Cura integrale: per una rivoluzione dell’amore

Se il ricatto dell’amore è al centro del Capitale, che cos’è l’amore?

Ho pronunciato questa frase cercando lo sguardo complice di una persona che non aveva né il cuore, né la fiducia necessaria per ascoltarle. Ma non c’è bisogno di essere vittime di una truffa ‘amorosa’ da manuale per capire il gioco addomesticante di questo ricatto. È il ricatto del lavoro. Non dell’amore.
Perché difatti, come ci dice Sarah Jaffe, il lavoro non ti ama.

“Ma il lavoro non ha sentimenti. Il capitalismo non sa amare”.

Il lavoro è lo strumento con cui ci ricatta il sadismo del Capitale, per ottenere approvvigionamento narcisistico. Il lavoro è il breadcrumbing con cui il narcisismo capitalista ci manipola, concedendoci briciole di attenzioni, ci tiene in sospeso, ci fa sentire in colpa, e ci vende il suo futurefaking. Promette futuri che non si realizzeranno mai. Concedendoci avvaloramento alla vita solo nella misura della nostra disposizione/devozione alla sua vampirizzazione.

Sto usando il corsivo per quelle che sono tecniche di manipolazione narcisistica, le ho studiate, dal momento in cui mi sono trovata a subirle. È sorprendente la similarità del funzionamento narcisista perverso con quello capitalista. Qualcuno parla anche di narcisismo maligno o psicopatia, e forse è la declinazione più calzante per quello che è il cuore pulsante e più antico del capitalismo: il patriarcato.

La psicopatia è anche nota come “la maschera della sanità”. Il delirio sadico della ragione di dominio che infesta l’amore. “Figlio sano del patriarcato” una dicitura più che puntuale. Ma tale follia senza delirio, tipica della psicopatia capitalista e patriarcale è per l’appunto una maschera di sanità. Dietro questa maschera funzionale si nasconde l’orrore. Un esempio cinematografico calzante è la figura di Patrick Bateman di American Psycho, sadico workaholico, idolo dell’alt-right e sogno bagnato della manosphera. Assassino e stupratore.

Qualcuno potrebbe rimproverarmi di patologizzare e medicalizzare un sistema finanziario – il capitalismo – e uno stato di dominio, il patriarcato. Bè, è proprio quello che intendo fare. Perché sono esattamente l’unica cosa che dovremmo patologizzare, sono precisamente La Malattia.

La pandemia da Covid-19 nel 2020 ha rotto un sortilegio potente: quello del lavoro come teologia, o addirittura come erotica. La pandemia ha fatto debunking alla manipolazione maniacale del reale da parte del controllo narcisista del Capitale. Tramite un virus, una malattia rivela il trucco – “mostra la sutura” come direbbero i Wu Ming – di quella che è un’altra malattia, ma ben più radicale e infestante: il capitalismo e la sua psicopatia sadica. Il capitalismo truffa il nostro amore, lo svuota, lo ruba, perché non ne possiede, non ne conosce il significato, e lo sostituisce con il lavoro, moralizza la nostra venuta al mondo. La pandemia rende visibile attraverso la morte, la catastrofe ambientale e il delirio capitalista. Dunque, l’orrore.

Però ecco che questo orrore, o se volete, la maschera rotta del narcisista, comporta un contraccolpo. Cioè i costi di questo orrore, del vaso di Pandora, vengono riversati non sulle classi dominanti o l’èlite politico-finanziaria, bensì sulle classi subalterne, sulla grande classe operaia che ha il suo nucleo nel lavoro di cura. Questo è il trionfo più grande della manipolazione narcisistica, la difesa più potente, ovvero la proiezione. Scaricare sulle vittime del suo dominio il costo della sua stessa rovina; degli aspetti più ributtanti e nauseabondi di sé, che la psicopatia capitalista prova a negare, esercitando crudeltà per mantenersi in vita.

