Hi, How Are You?
Beh, a dirla tutta: così così.
Dio è morto, Marx è morto, Woody Allen ha 82 anni e non fa un film decente da quando alla presidenza del consiglio c’era Carlo Azeglio Ciampi (che, tra l’altro, è morto pure lui), Daniel Johnston ha annunciato che quello che si è tenuto questo autunno è stato il suo ultimo (mini) tour di sempre — o almeno questo è quello che ha voluto capire gran parte della stampa specializzata — e anche io non mi sento molto bene.
Cinque misere date tra fine settembre e metà novembre, esclusivamente negli Stati Uniti, con il supporto di altrettante band scelte dall’infinito mazzo di quelle che “ha influenzato con la sua musica”: Jeff Tweedy & Friends a Chicago, i Built to Spill a Portland e Vancouver, i Districts e i Modern Baseball a Philadelphia e i Preservation All-Stars a New Orleans. In ogni occasione il gruppo che lo ha accompagnato ha deciso anche la setlist e durante l’evento è stato proiettato il documentario del 2005 The Devil and Daniel Johnston.
In pratica, una specie di addio alle armi in cinque puntate sotto forma di sonorizzazione della sua stessa storia. Malinconico quanto complicato. Difficile, molto difficile. Da decidere innanzitutto, da accettare subito a seguire. Da mettere in pratica, anche. Visto che non basterebbe un Ulisse di Joyce.
A raccontare la sua storia, dico.
Some Time Spent in Heaven
Ci sono artisti che pubblicano una serie infinita di ottimi dischi, per anni, senza che nessuno li consideri e poi — così, da un giorno a un altro, il perchè rimane un mistero — diventano delle leggende. Altri diventano delle leggende ancor prima di scrivere il primo album, poi scompaiono, lasciando i fan con dieci canzoni memorabili e un mucchio sempre più alto di rumor e bizzarre ipotesi per sentito dire riguardo alla loro fine (a coltivare mele in una fattoria sperduta nel Minnesota, a giocare a scacchi con Elvis e Jimi Hendrix su un atollo del Pacifico — cose così). Altri ancora la loro leggenda la costruiscono — più o meno a tavolino — mettendo insieme, mattoncino per mattoncino, un affascinante ed elaborato mito composto da tutta una combo di titoli, copertine, iconografie live e interviste — volutamente o inevitabilmente — criptiche. Altri ancora entrano nella storia perchè vanno completamente fuori di testa, soltanto per quello. Perché lo sappiamo tutti — cristo santo — quanto ci piacciono quelli fuori di testa.
Ecco.
Daniel Johnston, paradossalmente, potrebbe rientrare in tutte e quattro queste categorie. O almeno contemporaneamente in tre di queste, prese a caso tra i quattro archetipi appena elencati.
Sorry Entertainer
Psicosi e talento musicale spesso bastano per gettare le basi di quella che promette essere una storia affascinante. E va bene, funziona. Il problema è che quando si parla di Daniel Johnston la cosa è amplificata nella direzione del darla per scontato, quasi a sconfinare nell’eufemismo, in quel limbo un po’ ghettizzante che sta tra il “è un genio perché è malato” e il “è un genio nonostante sia malato”, dove ritornelli indovinati e rotelle fuori posto diventano ormai inseparabili, facce della stessa medaglia, se non addirittura indistinguibili tratti della stessa faccia di una medaglia che hai paura a girare dall’altro lato. La sua produzione bulimica (produzione musicale, intendo — sulla patologia vera e propria ci torneremo più avanti, con tutta l’ignoranza che confessiamo in materia) confonde ancora più le acque, in questo senso: ci sono praticamente infinite canzoni a suo nome (anche senza contare le cover), come in una specie di emorragia emozionale che negli anni gli è colata dalle mani. Canzoni che — prese a una a una così come tutte insieme — si rivelano, a modo loro, portali semiaperti dentro l’animo di uomo profondamente disturbato, che ancora vive con i suoi genitori alla tenera età di quasi sessant’anni e alle soglie della pensione. È come se, oltre a tutto il resto, Daniel Johnston fosse diventato una leggenda per una questione di onestà, o meglio — per essere precisi — grazie a quella sensazione di aver di fronte una persona che non è capace di essere disonesta: una roba che mette a disagio, ci mancherebbe, ma allo stesso tempo irresistibilmente seducente, sotto un certo, macabro, punto di vista.
Detto questo, inutile negare che qui, gli ingredienti necessari per una buona storia, fin troppo attuale, ci sono tutti: un ragazzino con un talento artistico innato, una malattia imprevedibile e contenibile solo a tratti, una città che si autodefinisce “Live Music Capital of the World”, delle musicassette disegnate e consegnate a mano in maniera molto “hipster prima dell’hipster”, qualche supereroe, una maglietta indossata da un influencer, la parola “outsider” che salta fuori da ogni angolo fino allo sfinimento. Poi sì, ok: c’è anche quella parte in cui un aereo precipita nella foresta perché qualcuno ha strappato le chiavi di avviamento dal quadro comandi e le ha gettate dal finestrino.
Ma andiamo con ordine, più o meno.
Con ordine sparso, diciamo.
Do It Yourself
Tipo, partiamo dall’inizio della fine.
Austin, Texas. 1985.
Un adolescente magro e un po’ strano, arrivato in town da poco, gira per le vie della città fermando chiunque gli capiti a tiro per dargli le sue cassette. Sono suonate prevalentemente con un organetto da due lire e registrate con un paio di Sanyo boombox da 59$: incidi una traccia, togli la cassetta da uno dei registratori, la metti nell’altro, la mandi in play e contemporaneamente ci sovraincidi la voce. Quando dici DIY. Quando dici lo-fi. Finita la scorta, non ha nemmeno gli strumenti per duplicarne altre: mette l’ultima dello stock in uno dei due registratori, preme il pulsante di riproduzione, la registra con il microfono incorporato nell’altro. A volte le risuona proprio da capo, in un progressivo deteriorarsi della qualità audio in tempi e armoniche sempre diversi. Quando dici artigianato. Quando dici l’arte di arrangiarsi. Quando dici self-promotion.
Anche l’artwork è a dir poco fai da te: penna a sfera nera e bozzetti a metà tra il disagiato e l’infantile ma già forti di un tratto ben caratteristico del quale fai fatica a non innamorarti. Non ti chiede una recensione, non ti chiede particolari favori: vuole solo che le ascolti, che tu le faccia girare. Basterà quello, sostiene, perché un giorno, comunque vada, lui diventerà famoso. “Hi, I’m Daniel Johnston and I’m gonna be famous”, dice. Prima o poi — più prima che poi, giura — non qualcuno, ma tutti faranno la fila per celebrare Danny Boy, o almeno quello che verrà considerato il suo genio assoluto: tremule, disarmanti filastrocche che risulteranno — nonostante la crudezza dell’esecuzione approssimativa — memorabili, a loro modo intelligenti e innegabilmente catchy.
Le cose poi non sono andate proprio così. O meglio: le cose sono andate esattamente così, ma non proprio.
