Cos’è successo al Radar Festival

Questo articolo avrebbe dovuto essere un semplice live report, ma troppe cose son successe in questi giorni per limitarsi ad una mera descrizione di location e concerti. Cose che gridano vendetta. Cose che una volta di più dimostrano in che paese limitato viviamo e quanto ottusa possa essere la mentalità delle persone.

Ma andiamo con ordine. Il Radar Festival, dopo varie preview nights (leggi Neutral Milk Hotel, Notwist) ed una serata singola imperdibile (leggi Slowdive) è giunto la scorsa settimana al suo culmine: una quattro giorni organizzata con estremo coraggio, su un formato che tanto successo ottiene all’estero quanto viene snobbato dalle nostre parti. Un sistema organizzativo, quello a più giorni con concerti continui, a cui nel bel paese si è sempre preferita la rassegna, scelta dignitosissima che però non risponde appieno ad un’idea di Festival come luogo e momento fuori dalla realtà in cui concedere una manciata di giorni completamente alla musica. Alla sua terza edizione il Radar è riuscito finalmente a proporre questo format tanto apprezzato fuori dai nostri confini, bilanciando in modo equo grandi e piccoli nomi, così come artisti internazionali e nostrani, e proponendo una line up eterogenea e ricercata.

Questo è il momento in cui dovrei spararvi tremila battute in cui parlo di ogni singolo brano eseguito da ogni singolo artista con tanto di corredo critico, raffronto con le versioni in studio, riflessioni sulla qualità tecnica degli impianti e lamentele sul gusto della birra o sulla scarsa scelta dei panini. In realtà, un po’ perché trovo tristi i live report e un po’ perché ne verrebbe fuori una cosa abbastanza noiosa, mi limiterò solo a qualche breve impressione.

La prima sera del Radar arrivo colpevolmente in ritardo e mi perdo così tutto il pomeriggio. Riesco però a sentire i Calibro 35, sui quali non dirò nulla perché non mi sembra giusto esprimere giudizi su generi che non si conoscono/apprezzano. I conoscitori del poliziottesco italiano mi han riferito che è stato un grande concerto con un’ottima esecuzione, e chi sono io per oppormi al parere dei conoscitori del poliziottesco italiano? Mi trovo invece più a mio agio a parlare dei The Oscillation, con la loro dark wave ben fatta ma alla lunga stancante, del tipo che ai primi brani ti strappa un sorriso e verso la fine ti fa pensare che in fondo puoi anche permetterti di andare al bagno senza sensi di colpa. Infine, la prima serata si conclude al main stage con i Mount Kimbie e certi bassi che ad un certo punto temevo mi avrebbero fatto scoppiato il cuore. Il bilancio è positivo ma il Parco delle Mura è abbastanza vuoto, complice soprattutto il fatto che è un mercoledì e, diciamocelo, a metà settimana alla gente manca la voglia di vivere, figuriamoci quella di andare a concerti.

E fu sera e fu mattina, secondo giorno. Giovedì faccio il bravo corrispondente e arrivo presto. Riesco così a sentire svariati artisti che per un motivo o per l’altro mi ero sempre perso. Dei Boxerin Club, essendo arrivato a set ormai iniziato, ho ricordi molto vaghi; mi sono invece goduto appieno la mia prima volta con gli His Clancyness, gruppo che avevo sempre apprezzato su disco e che dal vivo mantiene tutte le promesse. Encomiabile anche l’impassibile entusiasmo di Jonathan e i suoi nonostante si trovassero a suonare alle cinque di pomeriggio di fronte ad un pubblico di soli nove coraggiosi. Segue un cenno meritato ai Warias, progetto che comprende Matteo Salviato, già battista di Soft Moon. Il duo convince con le sue atmosfere psichedeliche e dark, dimostrando oltretutto una buona presenza scenica. L’ora dell’aperitivo è invece tutta del cantautore americano William Fitzsimmons, della cui esibizione ho ottimi ricordi. Una voce splendida e melodie efficaci portano nei pressi del palco non solo fans ma anche molti semplici interessati che son di certo tornati a casa con un artista in più nelle loro librerie su Spotify. Dopo aver bellamente cassato i poveri Flamingods in favore della cena è giunto il momento de I Cani, che vedo per la prima volta alle prese con Glamour. Il pubblico è rado e timido, nessuno al Radar Festival vuole dimostrare apertamente di apprezzarli. Solo io e pochi altri senza vergogna cantiamo a memoria ogni brano mentre i nostri alteri vicini si limitano a ripetere le parole nella loro mente guardandoci di sottecchi.
Sì.
So che lo avete fatto.
La serata prosegue poi al second stage con gli M+A che forti della nuova aggiunta alle percussioni propongono un live eccellente e si dimostrano ancora una volta una delle più fulgide promesse della penisola. Dulcis in fundo arriva il tanto atteso momento dei Calexico su cui torno a non esprimermi per le mie conoscenze carenti del genere, ma di cui posso dire che senza dubbio hanno conquistato il cuore del Radar, proponendo Smiths e Joy Division e suonando persino in acustico dopo la mezzanotte con una grinta ed una bravura tecnica che rende giustizia alla loro fama.

