Cuties, non c’è nulla da temere

Stamattina sono triste, e non mi va tanto di chiacchierare. Così mia sorella è venuta a casa, a trovarmi, e come lei sa bene in questi casi c’è solo una cosa che valga la pena fare. “Vediamo un film”.

Il film era Cuties, Mignonnes in francese, il mediometraggio di debutto della regista franco-senegalese Maimouna Doucourè. Cuties è uscito lo scorso 21 Agosto, è stato premiato al Sundance Film Festival, ed è approdato su Netflix il 9 Settembre. Il mese scorso il film ha portato con sé una bella dose di polemiche a proposito della sessualizzazione di giovani ragazze da parte dell’industria culturale e dei social media. Questo appunto, in America e non, è stato come benzina sul fuoco cospirazionista di QAnon e le sue teorie sul traffico pedopornografico. Come ci dice Rebecca Sullivan su The Conversation, il fatto che possano prendere piede, così facilmente, tali sospetti complottisti, la dice lunga sulla difficoltà con cui si discuta ancora oggi della sessualità, della sua negoziazione e dei processi di soggettivazione tra le tween: quella fascia d’età che va dagli otto (a volte anche sei) ai dodici anni. Aprendo un dibattito sul terreno sbagliato.

Il film segue le vicende di Amy (Fathia Youssouf) una undicenne senegalese immigrata nelle banlieues di Parigi. La quotidianità di Amy è completamente assorbita e soffocata dalla comunità anziana di donne musulmane del suo quartiere, ossessionate da un presunto ideale di purezza, e dal definire, secondo posizioni religiose radicali, quale debba essere il ruolo più adeguato per una donna all’interno della società. E dalla madre, che sta attraversando il dramma personale del secondo matrimonio poligamo del marito.

Così Amy cerca qualcosa che la tiri fuori da questa impasse, e lo fa stringendo amicizia con Angie (Médina El Aidi-Azouni), che sorprende a ballare nella lavanderia del suo palazzo, mentre si acconcia i capelli con il ferro da stiro e l’asta da bucato. Ne resta folgorata. Proverà ad entrare a tutti i costi nella dance crew di cui fa parte Angie, ammaliata dalla spavalderia delle ragazze, dal modo disinibito in cui parlano del sesso, danzano, usano e si mostrano sui social. Angie stessa però, è a sua volta un’outsider, malgrado l’apparente provocazione, col suo fare sicuro. A un certo punto, in un momento di confidenza con Amy, le rivela che i genitori – che lavorano entrambi al ristorante, e che non vede quasi mai – non fanno altro che ripetere “che sono una figlia cattiva, e che non so fare niente”. “Però mi vogliono tutti bene. Vero Amy? Che mi vogliono tutti bene?”.

La campagna pubblicitaria di Netflix (che la stessa regista ha trovato opinabile), si era focalizzata in un primo momento esclusivamente sulle scene di danza più esplicite. Il fatto che queste fossero eseguite da undicenni, in hot pants e crop tops, ha fatto sì che politici conservatori e associazioni religiose chiedessero immediatamente al Dipartimento di Giustizia americano di investigare sulla produzione del film. Di lì a poco l’hashtag #CancelNetflix è salito rapidamente nei trend topic, portando al crollo le azioni della piattaforma streaming, che ha perso così circa 9 miliardi di dollari in un giorno solo.

 

Il film pone l’accento sui sentimenti ambigui coltivati da Amy, sia sull’attitudine sfrontata delle compagne, sia sulle pressioni della comunità religiosa conservatrice a cui la madre si affida. Non potrebbe essere altrimenti, se è vero che la prima adolescenza è il momento in cui l’elemento fantasmatico trabocca rispetto al simbolico, per dirla con Lacan.

