Hanno scritto molto di “Crossroads”, l’ultimo romanzo di Jonathan Franzen (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi), ma soprattutto lo hanno fatto con così tanto anticipo che già dopo dieci minuti dall’uscita in libreria, ignare lettrici e lettori erano inondati dall’entusiasmo di analisi forbite e paragoni altisonanti. La buona notizia, però, è che l’opera merita ancora più attenzione di quella già ricevuta in occasione del lancio e che, auspicabilmente, se ne parlerà per molto come punto di svolta della produzione dello stesso Franzen. Lo scrittore, già consacrato nell’olimpo della letteratura contemporanea statunitense dopo il suo capolavoro, “Le correzioni”, l’altro grande successo, “Libertà”, e un penultimo romanzo più claudicante, “Purity”, mostra un nuovo sé scrivendo ancora di periferie statunitensi, ma innestando in questo racconto, di cui era già maestro, una nuova dimensione storica e metaforica e un’accurata ricerca linguistica, pregio mantenuto intatto dalla traduzione italiana.
Scrive Maggie Doherty su The New Republic, in occasione della pubblicazione negli USA, che Crossroads è «un romanzo che racconta come si diventa una brava persona», ma prima ancora di illustrarne il contenuto, partirei con un blando disaccordo. “Crossroads” è un romanzo i cui personaggi sono ossessionati dai buoni propositi e dalla speranza cieca di diventare brave persone, certo, ma per loro nulla cambia mai radicalmente e tutto ciò che rimane sono sempre e solo velleità. In una canzone indie italiana di quasi dieci anni fa (come vola il tempo), cantavamo: «Le velleità ti aiutano a dormire. […] Le velleità ti aiutano a campare quando mancano sei giorni all’analista» e non voglio certo dire che abbiamo anticipato Franzen, per carità, ma in qualche modo c’è una corrispondenza fortunata tra questi concetti e l’intera essenza di “Crossroads”, in cui i membri della famiglia protagonista, gli Hildebrandt, vogliono disperatamente essere buoni, bonificare la loro intera essenza, ma si scontrano mestamente con la realtà delle loro pulsioni e dei loro egoismi.
La struttura del romanzo e i suoi protagonisti
“Crossroads” è il primo tassello di un progetto più ampio, inizialmente pensato come unico romanzo diviso in tre parti e poi strabordato in un primo, corposo romanzo di seicento pagine al quale seguiranno altri due libri. Lo chiamano “trilogia” in molti articoli, ma la verità è che Franzen stesso spiega a David Reminck del New Yorker che non ama tanto la definizione, piuttosto nella sua mente lo definisce più che altro un «trio of novels», un terzetto di romanzi autoconclusivi e indipendenti che manterranno fili di connessione nei personaggi, o almeno è questa l’ipotesi, e che si distanzieranno di venticinque anni esatti l’uno dall’altro. Cinquant’anni di vita di una famiglia del Midwest statunitense, materia che Franzen conosce perfettamente, e che inizia nel 1971 con le vicende degli Hildebrandt. Il terzetto di romanzi ha, però, un nome che già da solo basta a definire eccezionale il lavoro di Franzen: “A key to all mythologies”, citazione dell’opera pretenziosa e incompiuta dell’Edward Casabaun del “Middlemarch” di George Eliot, scrittrice britannica amata da ogni autrice e autore che si rispetti. I paragoni si sono sprecati, ma anche in questo caso il mite Franzen anticipa tutti, anche se non l’hanno ascoltato, specificando che la citazione del capolavoro della letteratura britannica è voluto e fortemente ironico, ma che i paragoni finiscono quaiperché manca, completamente, il giudizio morale che caratterizza Middlemarch. Il perché sia importante questo mancato giudizio morale è presto detto.