Devil Town
Austin nell’85 è una città musicalmente a dir poco in fermento: l’ondata punk / new-wave ha già esaurito il suo picco, ma in compenso il riflusso del vecchio country stile “Nashville” è arrivato a un bivio e da fiume unico che era si è diviso in due affluenti al contrario, da un lato lo spocchioso quanto autoreferenzialmente evoluto “progressive country”, dall’altro una forma più minimale di folk spesso solista che poi negli anni a venire sfocerà in quell’indie barbuto che ben conosciamo. Il programma televisivo Austin City Limits è al suo apice di successo, Waterloo Records è stato appena votato come miglior negozio di dischi d’America e si son già gettate le basi per metter su, di lì a poco, quello che diventerà uno dei festival di musica indipendente più importanti d’oltreoceano, SXSW.
In generale, cazzeggiando per le vie del centro, è più probabile trovare un locale dove qualcuno sta suonando dal vivo (ce ne sono almeno un centinaio, narra una leggenda metropolitana) che un appartamento da affittare o una bakery per mangiarsi una ciambella e la capitale del Texas è ormai diventata un punto di raccolta di artisti fuori dal coro, giustificando così già abbondantemente il suo status di centro di allevamento di musicisti che, per un motivo o per un altro, non sono riusciti a incastrarsi in altri luoghi, in altri ambienti, in altre scene, pezzi di puzzle avanzati dal grande disegno del music business. In altre parole — eccoci — outsider.
Insomma, il posto ideale dove accamparsi per uno che — armato solo di una chitarra sbilenca, un mucchio di nastri originali e chili di matto entusiasmo — è appena scappato di casa di fronte alla minaccia di essere di nuovo soggetto a un TSO e si è unito a un circo itinerante, riciclandosi esperto venditore di popcorn.
Broken Dreams
A proposito di circo itinerante e outsider, non è appunto un caso se ad Austin, nel 1985 sbarca anche Cutting Edge, il programma della domenica di MTV, creato appositamente per dare spazio ad artisti e band che altrimenti mai sarebbero finiti anche solo per un attimo nei salotti degli americani. L’obiettivo è quello di disegnare un quadretto il più possibile fedele del cosiddetto Austin New Sincerity movement, e nell’editing finale, insieme a Glass Eyes, True Believers, Zeitgeist, Wild Seeds, Doctor’s Mob, Dharma Bum e altre band, ci finisce proprio Daniel, che viene introdotto dal presentatore Peter Zaremba come “a man about town: everybody knows who he is”. Eccolo, arrivato da poco più di un anno, felice cameriere da Mc Donald’s, già investito del ruolo di figlio adottivo prediletto da un’intera comunità, pronto a tuffarsi in una brillante e incredibile carriera che finirà per definire simbolicamente l’intero ethos di una città.
Perchè da un lato, niente di nuovo: nel 1985, ad Austin, tutti quelli che fanno parte della scena musicale locale (o che anche solo ci gravitano attorno) sono convinti che a breve diventeranno famosi. Però, dall’altro, è anche vero che, effettivamente, pare impossibile non farsi conquistare da quel ragazzo poco più che ventenne, che si getta a capofitto nelle cose con tutto l’imbarazzo di cui è capace, stonando tremolanti e lamentosi gorgheggi, accompagnato da un rudimentale organo a corda e da una chitarrina autodidatta: piccole, ingenue, ma allo stesso tempo argute, storie sulle imprese di qualche supereroe, disorientate nell’eterna lotta tra bene e male, alla costante ricerca dell’amore perduto, abituate alla solitudine, consapevoli nella (e della) loro (e sua) follia — a tratti strane, a tratti buffe, tutte dolorosamente intime, tutte tremendamente, sanguinosamente orecchiabili, quasi impossibili da togliersi dalla testa. Canta, suona, registra tutto e tutti, filma ogni cosa, manda videomessaggi a se stesso nel futuro, dipinge, disegna e redige una cronaca — tanto minuziosa quanto confusa — del cartone animato delle sue ossessioni, mettendo in fila tutta una serie di ritratti impossibili dei migliori (e peggiori) personaggi che popolano il suo personale mondo interiore: Capitan America, Casper The Friendly Ghost, il Diavolo, una strana rana con gli occhi fuori dalle orbite chiamata Jeremiah e una specie di alter-ego con la testa vuota (ma un paio di ottimi guantoni in mano), Joe the Boxer.
Poptunes
Lo trovi in giro a suonare in qualunque club: quando tocca a lui, esce all’improvviso dallo sgabuzzino del facchino, quello vicino alla cucina del locale, si fa strada tra il pubblico (ogni volta più numeroso) come se fosse in ritardo, salta dietro il microfono collocato su un palco minuscolo. Inizia a cantare, nervoso, quasi sul punto di piangere, non guarda mai la folla che ha davanti, raramente fa più di cinque canzoni (in genere solo tre). Esile e smarrito, maltratta il suo strumento con tutto il rispetto di cui è capace. La chitarra spesso è mezza scordata e suona più come un ukulele, la voce spezzata. A reggere il tutto — anche se forse “reggere” non è propriamente la parola più adatta — un substrato di melodie naturali quanto potenti. La gente, a un primo impatto, non capisce quanto ci è e quanto ci fa, ma quando, concluso il suo set di otto/dieci minuti, scappa dal palco, di nuovo correndo attraverso la folla, e si rinchiude nello sgabuzzino da cui era venuto, come dentro una bara, applaude forte, in gran parte chiedendosi se sia una scherzo, una specie di show montato ad arte, poi ne parla in giro, lo racconta agli amici, si ripresenta la sera dopo.
Prima lezione dei peggiori corsi di marketing — it’s buzzword, baby: it’s powerful, and it’s free.
Wishlist
Una sbirciata in avanti basta a realizzare che sanno il fatto loro, i peggiori corsi di marketing, dico.
Non molto tempo dopo quegli show mezzo improvvisati (come, del resto, mezzo improvvisate saranno la maggior parte delle azioni e delle decisioni della sua vita) Daniel infatti raggiungerà la tanto agognata fama che sempre ha desiderato con tutto se stesso: servizi televisivi, concerti di fronte a un pubblico adorante, un contratto con una grande casa discografica, i suoi disegni appesi sulle pareti delle più importanti gallerie di Londra e Berlino. Diventerà un vero e proprio underground hero, le sue canzoni saranno fonte di ispirazione e oggetto di culto (spesso sfociato in una necessità di reinterpretazione — semplicemente impressionante la quantità di cover realizzate a partire dai suoi pezzi) non solo da parte di band e musicisti della scena indipendente come Wimp Factor 14 e Weird Paul Petroskey, ma anche da alcuni dei maggiori gruppi del cosiddetto alternative rock americano: Yo La Tengo, Sonic Youth, Butthole Surfers, Pearl Jam, Death Cab for Cutie e Sparklehorse, solo per citarne alcuni. Come il pubblico, come tutti, anche i musicisti più affermati sono da un lato attratti dalla potenzialità delle canzoni in sé — ballate ingenue come True Love Will Find You in the End, promesse di speranza sputate in faccia alla disperazione come Living Life, inquietanti carillon impauriti come Don’t Play Cards With Satan — dall’altro in qualche modo romanticamente intrigati dalla costante presenza della sua malattia, dal fatto — inutile girarci intorno — che Daniel è un soggetto affetto da sindrome maniaco depressiva che vive l’apice del suo successo più dentro che fuori da istituti di igiene mentale, alternando i suoi soggiorni negli ospedali con violente esplosioni psicotiche durante le quali rischia più volte di ammazzarsi e di ammazzare qualcuno altro, suo padre incluso.