Per chi volesse qualche elemento psicoanalitico in più: la nozione di fantasma, già introdotta da Freud nel saggio “Un bambino viene picchiato” (1919), viene elaborata in modo originale da Lacan in riferimento al rapporto costitutivo per la soggettività umana rispetto alla propria mancanza a essere. Lacan elabora il matema $<>a : “soggetto barrato punzone di a piccola”, per indicare la struttura di base del fantasma. Il fantasma rappresenta la messa in scena, la finzione strutturale rispetto al venire meno del soggetto di fronte al mancare della Cosa (das Ding). Il soggetto ($) risulta barrato a causa della sua divisione strutturale determinata dall’entrata nel linguaggio, ovvero nel registro simbolico. L’oggetto piccolo a è l’oggetto perduto del desiderio, l’immagine non rappresentabile della mancanza, a cui tuttavia si tende costantemente, senza sosta. L’oggetto a, in quanto perduto è una béance, una faglia, che il soggetto si sforza di otturare per tutta la vita, servendosi di oggetti a immaginari che la particolarità della propria storia induce a privilegiare. Il fantasma in questo senso funziona come una vera e propria macchina linguistico-pulsionale. In quanto relazione singolare di unione e separazione tra soggetto e oggetto – rapporto segnato dal simbolo <> – il fantasma si costituisce come una difesa di fronte al reale, ma anche come l’unica porta di accesso al desiderio per il soggetto. È qui che il dado si trae.

La negoziazione della propria identità, della sessualità e del proprio desiderio. La competizione sfrenata e il bisogno di accettazione, che portano Amy addirittura a spingere nel fiume una delle ragazze della crew, per prendere il suo posto durante l’esibizione finale. La violenza bambinesca con cui, più o meno inconsapevolmente, le ragazze approcciano Amy, lanciandole una pietra sotto un cavalcavia e ferendola alla testa, mentre le osservava ballare. Comportamenti da gang che riflettono la realtà delle banlieues, e che malgrado tutto non vanno registrati ed etichettati come una manifestazione deviante. Così come la curiosità ancora infantile riguardo al sesso, mentre le ragazze commentano assieme un porno, che guardano nel bagno della scuola; o quando Amy spinta dalle compagne prova a scattare una foto a un ragazzo che piscia, fallendo miseramente. O quando assieme ad Angie vìola il tabù della nuova camera matrimoniale, sigillata, e destinata alla seconda moglie del padre. O quando si scatta una foto in mezzo alle cosce, con il cellulare rubato ad un suo parente, per rispondere alle umiliazioni della crew rivale, per la sua biancheria da bambina.

Se è vero che in Cuties possa esserci traccia di una forma di voyeurismo, tuttavia funzionale alla narrazione, le accuse di sessualizzazione sono piuttosto miopi, per due motivi. Il primo: il concetto di sessualizzazione è stato introdotto nel 1975 dallo psicologo Graham B. Spanier per definire lo sviluppo dell’identità di genere e delle preferenze sessuali. Trent’anni dopo l’American Psychological Association (APA) ne ha fatto la cornice principale per ogni dibattito in merito allo sviluppo sessuale delle adolescenti all’interno della sua Task Force sulla Sessualizzazione delle ragazze. L’APA così facendo ha favorito una relazione doppia escludente tra una sessualità deviante e una “sana”, che pare rimandare unicamente ad una mutua accettazione del modello monogamo ed eteronormato. Enfatizzando eccessivamente il ruolo negativo dei media, e ignorando colpevolmente il ruolo di discorsi religiosi, familiari, medici ed educativi come pratiche opprimenti di carattere patriarcale, essa fallisce nell’inquadrare come un pericolo tali discorsi, e si mostra incapace di favorire l’affermazione delle identità non binary LGBTQ+.

Il secondo: la sessualizzazione non fuga le accuse di razzismo, nel privilegiare un ideale estetico femminile bianco. Le danze di Cuties rimandano al twerk o alla cultura hip hop, che è black culture per definizione. La paura che giovani donne emulino le danze nere mettendo a rischio la purezza dell’ideale bianco di “rispettabilità”, riflette uno degli attacchi più temuti dalla cultura dominante. A tal proposito resta deludente la sequenza finale del film, che vede Amy prendere sì le distanze dalla sua comunità religiosa, ma anche dalle compagne; che la rimanda comunque a giocare con la corda, cioè ad un’attività più infantile e percepita come meno problematica.