Cercare di fare un discorso emancipatorio e rivoluzionario per deporre lo stato di dominio capitalista, passa necessariamente dal grado zero della lotta femminista: la visibilizzazione del lavoro domestico, o meglio, di cura. Un movimento su tutti: Salario al lavoro domestico. Una lezione che i movimenti femministi degli anni Settanta e la biopolitica avevano messo al centro della loro riflessione e della loro rivendicazione.

Per capire come siamo arrivati a questo punto occorre fare una piccola mappatura storica incrociata alla “teoria del valore”.
La tradizionale posizione marxiana ed engelsiana fa coincidere la riproduzione della forza lavoro – ovvero il suo fondamento ontologico – con la sola capacità di acquisto, attraverso il salario, dei beni di prima necessità. Questo argomento ‘a posteriori’ ha il vizio di occultare il fondamento, la base della macchina produttiva operaia di cui si appropria il capitale, il lavoro che crea il testo/tessuto sociale: il lavoro riproduttivo, domestico e di cura.

« L’«arcano dell’accumulazione» capitalistica presuppone allora, come la critica femminista ha mostrato, l’«arcano della riproduzione», vale a dire quell’operazione di occultamento, naturalizzazione e svalutazione di quest’ ultima, al fine di renderla materia di un’ulteriore, per quanto indiretta, estrazione di plusvalore. »

– Federica Giardini e Marina Montanelli, Dinamopress, Maggio 2018

Così la specifica divisione sessuale del lavoro imposta agli albori della modernità come argomento invece ‘a priori’ della transizione al capitalismo, rimane la più radicale storia occulta su cui fare luce. Il silenzio storico sulle origini della contrattualizzazione sessuale del lavoro riproduttivo è la prima frode economica del capitalismo. Quella definita da Silvia Federici come “il patriarcato del salario”. La separazione stessa tra ambito della riproduzione e ambito della produzione, dunque, non è un dato immutabile, al contrario ha una storia, che culmina con l’invenzione della casalinga a tempo pieno negli anni Cinquanta.

Sarah Jaffe, Foto di Janice Checchio

Jaffe nel suo “Il lavoro non ti ama” ci racconta la storia di Ray Malone, attrice e performer britannica, madre single. Ray non può contare sulla precarietà del lavoro teatrale per mantenere se stessa e sua figlia, così accede all’Universal Credit, una misura di welfare simile al nostro reddito di cittadinanza. Quando prova a iscrivere Nola, la figlia, ad un asilo pubblico, la funzionaria con cui si interfaccia trova opportuno ricordarle che “le persone dovrebbero guadagnarsi da vivere con il proprio lavoro”. Come scrive Federici, nella società precapitalistica le donne avevano accesso a beni e risorse collettive, ma con il grande addomesticamento che il capitale opera attraverso il terrore della caccia alle streghe, sono le donne stesse a diventare beni comuni, poiché il loro lavoro fu definito una risorsa naturale esistente al di fuori della sfera dei rapporti di mercato.

Potremmo usare un’altra similitudine della manipolazione narcisistica, ovvero il lovebombing: la girandola di attenzioni smisurate, gesti eclatanti, complimenti melliflui e ricattatori per massimizzare la truffa amorosa nei nostri confronti. L’accumulazione originaria della psicopatia narcisista del capitalismo, solo che durante la caccia alle streghe il grande camuffamento della maschera dell’amore non era ancora calata sul volto del capitalismo, che difatti ha potuto mostrare il suo vero volto, orribile e terrifico. I roghi sono stati quindi lo strumento manipolatorio di quello che potremmo definire come nient’altro che terrorbombing.

L’amore che produciamo e sperimentiamo nei nostri rapporti affettivi e all’interno delle nostre famiglie non sono frutto di una falsa coscienza, ma è esattamente di questa nostra capacità di produrre amore e legami che la psicopatia capitalista invidia, e inietta il ricatto del lavoro al fine di appropriarsene.