Per finire con la parte davvero più beffarda di tutte: ovvero quella che ci racconta di come l’unico modo che una delle più importanti voci della sua generazione — della nostra generazione, quella generazione il cui artista di riferimento si è fatto saltare la testa con una fucilata dentro una serra sulle rive del lago Washington, più di venti anni fa — ha trovato per salvarsi è stato quella di ritirarsi, splendido cinquataseienne, a vivere più o meno sedato, dentro un recinto casa-chiesa, con mamma e papà, a Waller, Harris County, nemmeno duemila abitanti alla periferia di Houston, uno di quei posti in cui l’America ti uccide con il nulla come solo lei sa fare.
Qualcuno direbbe: be careful what you wish for.
Dead Lover’s Twisted Heart
“I’ve always identified with Casper. I try to be the good guy, and pure.”
Daniel Dale Johnston nasce il 22 Gennaio del 1961 a Sacramento, California. Quinto e inatteso figlio di una famiglia estremamente cattolica, ben presto si trasferisce con i genitori e i fratelli in Utah prima e quindi a Chester, piccola città della West Virginia. Il suo primo amore sono i fumetti, con una speciale predilezione per i supereroi Marvel. A otto anni già disegna le sue prime strisce, mettendo insieme uno strampalato cast di personaggi e una ben precisa mitologia che li guida in un mondo costantemente in bilico tra Bene e Male, dove gli insegnamenti di Jack Kirby si mescolano senza troppi problemi con quelli della Chiesa di Cristo. C’è Capitan America, appunto, ci sono Gesù e Satana, ma anche King Kong e il più fedele amico di Daniel, Casper il fantasmino. Nei suoi bozzetti non mancano poi nemmeno personaggi creati ex-novo, quelle creature a metà tra l’angosciante e il giocoso, che poi ricompariranno successivamente a popolare le copertine delle sue cassette.
A scuola si chiude nella sua solitudine, ottiene risultati mediamente più scarsi dei compagni e passa più tempo a suonare il piano e a disegnare nel suo scantinato che a uscire con eventuali amici. È già evidentemente depresso, eppure i suoi genitori archiviano la cosa come il naturale comportamento di un self-absorbed teenager. Gli piacciono i Beatles, da morire, ma sostenendo di non saper cantare, la carriera musicale non sembra essere tra le opzioni che contempla. Diventa infatti un “cantautore” praticamente per caso, diciamo per amore, se vogliamo mantenere la poesia della cosa su un livello dolce stilnovo.
“What really happened, is I met this girl who was engaged to an entrepreneur. But she was very beautiful, and I made up some songs just to please her. And she liked them. And I just flipped out. I was at the piano banging away every day, writing songs. And I turned into a maniac and I never gave up, and that’s what really happened to me.”
La ragazza — nel giro di pochi mesi tutto il mondo lo saprà — si chiama Laurie. L’imprenditore in questione, nello specifico fa il becchino e Laurie alla fine lo sposerà, respingendo Daniel con tutto il tatto che ha dentro. Ora, io capisco che le vie dell’imprenditoria sono infinite, che il sogno americano non è mai tale (americano, dico) finché non lo realizzi e che Machiavelli doveva avere dei parenti di Washington DC, visto che il modo che trovi per realizzarlo a quanto pare non conta, ma anche la vita, quando ci si mette, è a dir poco sadica, e in quei casi in cui dà il meglio di sé (la vita, dico, in termini di sadismo) il tatto che hai dentro non è mai abbastanza.
Comunque, Daniel, nel bene e nel male, ha trovato la sua musa: i suoi album saranno stracolmi di canzoni dedicate a lei o da lei ispirate. Il vero amore, l’amore irraggiungibile, l’amore perduto. Inizierà a passare giornate intere davanti al pianoforte, con un vecchio registratore acceso, componendo liriche sulla passione non corrisposta, sulla disperazione di un uomo destinato a restare solo, che però non vuole rinunciare a portare in salvo i suoi sogni irrealizzabili. In pratica la versione indie di Ugo Foscolo, ma con meno basette.
È a questo punto che inizia ad avere come un presagio allucinato delle sue potenzialità e annuncia a chiunque gli capiti a tiro che diventerà un grande come John Lennon e Paul McCartney. Ormai il dado è tratto, la discesa iniziata e non è più una questione di “if I get famous”, quanto una di “when I get famous”.
“If I put in the time, try to be in the right place at the right time, meet the right people, it will happen.”
Ovvero nient’altro che la seconda lezione dei peggiori corsi di marketing.
Fake Records of Rock & Roll
Così inizia a mettere insieme quello che diventerà il suo sconfinato catalogo di cassette. Il primo titolo è emblematico e non lascia spazio a interpretazioni (Songs of Pain), il secondo è un (auto) suggerimento poco convinto (Don’t Be Scared) che porta all’incertezza più totale del terzo (The What of Whom), per poi chiudere il cerchio con il quarto, in cui si ribadisce il concetto di cui sopra (More Songs of Pain), ovvero che al dolore non c’è mai fine, e che va bene così. Sono strane collezioni a bassissima fedeltà, in cui Daniel sbatte le dita solo apparentemente a caso sui tasti del pianoforte, ma hanno già — soprattutto a livello di atmosfere e contenuti — un ben marchiato “Johnston touch”.
La maggior parte dei giovani cantautori in genere gioca a fare il duro, o il cinico, il poeticamente elevato o il politicamente impegnato: in poche parole, cerca di mostrarsi come qualcuno, o almeno qualcosa, che in realtà non è. Queste canzoncine invece non potrebbero essere state scritte da nessuno se non da Dan: sono minimali e sparute, trasparenti e decifrabili, piene fino all’orlo di brama e bisogno, cantante con un tono acuto e nasale, come se il suo cuore si stesse effettivamente spezzando in quel momento, come se si stesse mettendo a nudo in mezzo a una bufera di neve. Sono anche divertenti, a tratti. Le melodie si alternano tra passaggi solari e tunnel depressi, ma hanno il dentro il seme puro del pop, quello che gli scarafaggi di Liverpool hanno interrato anni prima e di cui ora — dopo una veloce passata nel concime blues malato di Robert Johnson e Hank Williams — è arrivato il momento di raccogliere i frutti.
Nel frattempo continua a oscillare senza soluzione di continuità tra momenti di euforia esplosiva, durante i quali scrive, registra e disegna come un ossesso, a ricorrenti discese dentro buchi neri di disperazione: la sua teenage angst sta prendendo la piega sbagliata e ancora prima di passare alla cassa — vedi il buon vecchio “pay off well” — si sta trasformando in schizofrenia.
