con i quali ho discusso: la mia malattia è la ricerca dell’assoluto attraverso la letteratura. La letteratura in quanto desiderio di un’altra vita, la letteratura scritta con il corpo, la letteratura che inizia a condurre una vita propria, la letteratura come malattia.”
Homo poeticus
Non sorprende che la poesia sia una parte riemergente nella prosa di Danilo Kiš, una mitragliata dell’istinto: all’inizio mi preparavo a diventare poeta, dice in un’altra intervista, poi dopo aver letto i poeti e in particolare l’ungherese Endre Ady, pregusta la sconfitta e si arrende alla prosa. È un processo di conversione (o di riversione) che abbiamo avuto modo di osservare anche in Bolaño, pure lui si diceva prima di tutto un poeta. Entrambi prendono la poesia e la scaraventano contro la prosa, come a prendere nota inconsapevole di quella teoria del tunnel di Cortázar dove l’argentino ci raccontava che non ci fosse altro verso per la prosa che di farsi poetica. Così questo animale poetico kišiano possiede un mondo dalle rifrazioni diverse da quello politico, dall’animale delle carte burocratiche e delle ideologie incarnate in terra. Per qualcuno come Danilo Kiš, abituato alle sparizioni (a cominciare da quella parabolica del padre) e al peso della Storia sulla vita, la scelta tra poesia e politica è facile. Ogni ideologia si porta dietro la sua ombra scura, ogni ideologia può essere una gabbia, un cranio solitario e rotto: la poesia di contro è libertà estrema. Da un lato c’è la sparizione, la morte, l’assassinio, dall’altro la memoria, le immagini, le vocali colorate, il canto. Non c’è scelta più facile.
Da qui viene l’urlo da animale metafisico gettato alla storia, alla politica e alla scienza di Danilo Kiš. Mentre la Storia si perde dentro i suoi numeri indefiniti, la letteratura incarna quei numeri: “che cosa significano sei milioni di morti se non vediamo un solo, unico individuo, il suo volto, il suo corpo, i suoi anni e la sua storia personale?”. Eccoli qui, i volti incarnati di Boris Davidovič e Darmolotov, la storia d’amore dentro i Francobolli Rossi con l’effige di Lenin, gli appunti di un folle in Clessidra con quelle rivelazioni strambe, come che Newton scoprì la gravità osservando le feci. Davanti alla storia di un uomo di carne e ossa qualcosa si dovrà pure smuovere nelle budella, mentre a sentire evocare sei milioni di morti si può ancora restare di pietra davanti a un numero. È andando a ciarpami per questa strada che arriva pure l’urlo estremo e desolato di Danilo Kiš, il rifiuto di essere considerato solamente uno scrittore ebreo, di fare parte della schiera di una “letteratura di minoranza” da vendere sul mercato. “La mia patria è dove c’è la letteratura”, eccolo spingersi oltre le forme di letterature nazionali o di minoranza per vagare nelle lande della letteratura bastarda; e pure questo pare un punto di contatto con il mondo di Bolaño (la mia patria è la lingua, la biblioteca), o forse è solamente un punto di contatto tra esuli, vagabondi e anime disperse.
Lo riconosco francamente: il mio cuore ha le mestruazioni. Tardive e dolorose mestruazioni della mia ebraicità… (Clessidra)
Ma sarebbe inverosimile pensare che poi certe cappe della storia alla fine non si riversino pure nell’opera di Kiš, è troppa calda la memoria della scomparsa, l’esperienza dell’ideologia, per non travasarsi nelle sue storie e raccontare l’orrore. La differenza sta nel dubbio: Kiš è un coltivatore di dubbi, ci ripete che là dove i poeti continuano a dubitare tornando alle domande di sempre, quella senza risposta (da dove veniamo?, e via così verso il silenzio), l’ideologia ammazza ogni dubbio e ci dà una calda coperta sotto cui fermarci a dormire dimenticando le domande. Contro un po’ di certezze ideologiche Danilo Kiš avrà occasione di scornarsi negli anni Settanta quando si trasferisce a Bordeaux, dove una certa tendenza intellettuale impediva all’uomo occidentale di credere alla realtà dei lager sovietici. Contro le certezze di Jugoslavia pure avrà occasione di scornarsi, c’è addirittura chi lo chiamerà (per comodità) anti-semita (e come poteva esserlo, lui che per quella paranoia razzista ci aveva perso già tanto). Forse per questo Danilo continuava a dividersi tra due mondi, tra l’occidente di Parigi e la più orientale e ortodossa Belgrado dove aveva studiato e amato, la stessa città dove aveva scritto Mansarda, l’intradotta storia di un Orfeo sballato in una Belgrado giovanile. Eccolo lì, Orfeo/Danilo e il suo serbo-croato: si dice che ormai il serbo-croato sia estinto sotto le bombe e le macerie, e forse Danilo Kiš non esiste e leggerlo è solamente perdersi nella faglia, una difficoltà a fissarsi su una pagina sola, qualcosa per disturbati dell’attenzione e astigmatici della pagina bianca, per quelli che sono già spacciati davanti agli enigmi irrisolvibili. Semmai il problema, una volta cominciato a leggerlo, è fermarsi.