Il socialismo utopistico propose dei modelli di collettivizzazione nella crescita dei bambini e del lavoro di cura. Aleksandra Kollontaj, Commissaria del popolo e prima ministra della storia, nell’URSS dei primi del Novecento, si impegno fortemente per il riconoscimento economico da parte dello Stato della funzione sociale della maternità. Il lavoro domestico venne collettivizzato con nidi pubblici, mense, lavanderie, e nel 1920 fu legalizzato l’aborto. Incredibile, come oggi, il passato sembri più futurista del futuro.

Lo stato socialista offriva quei servizi che permetteva alle donne di non dipendere dal salario dei mariti. I cambiamenti sociali soprattutto nella nuova riorganizzazione della famiglia non furono di facile digestione, pertanto nel 1936 si assiste ad una notevole marcia indietro con la restaurazione patriarcale della famiglia di Stalin.

In America, la dreamland, le lotte operaie per la conquista della giornata lavorativa di otto ore portarono al cosiddetto compromesso fordista. Tra la fine della Grande Depressione e gli anni Sessanta le cose sembravano aver raggiunto un certo equilibrio tra interessi del capitale e scioperi. Fu con il neoliberalismo negli anni Settanta, gli anni dello shock petrolifero, della regressione, di Pinochet, Reagan, e Thatcher, che assistiamo allo smantellamento dei corpi sociali e la privatizzazione.

“A chi aveva di meno, il thatcherismo offriva il piacere della crudeltà, la solidarietà negativa del vedere gli altri diventare ancora più poveri a causa dei tagli al welfare”.

Il neoliberismo della psicopatia capitalista ci ha truffato ancora una volta, con il solito trucco, venderci la libertà non dal lavoro, ma attraverso di esso.

All’alba del lavoro salariato nessuno pretendeva che fosse piacevole, l’alternativa costruita ad arte dal capitalismo era, banalmente, morire di fame. Gli scioperi, le lotte, i sabotaggi portarono al riconoscimento di forme di welfare dal sapore comunque punitivo e ricattatorio, per cui la possibilità di un lavoro salariato era sempre preferibile all’inattività. È la ricetta delle Poor Laws inglesi ereditata da formule come quelle dell’Universal Credit, un nome, come dice Jaffe, dall’inquietante sapore orwelliano.

Dall’inizio della rivoluzione industriale fino a ventesimo secolo inoltrato le officine ospitavano anche la mano d’opera a basso costo di donne e bambini. Donne che a casa avrebbero avuto comunque il compito di oliare la macchina domestica, vennero così ben presto al pettine i cosiddetti “doppi turni”.

Negli anni Settanta lo scontro tra le classi, e interni, alla stessa classe operaia, portò i movimenti femministi alla lotta per due grandi riconoscimenti per riappropriarsi dei mezzi di produzione, per così dire: il divorzio e l’aborto. L’aborto è stata la chiave di volta della caccia alle streghe, il controllo femminile sulla fertilità umana.

In America nel 1966 venne fondata la National Welfare Rights Organization, un gruppo di attivisti che cercava di sfidare la politica di sorveglianza del welfare americano, mettendo in discussione radicalmente la concezione di lavoro e lavoratore, e l’idea capitalista di famiglia.

“Il welfare è come un matrimonio ipersessista. Al posto del marito hai lo Stato, solo che non puoi divorziare se ti tratta male e se gli gira ti butta in mezzo a una strada, e in quel caso si tiene pure i figli”.

Quindi le donne della NWRO contestavano l’idea stessa che bisognasse lavorare per campare, e chiedevano un reddito minimo garantito. Salario al lavoro domestico come prospettiva politica ebbe il merito di denunciare il collasso della distinzione tra “società” e “luogo di lavoro”, e di denunciare la totale sfilacciatura e appropriazione capitalista della capacità umana di produrre cura, rapporti, relazioni, valore sociale. Famose le parole di Thatcher “Chi è la società? Non esiste niente del genere! Esistono gli individui, uomini e donne, ed esistono le famiglie”.

Salario al lavoro domestico, dunque, apriva la strada per la visibilizazzione della più grande manipolazione del capitale, il nascondimento del nostro lavoro.