Piccolo gioiello la presenza nel cast di Mbissine Thérèse Diop, protagonista de La noir de… di Ousmane Sembène. Presentato a Cannes nel 1966, è il primo lungometraggio di fiction girato da un africano, introducendo così l’Africa nel circuito cinematografico mondiale. Il film racconta delle vicende di Diouana che lavora come domestica presso una famiglia francese borghese, in Costa Azzurra. È una denuncia del neocolonialismo e delle elites burocrati al potere in Africa, ma anche della condizione della donna nera rispetto alla donna bianca francese: schiavizzata, analfabeta, continuamente ridicolizzata e umiliata, ma orgogliosa delle sue origini e della sua cultura; così rifiuterà la sua condizione da serva, rintanandosi nel mutismo, e trovando come unica soluzione possibile il suicidio nella vasca da bagno. La sensazione di oppressione della protagonista non deriva però dalla sua posizione di donna delle pulizie, ma dalle dinamiche socio-politiche che hanno portato all’impoverimento dei suoi padroni, i quali una volta perduti i privilegi come cooperanti in Senegal, torneranno semplici salariati in Francia. È presente inoltre una costante tensione erotica (registrata dalla macchina da presa) tra il padrone e Diouana, percepita dalla padrona, che per questo le riserverà un trattamento sempre più sprezzante. Sarà quest’odio una delle principali cause del suicidio. “Lei non può dire di no, ma allo stesso tempo si trova in un mondo che la rifiuta. È rifiutata dalla sola famiglia che ha, il suo padrone e la sua padrona”.

A tal proposito, ci torna utile ricordare qualcosa in merito al concetto di male gaze, sviluppato in seno alla teoria femminista del cinema da Laura Mulvay, nel saggio “Visual Pleasure and Narrative Cinema” (1975). Secondo la Mulvay, nelle rappresentazioni visive ed estetiche del cinema narrativo il male gaze (lo sguardo maschile) ha tre prospettive: quella dell’uomo dietro la macchina da presa, quella dei personaggi maschili all’interno delle rappresentazioni cinematografiche del film; e quella dello spettatore, che guarda l’immagine. Nel cinema narrativo tradizionalmente lo sguardo maschile di solito mostra il personaggio femminile (donna, ragazza, bambino) su due livelli di erotismo: come oggetto di desiderio erotico per i personaggi della storia filmata, e come oggetto erotico del desiderio per lo spettatore maschio della storia filmata. Tali prospettive stabiliscono i ruoli di maschio dominante e femmina dominata, rappresentando la femmina come un oggetto passivo per lo sguardo maschile dello spettatore, attivo. L’accoppiamento sociale oppositivo dell’oggetto presentato come passivo (donna) e dello spettatore attivo (uomo) è una base funzionale del patriarcato, che ha perpetrato e rafforzato negli anni un’estetica testuale, visiva, e rappresentativa del cinema con ruoli di genere fissi, che hanno avallato il privilegio maschile e la sua differenza di potere culturale e sociale nella storia. Cuties ci offre qualche strumento in più, per lasciare alle spalle questo passato pesante. Per consentire alle giovani donne di agire attivamente con un’auto-reificazione: di divenire sguardo di e su se stesse, offrendosi o sottraendosi positivamente, in base alla propria volontà.

Lo smantellamento del modello eteronormativo, borghese, e patriarcale, che promuova una cultura della sessualità positiva e aperta, non necessariamente monogama, è l’unica priorità di cui tenere conto per l’educazione delle giovani donne. Senza di questo, la colpa e la vergogna – i due strumenti principali di cui si serve la sessualizzazione – continueranno ad avere la meglio, e a perpetrare in modo sistemico la cultura della molestia e della violenza.
Vedetelo Cuties, non c’è niente da temere.


Riferimenti bibliografici:
J.Lacan, Kant con Sade, 1963
R.De Luca Picione, Il fantasma per Lacan. Una breve introduzione.; European Journal of Psychoanlisis
R.Sullivan, Netflix’s Cuties ignites the wrong debate on young girls; The Conversation
L.Mulvay, Visual Pleasure and Narrative Cinema, 1975

 

 

 

 

 

 

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