Si trasferisce per un anno a Houston con il fratello Dick e lì, nel suo garage, registra Yip/Jump Music, prima (e forse unica) opera musicale per soli organetto giocattolo e ukulele dei Puffi, per poi finire a San Marcos a casa della sorella Margy, in quella che sarà il teatro del suo vero primo grande crollo psicotico, quello che segnerà come uno spartiacque nella sua vita, lasciandogli in dote una malattia che non augureresti a nessuno e il disco che lo farà conoscere al grande pubblico: Hi, How Are You?
“My name is Daniel Johnston, and this is the name of my tape. It’s Hi, How Are You? And I was having a nervous breakdown when I recorded it.”
Lo vedi, lì davanti alla telecamera, presentarsi al mondo con il suo ultimo prodotto tra le mani, come uno dei suoi supereroi, mettendo su una maschera, creando il suo personaggio, mitizzando se stesso. L’esaurimento nervoso. Il carnevale itinerante. Lo sci-fi anni ‘50. I fumetti. La donna che ha amato e che mai lo amerà. Il beccamorti. Le canzoncine di una bellezza terribile, cantate in maniera terribile. Tutto reale e tutto artefatto allo stesso tempo.
Quello che sembrava il peggio corso di marketing inizia a farsi interessante.
Manca solo quel workshop conclusivo in cui ti spiegano l’importanza dei testimonial, servito caldo subito dopo la fine delle lezioni.
Smells Like Jeremiah
Se dovessi — così su due piedi — decretare il podio delle tre persone che più hanno contribuito a costruire quello che attualmente è il “mito Daniel Johnston”, tolto lo scontato primo gradino in cui rimane inamovibile — per distacco — Daniel stesso, stretto al suo innato talento per la performance (qualunque essa sia), darei la medaglia d’argento a Jeff Tartakov, l’amico, sostenitore, primo fan, publisher, gestore delle sue finanze — quando c’è stato bisogno anche babysitter — di una vita.
Jeffrey Tartakov è stato un po’ il Danny Rose di Daniel Johnston. Danny Rose nel senso di woodyalleniano del temine. Quel manager vecchio stampo che semplicemente ama i lavori dei suoi clienti, che vive per portarli al successo. E che poi viene lasciato a piedi sul più bello, quando il successo sembra arrivare davvero. Ok, a onor di cronaca ci sarebbe da considerare anche l’esistenza di una frangia complottista che sostiene che Jeff abbia in realtà in qualche modo sfruttato il suo pupillo, ma non ci sono prove al riguardo, e la cosa pare obiettivamente poco verosimile. Comunque, i fatti dicono Tartakov è stato il primo a pubblicare i nastri con le canzoni di Daniel, quello che è andato a rovistare in un cassonetto dell’immondizia dove lui, durante l’ennesimo episodio di alterazione, li aveva buttati tutti perché pensava fossero il male, il mulo testardo che ha continuato — anche dopo il definitivo, immotivato, licenziamento — a collezionare i disegni dell’amico recuperandoli dove capitava e proponendoli a svariate gallerie d’arte di di mezza Europa. Soprattutto, è stato colui che ha regalato a Everett True una maglietta con stampata sopra la copertina di Hi, How Are You?, ovvero il ritratto di Jeremiah, quell’essere mitologico con il corpo di rana, gli occhi di lumaca e la bocca di Nina Moric.
Everett True, al secolo Jeremy Andrew Thackray, è quello che — nell’ipotetico podio di cui stavamo parlando poco fa — occupa il terzo gradino e all’inizio degli anni ‘90 era il giornalista musicale più controverso (come si diceva allora — oggi diremmo “quello che generava più hype”) del rock. Cantore e cronista dell’epopea grunge — che ha visto nascere, fiorire e morire nel giro di meno di dieci anni — autore di libri dai titoli evocativi come Nirvana: The True Story e 101 Albums You Should Die Before You Hear, amico intimo di Kurt Cobain, ha avuto — per quel che riguarda la parte, diciamo, extra-giornalistica della sua storia — fondamentalmente un grande merito e una grande colpa: l’errore è stato presentare al leader dei Nirvana Courtney Love, l’idea geniale quella di fargli indossare una t-shirt. Quella t-shirt.
La prima, pessima, mossa è stata già dibattuta a dovere, in lungo e in largo, in altre sedi e al riguardo sono stati già versati fiumi di inchiostro e messe in fila lunghe code di bestemmie. Concentriamoci quindi qui sull’altra questione. Al netto dello sforzo necessario per soprassedere sul fatto che regalare a qualcun altro qualcosa che ti è stato regalato è veramente da maleducati, almeno chi pochi mesi fa si è visto appiccicare addosso l’etichetta di xennial si ricorderà la scena che prese vita dentro il suo televisore a schermo tutt’altro che piatto nel 1992, durante la cerimonia di premiazione degli MTV Video Music Award, categoria Best New Artist.
I Nirvana salgono sul palco a ritirare il premio con tutto lo scazzo che li ha sempre contraddistinti, vestiti come fossero usciti ora dalla sala prove e sfoggiando tre musi lunghi con su scritto “Perchè lo faccio? Non vedi che io non ci vorrei stare qui?”. Kurt Cobain dice due stupidaggini in croce, guardando dritto in camera, fingendo imbarazzo e improvvisando il mezzo sorriso di chi ti sta prendendo per il culo. Ha un caschetto di capelli biondi improponibile quasi quanto la camicia che inspiegabilmente esula sia dagli epici quadrettoni che dalla mitica flanella, ma che, completamente sbottonata, mette in bella mostra l’indumento che sta sotto: una specie di maglietta della salute bianca con su scarabocchiato un buffo disegno di un animale che non si capisce cosa sia. Pare un rospo, ma ha due occhi allungati come un lumacone e la bocca carnosa. Ai tempi Nina Moric non era nessuno, quindi diciamo che era una bocca come quella di Alba Parietti, che invece nei primi Novanta veleggiava alla grande sulla cresta dell’onda, prima donna a condurre un talk show sportivo, Galagoal su Telemontecarlo. Telemontecarlo che aveva appena lanciato la seconda rete del suo network, TMC2, nata dalle ceneri di Videomusic e sulle cui frequenze inizierà a trasmettere appunto MTV Italia, trasformando così l’introduzione della showgirl in questo discorso, da paragone potenzialmente campato in aria a elemento che magicamente chiude il cerchio.
A livello mediatico l’impatto è devastante: nei mesi a seguire in tutti i servizi fotografici che farà Cobain indosserà quella t-shirt, in tutte le interviste che rilascerà definirà Daniel Johnston “the best songwriter on earth”, dichiarando che Yip/Jump Music è il suo album preferito di sempre. La valanga si è staccata e ormai è troppo tardi per fermarla. L’unica speranza è scappare, ammesso di fare in tempo. Daniel non fa in tempo, probabilmente nemmeno si accorge di cosa sta rotolando giù dal pendio: a dirla tutta, anche lo avesse avuto, il tempo per fuggire, probabilmente non ne avrebbe approfittato, di proposito. Avrebbe atteso l’impatto a braccia aperte. Finalmente.