Federici scrive negli anni Settanta “Sfortunatamente, molte donne – soprattutto donne non sposate- temono l’idea del salario al lavoro domestico perché hanno paura di identificarsi, anche per un istante, con la casalinga. Sanno che è la condizione sociale con minore potere nella società, e non vogliono fare i conti con il fatto che sono casalinghe anche loro. Ma proprio qui sta la nostra debolezza, perché proprio il fatto che non ci identifichiamo con questa condizione mantiene e perpetua il nostro asservimento”.
Questo ragionamento è fondamentale per capire perché, anche da sinistra si è sussunta la logica capitalista della teologia del lavoro salariato, nel momento in cui si trattava di scegliere i soggetti rivoluzionari, che si tratti di stalinisti, trotzkisti, anarco-libertari, etc.

Ancora oggi, suona incredibile fare un’affermazione come: siamo tutte casalinghe, tutte schiave, tutte anziane e tutte bambine, siamo tutte carcerate, siamo tutte prostitute! I soggetti più deboli, sul cui lavoro invisibile, non salariato, il capitale e la sclerotizzazione statale costruiscono il loro dominio.
Questi sono i soggetti rivoluzionari.

Silvia Federici

Quando parliamo di lavoro di cura, parliamo della vita stessa messa a lavoro. Ecco perché trovo molto calzante l’espressione che utilizzava David Graeber nel suo “Bullshit Jobs”, quando ci parla della rivolta delle classi di cura. Un’espressione che annulla la tradizionale separazione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, unendoli in un’unica grande classe operaia che genera valore sociale, e tanto meno viene retribuita, quanto più essenziale alla vita è il suo lavoro.
Unica (considerevole!) eccezione è quella dei medici.

Nel testo della Jaffe troviamo una panoramica articolata di quelle che sono le maestranze della nuova classe di cura che va dalla maternità, ai lavori domestici, alla figura del commesso, degli insegnanti, degli infermieri, ma anche il ricercatore, l’artista, la programmazione. La sindrome da burnout venuta fuori con la pandemia è solo il sintomo ultimo dell’abuso narcisistico della mania capitalista.

Ma da dove ha origine quella che definiamo ‘teologia del lavoro’?

Il lavoro come attività punitiva, gravosa, annichilente è generalmente proposta come contrapposta al gioco, alla creatività che si fa per piacere. Graeber ci dice che questo modello è riconducibile al mediterraneo orientale, le cui traccie si trovano nei capitoli iniziali del libro della Genesi, o nel mito di Prometeo: la necessità per gli uomini di lavorare è la conseguenza punitiva diretta dell’atto di aver sfidato il Creatore divino, ma allo stesso tempo quel lavoro rivela le nostre stesse qualità creatrici, il nostro potere, le nostre capacità di curare e produrre.

L’idea protestante del lavoro punitivo come atto meritevole in sé, attraverso cui meritarsi una contropartita nel mondo ultraterreno. Tuttavia i lavori di fatica, di cura, e salariati già nel mondo classico erano salutati con timore. Di fatti, si occupavano delle questioni sociali e politiche solo i maschi ricchi. Il protestantesimo popolare con forti radici puritane, non solo celebrava il lavoro, ma ecco che il lavoro diventava un dovere morale sacro, a dispetto dell’oziosità dei ricchi.

Oggi sappiamo che anche i ricchi ci tengono a dimostrare di essere oberati di lavoro, anzi di lavorare meglio di tutti. In una sorta di darwinismo sociale abbiamo inventato il lavoro punitivo come forma di disciplina ad esistere. Il lavoro come “cilicio secolare”, come battesimo al sacrificio della gioia e del piacere. Abbiamo creato un masochismo diffuso, attraverso cui il dolore del lavoro, apre l’unica via accessibile al piacere. Piaceri effimeri però, che non ci danno il tempo e lo spazio di immaginare nuove possibilità, fuori dalla coercizione sadica del capitalismo. Quello che ne risulta è un clima di odio diffuso, per cui chi lavora prova risentimento verso i meno fortunati, o chi non ha occupazione salariata. Coronando quello che è il capolavoro della manipolazione capitalista: mettere gli sfruttati gli uni contro gli altri. Divide et impera.