“Crossroads” è il nome di una comune giovanile costola di una chiesa a New Prospect, Chicago, ambiente che Franzen sa descrivere con dovizia di particolari perché molto simile alla sua esperienza personale (si veda il saggio “Zona Disagio”). Ma “Crossroads”, bivi in italiano, è anche la metafora del momento storico intercettato da questo romanzo: gli Stati Uniti sono a un bivio sociale e politico inasprito dalla guerra in Vietnam, l’aumento dell’abuso di droghe e la nascita di numerosi movimenti per i diritti civili che rivoluzionavano la società dell’epoca. Solo pochissimo tempo dopo, gli USA avrebbero vissuto il Watergate, punto nodale di una crisi identitaria della società americana che sarebbe durata a lungo. E in bivi personali altrettanto distruttivi si trovano i protagonisti di questa storia, le cui psicologie sono forse le più profonde mai tratteggiate da Franzen in tutta la sua opera.
Russ Hildebrandt è il patriarca di questa famiglia della periferia americana. È il pastore, estremamente problematico, della chiesa liberal cittadina, la First Reformed Church, completamente perso nella ricerca della soddisfazione personale a discapito della sua reputazione e integrità. Lo si incontra mentre il suo matrimonio con Marion è in profonda crisi e la sua posizione di rilievo in Crossroads viene soppiantata dal lavoro dell’ex amico Rick Ambrose, più capace di lui nella gestione degli adolescenti. Le delusioni si sommano e per tutto il romanzo Russ sarà in balia delle proprie pulsioni per la giovane e affascinante vedova Frances Cottrell, la classica «clueless white lady» in una periferia totalmente bianca. Marion Hildebrandt è, invece, una donna che si è calata per trent’anni nel ruolo di anonima consorte di periferia, ma poi qualcosa si spezza e diventa un fiume in piena tra ricordi della passata gioventù, strascichi di una malattia mentale messa a tacere con la forza, e un tanto vanesio quanto ingombrante desiderio malsano di dimagrire a colpi di sigarette senza filtro. Russ e Marion hanno quattro figli: l’immacolato Judson, nove anni, l’unico a salvarsi in questo consesso di peccatori, poi Perry, Becky e Clem. Il più grande, Clem, combatte il suo bisogno di giustizia morale convincendosi che il suo apporto alla guerra del Vietnam è più che fondamentale; Becky, invece, è alla ricerca spasmodica di celebrità e amore in Crossroads; e, infine, Perry, il più geniale di tutti, ma anche il peccatore più plateale, quello a cui Franzen dedica un occhio di riguardo letterario.
Ciascuno di questi personaggi dimostra un’incredibile facilità di fallimento, pur nella vocazione fortissima alla moralità e alla fede testimoniata da un cogitare introspettivo mai visto nelle passate opere di Franzen; ma come si diceva non c’è ombra di giudizio, soprattutto quello citato per “Middlemarch” poc’anzi. Anzi, l’autore accompagna le vicende dei protagonisti con una placida narrazione da cui è difficile staccarsi e una consapevolezza che le persone possono essere buone e cattive contemporaneamente, o passare da una condizione all’altra in qualche riga. “Crossroads” è pieno di persone cattive, di ferocia e bassezze morali inarrivabili, ma Franzen non è qui per valutare la condotta dei personaggi che costruisce; lascia che siano lettrici e lettori a intendere l’inaccettabile che, puntualmente, si verifica. Metafora viva e inaspettata di questa scelta autoriale è la vicenda personale di Clem, di cui si comprende la caratterizzazione sono nel finale che ci si aspetta, vero, ma che non si vuole. E qui la furbizia dell’autore è ancora l’elemento chiave: ambientare tutto negli anni ’70, a distanza di cinquant’anni, allontana nel tempo il peccato e, in un certo senso, rende tutto più tollerabile per chi legge.