Fatto sta che all’improvviso, tutti vogliono sapere chi sia questo tizio, o forse sarebbe meglio dire chi sia questa maglietta, maglietta che inizia ad avere milioni di fan, fan che vogliono sapere di più su di lei, che vorrebbero vederla dal vivo, ascoltare i suoi dischi, comprare i suoi dischi. In altri termini — un po’ più attuali — la maglietta diventa virale.
La cosa paradossale è che nel frattempo, l’oggetto del desiderio in questione, di nuovo in ospedale, passa il tempo a gonfiarsi bevendo litri di Mountain Dew (la soda pop di cui si è innamorato, per cui scriverà anche una canzone che verrà rifiutata dalla Pepsi Corp.), attraversando in rapida sequenza gli stadi che vanno da goffo, a tarchiato, a grasso, a obeso a causa della combinazione fatale di zuccheri e medicinali. Tutto ciò senza avere la più pallida idea di chi siano questi Nirvana. Nonostante l’humor nero della sorte, che lo costringe ad assumere dosaggi improbabili di litio perchè, vista la quantità di liquidi che ingurgita, il suo corpo lo elimina troppo in fretta, prima che abbia effetto.
Phantom of My Own Opera
Virale, dicevamo.
Virale nel senso di virus. Ovvero una cosa che — se non curata a dovere e impiantata in un ambiente già tossico in partenza — rischia di degenerare.
L’ambiente tossico in questione è il periodo a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, che per Dan si rivela una sequenza di montagne russe spaventose, ritmate da una sinusoide a larga ampiezza di alti e bassi — sia umani che professionali — che rispecchiano fedelmente l’andamento della sua malattia e ci lasciano in eredità il meglio e il peggio di Daniel Johnston.
Nel computo dei primi, finiscono — nonostante tutto — sicuramente i dischi: da quel miracolo di piccola cacofonia polistrumentista che è It’s Spooky (composto e registrato insieme a Jad Fair degli Half Japanese), il bellissimo 1990 (impreziosito da un cameo di chitarra dei Sonic Youth e successivamente da una cover strappalacrime di Beck), l’inaspettatamente elettrico Artistic Vice e anche — sconfinando senza rimorsi nel nuovo millennio — il dignitosissimo Rejected Unknown, o il patinato Is and Always Was, in cui Daniel finalmente corona il sogno di registrare insieme ad una vera e propria band.
In mezzo, dieci anni di innumerevoli crisi, arresti e ricoveri in ospedale, come un cane che, nel tentativo di mordersi la coda, versa la maggior parte del latte su cui piangere a posteriori ogni sua lacrima di coccodrillo, il tutto secondo un pattern ben definito: troppa attenzione nei suoi confronti lo porta recidivamente oltre i limiti che è capace di reggere, in un ineluttabile falso movimento dove i momenti più belli diventano in un attimo avvisaglie attendibili di quelli più complicati che per forza seguiranno.
I casini erano già cominciati qualche anno prima con il suo ben poco trionfale ingresso nel mondo delle sostanze stupefacenti. Immaginiamoci un giovane cattolico devoto che arriva ad Austin a metà degli eighties: non beve, men che meno si è mai fatto di qualcosa, ha addirittura comunicato alla sua pseudo-fidanzata Kathy McCarty (cantante e chitarrista dei Glass Eyes) la ferma intenzione di non avere rapporti sessuali prima di un eventuale matrimonio. Per qualunque motivo — travolto dall’entusiasmo generale, per far colpo su una qualche tipa, per liberarsi del fantasma dei suoi genitori — comincia a fumare marijuana e a prendere LSD. La sua mente, già delicata in partenza, inizia a partire per la tangente e ci regala in dote una lunghissima serie di aneddoti che — raccontati così col senno di poi — fai fatica a decidere con quale etichetta categorizzarli: comici, drammatici, assurdi, tragici.
Nel 1987, dopo un’esibizione, colpisce violentemente alla testa con un tubo Randy Kemper, mandandolo all’ospedale, perché è convinto che sia posseduto dal demonio: ci sono sicuramente modi meno diretti di licenziare il proprio manager, ma bisogna ammettere che la tecnica dà i suoi frutti, visto che Kemper si defila “spontaneamente” tenendosi per ricordo un tot di punti di sutura e nel ruolo subentra appunto Tartakov. Dopo aver passato quasi un intero anno praticamente a letto sotto gli effetti dell’Haldol, essere ingrassato più di 90 chili, convinto che sarebbe andato all’inferno, nel 1988, smette improvvisamente di prendere i farmaci, e scappa a New York, dove per un po’ se la spassa in compagnia di alcuni membri dei Sonic Youth e dei Galaxy 500, prima di essere arrestato per aver disegnato svariati cristogrammi a forma di pesce sulla Statua della Libertà, guadagnandosi così un free ride sul bus di ritorno a casa, dove — per festeggiare — viene immediatamente fatto accomodare in un ospedale psichiatrico. Appena uscito, fa un salto a Chester in piena notte, si ferma davanti al negozio di bare del marito di Laurie e inizia sbraitare: una vecchina da una finestra del secondo piano gli urla di tacere e lui, di nuovo convinto che sia Satana a parlare, fa irruzione in casa sua per tentare di farlo uscire dal corpo mortale dell’anziana signora. La donna, terrorizzata, non vomita roba verde, ma per sfuggirgli, si getta dalla finestra rompendosi entrambe le gambe. Nel 1990 invece Daniel sembra stare un po’ meglio e viene invitato a suonare all’Austin Music Award. Dovrebbe essere una specie di ritorno a casa, una festa, ma lui ha di nuovo interrotto la terapia ed è abbastanza nervoso: è convinto che il diavolo lo aspetti anche là, in Texas, dove solo pochi anni prima era un idolo. Per sicurezza, lo accompagna — direttamente dalla West Virigina — il padre Bill con il suo aereo privato: il concerto va abbastanza bene, ma è il volo di ritorno è un disastro. Poco più a sud di Little Rock, a circa 6.500 piedi di altezza, Dan inizia a soffrire leggermente di mal d’aria e chiede di atterrare. Il padre gli spiega che non c’è una pista nelle vicinanze, e men che meno uno specchio d’acqua sul quale tentare un ammaraggio, ma solo un fitto bosco di pini, a perdita d’occhio. Lui, per tutta risposta, sfila le chiavi spegnendo il motore e le lancia nel vuoto fuori dall’oblò, suggerendo quindi di buttarsi, senza paracadute ovviamente. È convinto di essere Casper, il fantasmino che sa volare. Fortuna vuole che il padre sia un ex-pilota dell’aeronautica militare in pensione e — non si sa bene come — riesca a inventarsi un atterraggio di fortuna in mezzo agli alberi, praticamente distruggendo il veivolo ma garantendo un’incredibile incolumità ai due passeggeri. Daniel è soddisfatto e se la cava con un “Vedi? Te l’avevo detto che ce l’avremmo fatta.” giusto prima di aggredire un contadino che era accorso sul luogo per vedere se ci fossero morti o feriti e se qualcuno avesse bisogno di aiuto.