La nascita del feudalesimo manageriale, espandendo il terzo settore, con un gradiente di lavori da ‘passacarte’, ha abbassato ulteriormente le condizioni salariali e contrattuali della classe operaia della produzione e della cura. Dalla Grande Depressione degli anni Trenta l’automazione espulse milioni di persone dal lavoro produttivo. Per cui il grande camuffamento della manipolazione capitalista ha cominciato a inventare occupazioni senza senso: il cosiddetto feudalesimo manageriale. Quindi tanto a destra, quanto a sinistra, la profonda radice teologica del lavoro: solo attraverso di esso e nel timor di Dio delle classi più alte, la classe operaia produttiva e di cura può esprimere la sua stessa umanità.
Se con un colpo di spugna eliminassimo tutti i lavori superflui da terzo settore inventati dalla manipolazione capitalista, ecco che vedremmo materializzarsi la catastrofe annunciata negli anni Trenta, la disoccupazione di massa.

David Graeber

Ma perché vederla come una catastrofe? Perché non andare a vedere il bluff del gioco capitalista? Perché stare ancora al gioco, innanzitutto. Le femministe di Salario al lavoro domestico avevano visto il bluff, svelato il trucco. Perché se l’uso delle macchine e della tecnologia ha già di fatto prodotto la invisibile disoccupazione di massa, vediamo l’eccesso di tempo libero come un problema. Per evitare la coesione delle classi operaie di cura, in parole povere: la rivoluzione.

Uno dei motivi che ha impedito l’economia comunista di funzionare bene fu forse proprio lo scarto tecnologico, cioè l’assenza di tecnologie che consentissero di automatizzare la grande mole di informazioni. Oggi tutto questo è possibile. L’unica tecnologia che non è possibile pensare è quella che preveda di sostituire i capitalisti stessi. Trovata l’incognita.

Per cui ecco che la proposta di un reddito minimo universale andrebbe a vedere il bluff del capitale, sulla scia delle lotte femministe, svincolando il diritto alla vita dal lavoro, e costituendoci come operaiato di cura. Fuori dal ricatto sadico, potremmo riscoprire la gioia delle nostre relazioni, di avere potere sulla nostra cura e la nostra produzione. Potremmo fare ciò che vogliamo.

La psicopatia crudele e sadica del capitale ci presenta come reale quello che è un suo trucco, una sua manipolazione. Noi abbiamo il dovere non solo di mostrare il trucco, la sutura, ma di dire basta, no. Inventare qualcosa di completamente diverso. Il gioco del BDSM ci dà sempre la possibilità di interromperlo con la ‘parola di sicurezza’. Invece non è possibile “dire ‘arancia’ al tuo capo”.

Foucault sembrava stesse andando in questa direzione: nella sua distinzione tra ‘potere’ e ‘dominio’. «Il potere non è il male. Il potere significa giochi strategici. Sappiamo bene che il potere non è il male! Prendiamo, per esempio, le relazioni sessuali e amorose: esercitare il potere sull’altro in una specie di gioco strategico aperto, in cui le cose possono essere ribaltate non è il male; fa parte dell’amore». Così come sappiamo che la fatica e la produzione, la capacità di creazione non sono il male, bisogna tuttavia liberarle – come il nostro amore – dallo stato di dominio della tirannia sadica. Quindi quella attorno alla quale Foucault gira è una teoria della liberazione sociale attraverso la ‘parola di sicurezza’. Come possiamo dire ‘arancia’ al nostro capo, ad una persona violenta, a chi ci minaccia per la vita? Allora ecco che il reddito minimo universale, e in parte l’automatizzazione, farebbero saltare la patch che il capitalismo ha provato in tutti i modi a manipolare, con il feudalesimo manageriale. Sarebbe il nostro zero contact con l’abusatore narcisista; la nostra parola di sicurezza: ‘arancia meccanica’.

Il titolo è tratto da questo manifesto
Exit mobile version