Questo non è un libro per Hollywood: se leggete solo per la trama comprate un altro romanzo, chiudete questo articolo. Qui si brancola nelle viscere del romanzo a piacimento.
In Dalle rovine ci caleremo dentro un Noi impersonale, un premuroso coro di spettri che segue il protagonista, Rivera, senza parlare e senza giudicarlo. Potremo così assisterlo mentre, nel suo volontario isolamento dal mondo, mosso da un’ipnotica lascivia si lascia scopare dai serpenti velenosi che alleva, l’unico tetro pubblico della sua vita. L’intuizione di riprendere l’atto con una videocamera e di portarlo al direttore di un cinema porno renderà Rivera il protagonista delle attenzioni di un importante produttore del genere. Così Rivera uscirà, temporaneamente, dalla sua comfort zone per lanciarsi in un mondo di emergenti e di riemersi, che consumano le lunghe notti e i brevi giorni ubriacandosi, fumando e raccontandosi come dei personaggi di Cortázar. Sullo sfondo, delle città che sono fondali, prive di geografia e popolate solo di fantasmi. Ma l’ingresso nella storia del porteño Tapia, autore di una sceneggiatura intitolata Dalle rovine, porterà gli emergenti a svanire e i riemersi a sbriciolarsi, inesorabilmente, sotto il peso di un progetto troppo grande e pericoloso da affrontare. Rivera a poco a poco tornerà nella sua solitudine, più allucinato dell’inizio, pronto a rinunciare perfino agli amati serpenti per farsi inghiottire dall’inevitabile compimento della sua follia.
Il mondo della pornografia in Dalle rovine ha ben poco a che fare con quella che consumiamo in veloci sessioni di Youporn: il sesso con le donne è solo “nutrimento”, un passatempo in fondo irrilevante nella costruzione del personaggio Rivera, che invece si sostanzia nel continuo rincorrersi di erotismo e morte. Rivera non ha paura dei suoi serpenti, che pure sono velenosi, così come non ha paura di scavare in segreti troppo sordidi e di lasciarsene ossessionare fino alle allucinazioni. Il Noi osserva, preoccupato, il deteriorarsi del suo stato mentale e del suo aspetto, come una madre caritatevole, ma Rivera lo zittisce in un palpito di aggressività che è il suo momento più lucido.
È un romanzo della penombra, nel quale ci si può far conquistare dagli evidenti richiami agli scrittori sudamericani (il già citato Cortázar, Bolaño), a costo di accettare che gli infiniti vagabondaggi dei protagonisti non sono allegri né vitali, ma somigliano di più all’agitarsi dei topolini pieni di presagi di morte prima di essere dati in pasto ai serpenti. Non sarà impossibile sentire compassione e tenerezza (e vi sfido a non lasciarvi andare a un sorriso quando appurerete che “in occasione di quel piccolo trionfo, il cuore di Rivera era una barchetta su un lago tranquillo“), ma bisogna essere disposti a farsi avvolgere dalla claustrofobia delle enormi case devastate, in cui i personaggi si trincerano come decameroniani, malinconici e malconci come un pezzo dei Massimo Volume.
Dalle rovine dà del suo meglio consumato di notte, bevuto d’un sorso come un liquore troppo forte. Nella sua atmosfera umida dovrete immergervi come se una notte partiste in auto per le strade di una metropoli vuota, in una passeggiata senza scopo, solo per farvi gelare le ossa e pensare. Questo parto di un esordiente (Luciano Funetta, classe 1986), che per ora ha pubblicato poco ma sicuramente ha letto tanto, si sta facendo strada dai sotterranei del mondo editoriale, spinto dal soffio del passaparola, guadagnandosi la prima ristampa in pochissimi mesi e menzioni entusiastiche come miglior esordio del 2015. È bello vedere come, in fondo, in tanti possiamo decidere di riservare fiducia a uno scrittore che non conosciamo, permettergli di affabularci e poi chiedergliene ancora, senza bisogno di farci prendere per il culo da fascette e fuochi d’artificio.