(No) Fun
I suoi deliri ricorrenti fanno sì che decida di mandare in vacca anche l’occasione più grande della sua carriera.
Nel 1993 Tartakov viene a sapere da un suo contatto all’Elektra Records che l’etichetta sarebbe interessata a mettere Daniel Johnston sotto contratto. Non si tratta di un solo disco, ma di un progetto a lungo termine, una roba da centomila dollari solo per iniziare. Daniel in quel periodo è in ospedale, ma l’incontro con i manager della label sembra comunque promettente — per quanto promettentemente surreale possa essere un business meeting nella sala d’aspetto di un istituto di salute mentale tra il vice-presidente di un’etichetta discografica e un paziente. L’accordo prevede un sacco di clausole concernenti le sue condizioni, ma la cosa mai successa prima è che sono tutte in suo favore: gli verrà garantita una costante assistenza medica, non avrà nessun obbligo di andare in tour, né potrà essere licenziato perché per motivi di salute non riesce a portare a termine la promozione di un album — probabilmente il contratto discografico più sbilanciato dalla parte dei diritti dell’artista mai firmato fino a quell’epoca. E anche dopo, direi. “Mai firmato” infatti sono due parole che qui assumono connotati profetici, visto che poche settimane dopo Daniel scopre che l’Elektra ha nel suo catalogo anche una band chiamata Metallica e fa due più due: l’etichetta è il braccio armato di una loggia satanica che in qualche modo vuole soggiogarlo e probabilmente James Hetfield e Lars Ulrich gli faranno visita a casa per ammazzarlo di botte e poi sacrificarlo sull’altare di un qualche culto non ben specificato. L’accordo salta, il trash metal ne esce per l’ennesima volta sconfitto dai pregiudizi dell’immaginario collettivo e l’ormai desideratissimo (siamo in piena “fase Cobain”) Daniel Johnston licenzia anche Tartakov, firmando subito dopo per l’Atlantic Records di Yves Beauvais, che nel frattempo si era inserito come un avvoltoio nelle trattative.
“I’m used to dealing with proven jazz artists and the cream of the crop of our catalog (Aretha Franklin, Ray Charles, Ornette Coleman) people who have an immense body of work behind them. When I ran into Daniel’s music I felt like I was running into a similar body of work. I first bought one cassette, then two, then three, then four, then all of them. I thought this guy was an absolute genius. His great melodicism, his use of everyday language in a very poetic and appealing way: simply unique.” — Yves Beauvais
Già: “unique” come Fun, il disco che uscirà il 20 Settembre del 1994, venderà la miseria di 5.800 copie e sarà appunto l’unica release di Daniel per l’Atlantic, dalla quale verrà licenziato nemmeno due anni dopo, il 23 Giugno del 1996.
Vedi alla voce bad product placement.
Stars on Parade
Il resto è cronaca dei nostri giorni: gran parte dei suoi dischi è praticamente introvabile, ma Daniel Johnston ormai è un classico.
Non sono molti gli artisti ancora in vita che possono vantare già due documentari (ok, diciamo un documentario e un cortometraggio: The Devil in Daniel Johnston del 2005 appunto — diretto da Jeff Feuerzeig e più focalizzato sulle alterne vicende della sua esistenza fin qui — e Hi, How Are You Daniel Johnston? — piccola biopic co-prodotta da Lana del Rey con velleità più artistiche che prova a raccontare, abusando di fin troppa poesia, una giornata del Daniel Johnston attuale mentre tenta di fare i conti con il proprio sé passato) e una graphic novel (The Incantations of Daniel Johnston, dell’illustratore spagnolo Ricardo Cavolo) sulla loro storia, uno stuolo di collezionisti / curatori / galleristi che si contendono ogni nuovo disegno che fa, e addirittura una app dedicata.
Mica male per uno che aveva iniziato con un mucchietto di cassette autoprodotte e che, a oggi — a parte rarissime eccezioni — vive e lavora a casa dei suoi dal 1991, quando suo padre Bill, la madre Mabel e il fratello Dick si sono trasferiti a Waller. Proprio Bill e Dick sono quelli che attualmente curano la parte manageriale di quella macchina commerciale che non ha mai smesso di girare (anzi, ha funzionato sempre meglio, negli anni) nonostante tutti bastoni che il suo motore stesso si è ricorsivamente impegnato a metterle tra le ruote, con costanza quasi sadica. Danno al figlio/fratello 10 dollari per ogni disegno che fa: lui usa la paghetta per comprarsi sigarette, bibite, caramelle, cd e dvd, loro vendono su eBay le illustrazioni a quindici volte tanto e girano i ricavi su un conto bancario che sperano possa garantirgli le necessarie cure anche quando mamma e papà non ci saranno più.
A dirla tutta, lo sforzo per mantenerla in moto, la “macchina commerciale Daniel Johnston”, è minimo: va da sola, si autoalimenta. Soprattutto, ancora — ancor più di prima direi — grazie alla costante spinta che arriva dall’esterno, le collaborazioni di qualità, i tributi da ogni dove, che spesso, a modo loro, riescono a rendere giustizia a canzoncine che avrebbero davvero potuto fare la storia del pop.
Un esempio più recente al riguardo è Fear Yourself del 2003, prodotto dal mai troppo compianto Mark Linkous (Sparklehorse) che ha il pregio (qualcuno dirà il difetto) di rendere non tanto commerciali, quanto almeno commerciabili, le canzoni di Daniel: la traballante e scheletrica scrittura originaria viene caricata di batteria, chitarre aggiuntive (anche elettriche) e tastiere, che la trasformano senza il minimo sforzo in power-ballad indiscutibilmente “mangia-classifica”, se mai ci fosse ancora una classifica da scalare. Sensazione questa che è amplificata all’ennesima potenza dal successivo (2004) The Late Great Daniel Johnston: Discovered Covered, doppio album in cui diciotto diversi interpreti (Teenage Fun Club, Bright Eyes, TV On the Radio, Flaming Lips, Mercury Rev, Eels, Tom Waits and so on) reinterpretano i suoi pezzi (disco 1) per poi subito dopo venire messi faccia a faccia con gli originali (disco 2). Il risultato del confronto è ovviamente del tutto soggettivo, ma quello che emerge è sicuramente la devastante potenzialità della composizione originale, se messa nelle mani di una produzione degna.
Qualcuno comunque storce il naso lo stesso, mettendo sul piatto una bislacca teoria secondo la quale l’esistenza stessa di una retrospettiva celebrativa della carriera di Daniel Johnston — la cui figura rappresenta da sola forse il più grande successo negli annali della musica “indipendente” — sia di per sé un paradosso: dove finisce la famosa “onestà” della sua musica quando l’approccio alle sue canzoni esce dai canoni di un ossequioso purismo? La domanda è stupidamente possessiva — potremmo dire tipica dei fan(atici) — ma apre comunque la porta su una voragine interpretativa che non lascia scampo. In altri termini, non è abbastanza ironico che un pover’uomo costantemente descritto come “the most unpretentious artist of our generation” abbia ispirato una così sentita ammirazione tra i suoi devoti tale da rasentare la venerazione?