Il parallelo col presente
“Crossroads” è un romanzo storico metafora del nostro presente: gli stessi cambiamenti sociali e politici, grandi movimenti per i diritti civili e uno scontro intergenerazionale continuo e di rottura. Non è un caso che Franzen abbia scelto gli anni ’70 per dare il via al suo progetto letterario, illuminato dalle similitudini ma anche da una robusta conoscenza personale di un mondo in cui lui stesso è stato giovanissimo protagonista. Più casuale, invece, almeno a detta di Franzen in una recente intervista, la forte presenza di Dio e della fede religiosa, unico appiglio salvifico per quasi tutti i personaggi. Memorabile, a tale proposito, la conversione repentina di Becky durante un concerto serale di Crossroads con punte di comicità alla Franzen impossibili da dimenticare, un piccolo grande miracolo della scrittura. Per il resto la religione è completamente alla mercé di cogitazioni private e personali, punizioni autoinflitte e assoluzioni fai da te, Russ e Marion in primis. Unica eccezione l’adolescente Perry, il cui dialogo da ubriaco con gli uomini di chiesa durante una festa lo espone come genio e coraggio in un mare dilagante di libere interpretazioni.
Certo è che tutti i protagonisti di “Crossroads” vivono una sincera crisi esistenziale da cui non c’è salvezza, né con l’autoassoluzione, né con severe punizioni, elemento che richiama la «Crisis of confidence» dell’intera società statunitense denunciata dal presidente Carter poco dopo, nel 1979.
La contemporaneità fa capolino anche nella scelta di Franzen, uomo bianco esperto di uomini bianchi alla Russ, per intenderci, di inserire personaggi neri e Navajo in punti specifici del romanzo, culture verso le quali Russ è estremamente rispettoso, lui con un passato a New York a marciare con Stokeley Carmichael per i diritti civili negli anni ’60. E da qui l’annoso problema: può uno scrittore bianco scrivere di neri e Navajo? Franzen ci va cauto: non tollera la limitazione all’inventiva di un autore, ma ammette che è fra le sue priorità scriverne rispettando i propri limiti. Ed è per questo che a Russ regala una coscienza civile più forte della sua moralità e che di altre culture scrive sempre e solo attraverso quel filtro, l’unico che gli appartiene.
In questa sinfonia sulla famiglia americana che si sgretola, però, Franzen sorprende con l’altro personaggio meglio riuscito, dopo Perry: Marion, la matriarca degli Hildebrandt. Lo scrittore americano ha dichiarato che quel livello di conoscenza dell’animo femminile deriva dalla convivenza stretta con la propria madre, figura problematica e complessa. Marion è talmente brillante che sovrasta anche l’umiliazione continua di Russ e il deragliamento degli altri figli nella struttura del romanzo. Marion è una furia, una macchina di pensieri e assoluzioni, è a lei che Russ volgerà il suo fastidio più violento e sarà, poi, a lei che chiederà scusa come un bambino in occasione della sua redenzione. È possibile che uno scrittore riesca a delineare così bene un personaggio femminile? Succede poche volte, a mio parere, ma Marion è l’eccezione che conferma questa regola.
In conclusione
Nella già citata intervista al Corriere Franzen dice, candidamente: «Io naturalmente spero di finirlo, il mio progetto», riferendosi agli altri due romanzi di questa terna. Accogliamo questa ammissione con un leggero terrore di non leggere altro di nuovo in futuro, ma la verità è che “Crossroads” sta in piedi anche da solo e basta a sé stesso pure con quel finale. Questo succede perché a bastare sono Marion, Perry, Russ e quella struttura a capitoli tematici, ciascuno dedicato a un personaggio per volta, in un ordine rigoroso in cui lo spessore infinito di un autore fa capolino nelle leggere sovrapposizioni dei punti di vista e nel linguaggio omogeneo e curato, in cui ogni parola ha il suo posto e il suo significato e tutto riconduce a un intento nobilissimo: raccontare questa America con le chiavi del passato. E per indagare una nazione è sufficiente indagare ancora la dissoluzione della sua idea di famiglia, così come era stato per “Le correzioni”, minata alle fondamenta da aspettative e peccati. Famiglie che, nell’opera di Franzen, sono simbolo di una umanità, bianca, più vasta ma sempre imperfetta e pateticamente irrilevante nonostante le proprie velleità.