Delle due l’una: o l’uomo non era poi così senza pretese — e, nel caso, non ci sarebbe stato niente di male — oppure siamo di fronte al più grosso fraintendimento della storia del rock.
Like a Monkey in a Zoo
La questione è tuttora irrisolta: per molti, Daniel Johnston è uno dei più grandi musicisti della sua era, nonostante (qualcuno invece giura grazie al fatto che) la maggior parte del suo catalogo consista in musicassette lo-fi che ha registrato da solo nel suo scantinato. Altri invece vedono in lui poco più di un buon cantautore la cui cruda sincerità in termini di esibizione di se stesso (inscindibile dalla sua condizione mentale) è stata — non si sa bene quanto (in)volontariamente — pompata ad arte da un non ben identificato DIY movement. Nessuno, in ogni caso, si tira indietro — nemmeno chi lo fa con l’intenzione di raccontare un’oscura parabola che valga come monito o avvertimento — quando c’è da celebrare il suo genio idiosincratico.
Non si può negare, in fin dei conti, che ormai ci siamo parcheggiati in quella zona d’ombra di quasi non-ritorno in cui — al giorno d’oggi — è praticamente tabù dire, scrivere, anche solo pensare qualcosa di minimamente critico nei confronti di Daniel Johnston. Per anni giornali, riviste e televisioni hanno continuato a gettare benzina sull’ipotetico fuoco della sua presunta (probabilmente reale, ma non è lì il punto) “pure and childlike soul” e — purtroppo — questo atteggiamento “canonizzante” da un lato ha reso quasi impossibile una valutazione onesta del suo immenso lavoro, dall’altro non ha aiutato nessuno, meno di tutti forse Daniel stesso.
Si è spesso dato per scontato che la sua musica sia un risultato diretto dei suoi (iper-documentati e sbandierati) problemi psichici, ma questo — semplicemente — non è vero. Sicuramente il disturbo bipolare che lo affligge (ora più o meno sotto controllo) ha influenzato le sue composizioni, ma non nel senso che intende la maggior parte della gente. È un dato di fatto che Dan sia sprovvisto di quei filtri che tutti gli altri cantautori usano per schermare i loro pensieri più oscuri, inappropriati o anche soltanto meno “commercializzabili”, e questo si riflette in una ripetizione ossessiva — senza il minimo ritegno o la minima paura di stancare — dei suoi due o tre temi ricorrenti. Ma la verità è che, proprio perché ha bisogno di vari medicinali per tenere sotto controllo la sua mania, praticamente non è mai stato capace di scrivere quasi niente durante le sue fasi di squilibrio: la maggior parte dei suoi dischi non suona scarabocchiata e ruvida perché il suo autore ha una malattia mentale, ma perché spesso è stata registrata in uno scantinato, su uno stereo portatile, con un organetto afasico ammaccato che ha le note scritte a pennarello sopra i tasti e con un grillo come accompagnamento.
Analizzando la cosa dalla visuale opposta, come in un sadico “campo e controcampo”, anche l’idea molto hipster che Daniel Johnston abbia trovato invece la sua unica, vera e disperata autentica voce attraverso un rifiuto a priori di qualunque tecnica di registrazione o conoscenza di teoria musicale, è altrettanto fuorviante. È sempre stato — fin da giovanissimo — un eccellente pianista (anche se il suo reale talento in questo senso non è mai emerso appieno — almeno fino alle meravigliose ballate contenute nei dischi dei primi anni ‘90), e anche quando ha sentito il bisogno di fare un po’ il buffone — simulando un bizzarro approccio dilettantistico alla chitarra — è stato fondamentalmente per tentare di integrarsi e di ingraziarsi la scena lo-fi di Austin, perché era l’unico modo per farlo.
Sempre Tartakov, una volta, rilasciò un comunicato stampa in cui pregava — giuro, pregava — i giornalisti di non usare la parola “genio” per descriverlo, perché avrebbe fatto esplodere il suo già di per sé fragilissimo ego: “I wonder if people go see him hoping to witness a nervous breakdown. Do they perceive him as their equal, or as someone they need to coax along and feel safe? As much as the audience may genuinely love his songs, I sense a lot of condescension. That’s always bugged me.”
Daniel stesso è molto più lucido, al riguardo, della maggior parte dei suoi fan: “Throw me a peanut / Laugh and make jokes / But I’ve had enough peanuts and I’m ready to croak / You say I’m cute / You don’t know how much that hurts.”
Probabilmente basterebbe leggere i suoi testi con un po’ più di attenzione per evitare di cadere negli stereotipi in cui non vediamo l’ora di cadere, per capire che il suo atteggiamento a prima vista infantile può farlo sembrare una mente semplice e incontaminata, ma in realtà è un omone sveglio, acuto e soprattutto consapevole: conscio di sé, della sua musica, della sua scrittura, della sua follia e di quello che ci si aspetta da lui in quanto figura semi-pubblica. Più di una volta ha avuto modo di chiarire — analizzando i suoi sbrocchi passati con tutta la limpidezza che in certi momenti lo contraddistingue: “I’ve just been talking weird, trying to make things interesting.”
Il cerchio si chiude: scacco (matto).
Saving Cigarette Butts
I Johnston oggi hanno un doppio garage. Da un lato ci abita la loro macchina, l’altro è lo studio di Daniel. I muri sono coperti — letteralmente coperti — di foto, disegni, ritagli: i Beatles, Star Wars, King Kong, Godzilla, Batman, Capitan America, anonime pin-up degli anni cinquanta, Marilyn Monroe. Le mensole sorreggono eserciti di dinosauri giocattolo, bambole, action figure di Star Wars, di King Kong, di Godzilla, di Batman, di Capitan America, dei Beatles. C’è un vecchissimo piano ridotto maluccio appoggiato al muro e un tavolo su cui giacciono un registratore, uno stereo portatile, un posacenere stracolmo di mozziconi per metà ancora da fumare e un paio di bicchieri contenenti una qualche bibita gassata, senza ghiaccio. Su uno scaffale svetta una quantità inimmaginabile di quaderni pieni di canzoni, sul pianoforte sono sparsi mucchi disordinati di cassette, spesso spaiate dalle loro custodie. C’è anche un microfono e un piccolo amplificatore Marshall. Un rimario in inglese e una Bibbia. La moquette sul pavimento va a braccetto con la cenere.
Il garage è la versione moderna — in alcuni angoli la copia esatta — dello scantinato che Daniel aveva da adolescente in West Virginia e costituisce — oggi come allora — il rifugio dove va tutti i giorni a scrivere, comporre, disegnare, masticare gummy bear, oppure solo ad ascoltare musica e a fantasticare di registrare alcune delle centinaia — migliaia, il fratello Dick ha stimato di poter mettere insieme circa 1500 registrazioni inedite — di canzoni che ha lì, disperse in giro. In pratica è la stanza dei giochi perfetta di un giovane adolescente messa a disposizione di un imperfetto adolescente di mezza età, uno che però — allo stesso tempo — non si risparmia gran parte della consapevolezza che compete a un cinquantenne. Stabilizzati gli episodi psicotici infatti, è per la maggior parte del tempo lucido e divertente, a tratti divertito, così come ha una memoria sbalorditiva di tutti i più piccoli dettagli della sua vita — anche se a volte si dimentica (o finge di dimenticarsi) di prendere le sue medicine. Sa qual è la sua reputazione — sia gli alti di quella musicale, che i bassi di quella comportamentale — così come non ignora quello che la gente pensa di lui. È ben conscio di quanto sia strano vivere ancora sulle spalle dei suoi, ma è altrettanto consapevole dei ben maggiori guai in cui potrebbe finire se abbandonasse di nuovo il nido.
Dipende in tutto e per tutto dalla sua famiglia, eppure gli si rivolta contro ogni volta che si sente troppo controllato, ma l’ha sempre fatto. Sembra solo, ma fondamentalmente lo è sempre stato. Difficile dire se sia felice. Se non lo è, sicuramente sa bene che il prezzo per un certo genere di felicità lui probabilmente non può permetterselo.
The Story of an Artist
Il che ci (ri)porta dritti a sbattere contro la solita, eterna, domanda senza risposta di questa storia: come si può dare all’opera l’esposizione mediatica che merita, preservando contemporaneamente la salute del suo creatore? Soprattutto quando il creatore stesso desidera questa esposizione come nient’altro al mondo, ma poi non è del tutto responsabile delle azioni che il peso della cosa potrebbe portarlo a compiere? Perché, se c’è una costante nella vicenda di Daniel Johnston, si tratta di questa: non importa con quanta cautela le persone che gli sono state accanto si siano mosse, lui ha sempre trovato un modo per mandare tutto a puttane. Amen.
Purtroppo, ammesso ci sia una soluzione alla cosa, andrebbe cercata in un territorio spinoso e delicato, quello nel quale ci si impantana senza speranza quando si va ad affrontare una questione bizzarra e complessa come questa, che dovrebbe in fin dei conti indagare se il nostro senso di responsabilità meriti essere indirizzato più all’artista o alla sua arte e decidere senza compromessi né esitazioni da che parte far pendere la bilancia. La risposta sarebbe semplice: a entrambi. Ma nel caso specifico la domanda andrebbe posta in maniera meno politically correct, ovvero: dovremmo omaggiare l’arte anche quando, probabilmente — così facendo — finiremo per distruggere la persona, quella persona che ha passato anni a immaginare la musica come una carriera, ma poi ha dimostrato di non saper gestire e sopportare né la fama da un lato, né il rifiuto dall’altro? Chi è che pone uno spartiacque? Cos’è che si pone come uno spartiacque? Qual è il limite oltre il quale decidiamo che no, basta così?
Fine, Thanks
Daniel (o più banalmente chi per lui) a quanto pare sente che quella soglia è stata calpestata, e quel momento è arrivato: cinque date per salutarsi frettolosamente e ora un’amara — o forse serena, solo lui lo sa, sicuramente forzata — pensione anticipata. Sarà vero? Who knows.
Per una volta, la sua debolezza è il nostro solo, ultimo punto di appiglio: dopotutto, se c’è una cosa in cui Daniel Johnston non ha mai brillato — per usare un eufemismo — è l’affidabilità. Quindi, anche in questo caso, viene naturale attaccarci all’unica cosa che ci rimane, ovvero quel suo costante non dare nessuna garanzia sulle decisioni prese, soprattutto se imposte da altri.
A voler essere sinceri, l’idea di farla finita con i concerti dal vivo pare tutt’altro che irragionevole: perché, se da un lato è vero che non ha nemmeno sessant’anni — per dire, Mick Jagger si farebbe una sonora risata — dall’altro bisogna considerare che ha combattuto con schizofrenia e disturbi maniaco-depressivi per tutta l’età adulta e ultimamente ha aggiunto alla lista dei suoi beautiful disease diabete, idrocefalo e una brutta infezione ai reni. Ora sta meglio, ma una breve passeggiata in cortile già lo lascia con il fiatone. Quindi — non che sia una novità in questa vicenda — continuiamo a rimanere in bilico su quel ponte sospeso dei desideri, tra ciò che sarebbe meglio per lui e ciò che sarebbe meglio per noi.
Le sue dichiarazioni — sfido chiunque a mostrarsi sorpreso della cosa — non aiutano in questo senso, ovvero non fanno altro che lasciarci costantemente in precario equilibrio tra questi due sentimenti contrastanti. Al dubbio, infatti, su se e quanto sia entusiasta di essere stato di nuovo, per un breve periodo, in tour, risponde con un lungo, sospirato “Ehhh,” prima di aggiungere un incerto — poco convinto, a tutti gli effetti — “a little bit.” Ma allo stesso tempo quando gli chiedi conferma sul fatto che questi potrebbero essere stati gli ultimi live della sua carriera, ti guarda sorpreso e, tra un tiro inconsulto dalla sua mezza Marlboro e un goloso sorso di succo di arancia da una grossa tazza di plastica, ribatte con un interrogativo apparentemente sincero: “Why would it be?”
Già, bella domanda.
“I can’t stop writing. If I did stop, there could be nothing. Maybe everything would stop. So I won’t stop. I’ve got to keep it going.”
Sono queste sue stesse parole, fresche come una breaking news gratuita che non abbiamo nemmeno il coraggio di andare a verificare, ad alimentare la speranza — fortissima — che, comunque vada, pur anche senza suonare più dal vivo nel caso, riesca ancora a pubblicare qualcosa: che sia un disegno, un cortometraggio, una canzone, un disco, un libro a fumetti, una registrazione cifrata su nastro BASF LH-60, non fa differenza. Sarebbe comunque il messaggio che vorremmo trovare, con cadenza regolare, in quella bottiglia che sempre galleggia sulla risacca che sono le nostre esistenze, promemoria ricorrente di come ogni tanto dovremmo ridefinire il lato lo-fi delle nostre vite scandite da meeting e appuntamenti robotizzati in un inferno di notifiche, uscire da quella comfort-zone fatta di crisi di nervi precarie e guerre tra poveri, smontare per un secondo l’illusione di stare sacrificando tutto sull’altare di una generica, qualunque alta qualità e lasciarci un weekend libero per giocare a essere i veri outsider di noi stessi.
Permetterci un ultima volta di chiederci — allo specchio, prima che a chiunque altro — Hi, How Are You? e prenderci il lusso di risponderci: bene, grazie.
Quindi sì: grazie Daniel, ciao.
Noi stiamo bene, o almeno è quello che ci piace credere.
Tu, piuttosto, come stai?
Non rispondere subito, non importa.
Pensaci un attimo, magari: la fretta è sempre una cattiva consigliera e l’urgenza — per oggi — abbiamo deciso di mandarla a quel paese, ovunque sia.
Se riesci, prova a seguire il tuo stesso consiglio: “do yourself a favor / become your own savior”. Altrimenti, fa niente. Aspettiamo comunque tue notizie, anche solo un cenno, uno di quei saluti abbozzati tra gente che se la intende senza troppe parole. O che comunque finge di.
Nel frattempo, take care.
Progetto grafico a cura di Francesco Pattacini