Il terzo giorno è il giorno in cui arrivo molto presto per non perdere nessuno di coloro che suonerà (anche così in realtà perderò Sin/Cos, ma tant’è). La prima cosa che sento è la doppietta Machweo/Yakamoto Kotzuga, il primo nella sua versione full band e il secondo mentre tiene senza problemi l’attenzione del pubblico del second stage nonostante la sua giovanissima età. Segue ad orario aperitivo un Dente scherzoso e faceto che pescando dai suoi ultimi tre dischi strappa non pochi sorrisi ad un pubblico che lo conosce ed apprezza tanto da perdonargli con una risata le sue battute spesso veramente terribili. Gli In Zaire, gruppo italiano migrante, infiammano il secondo palco ma senza raccogliere consensi unanimi, mentre i Plaid, storico duo inglese di elettronica, mostrano il valore della loro esperienza e sfruttano al meglio i bassi sempre potentissimi della pedana principale. Il producer Andrea Mangia aka Populous, forte dell’imminente uscita del nuovo disco, fa il pienone con la sua elettonica dal sapore esotico e influenzato dalla world music. Infine giunge il momento che il sottoscritto attendeva da tre giorni. Sul palco salgono Scott Hansen e i suoi per un’ora e mezza di melodie sognanti e di atmosfere avvolgenti. Proponendo brani dall’intera
discografia Tycho trasporta il suo pubblico in una sorta di trance al cui risveglio il mondo pare un luogo migliore. Dopo il concerto la soddisfazione è palpabile e io mi concedo pure un atto adolescenziale come chiedere l’autografo sul disco. Alla fine del venerdì, dunque, tutto è splendido, tutto è meraviglioso, la gente è contenta, gli ingressi sono aumentati rispetto alle serate precedenti e sembrava davvero che il Radar festival possa dirsi un successo.

Ed è proprio in questo momento di nirvana che accade ciò che si era temuto. Nella notte un aquazzone spropositato colpisce la città annegando completamente il second stage (che dopotutto era dentro ad una buca) e rendendo inagibile anche il palco principale. Questo colpo durissimo non è però sufficiente. Dalla mattina inizia anche a girare un articolo del quotidiano Il Mattino di Padova in cui l’amministrazione comunale (leghista ndr) si scaglia con violenza contro l’organizzazione del festival ventilando accuse di ogni tipo: lamentele, mancanza di rispetto per gli orari (a mezzanotte hanno sempre chiuso tutto), inagibilità, sedie (che in realtà non c’erano) non assicurate, reati penali (e chi studia diritto sa che bestemmia sia questa), lettere di protesta a decine, IMMOLAZIONI SACRIFICALI DI ANZIANI CITTADINI CHE SI SON DATI FUOCO DAVANTI AL COMUNE PER CHIEDERE LA FINE DI TALE SCEMPIO, MIGRAZIONI DI MASSA VERSO VERONA DOVE GRAZIEADDIO L’UNICA MUSICA CHE SI SENTE LA SERA È IL VA PENSIERO E ARTISTI STRANIERI SENZA PERMESSO DI SOGGIORNO VENUTI A PADOVA COL DELIBERATO SCOPO DI RUBARE LAVORO AGLI ABITANTI. Insomma, un sodalizio tra i giornali e l’assessore alla sicurezza (sic) Maurizio Saia per gettare fango contro l’opera già di per sé eroica dei ragazzi di Radar Live Srl. A tutto questo bisogna aggiungere quelli che si sentivano fregati perché i gettoni per il bere si potevano comprare solo in blocchetti da cinque euro e subito hanno chiesto a Grillo di instaurare una nuova battaglia contro la kasta dei token, e gli altri che non sono venuti perché “io voglio sentire solo Dente ma qui costa 15 euro mentre a 8759379327 kilometri di distanza suona gratis, allora non vado al Radar che Tycho non so chi sia e i soldi preferisco spenderli in autostrada”. Insomma, sabato a pranzo se fossi stato Davide De Munari o Simone Fogliata probabilmente avrei mandato tutti a fare in culo e me ne sarei andato in vacanza in Australia per un mesetto; loro e gli altri si sono invece rimboccati le maniche e hanno lavorato tutto il giorno per rendere possibile lo svolgimento dell’ultima serata, seppur in forma stringata, presso il Circolo Arci MAME a due metri dalla location precedente. Questo purtroppo ha comportato la necessità della tessera arci per l’ingresso all’evento, tessera arci scontata per l’occasione a 5 euro ma che comunque ha fatto storcere il naso a moltissime persone che hanno parlato di INGIUSTIZIA, SCORRETTEZZA, DISONESTÀ, senza avere la benché minima idea di che impresa titanica sia organizzare un festival del genere senza essere la Vivo Concerti, e soprattutto in un posto come la Padova di Bitonci.

Oggi, a distanza di un giorno o poco più è finalmente uscita la replica dell’organizzazione alle accuse ricevute. La dichiarazione dei ragazzi del Radar risponde puntualmente e in modo specifico ad ogni accusa mossa, svela i non detti di un’amministrazione nascente che ha rifiutato ogni possibilità di confronto agendo in mala fede e con scopi di stampo probabilmente politico, e annuncia che dal prossimo anno il Radar Festival cercherà una nuova casa abbandonando definitivamente quella città che mai come in questi giorni l’aveva così apertamente e violentemente osteggiato. I dettagli tecnici li lascio a coloro che vorranno andarseli a cercare su facebook, basti sapere che questo lunedì Padova si sveglia più povera di un festival, più povera di cultura, più povera di apertura mentale. Saranno contenti gli autori delle decine di lettere di lamentela e delle telefonate ai carabinieri, persone che in una settimana di fine luglio hanno trovato le forze di vincere caldo e umidità per mettere su carta o esprimere a voce la loro incapacità di aprirsi al nuovo e la loro intolleranza verso una generazione che disprezzano e che probabilmente preferirebbero ubriaca ma silenziosa in qualche bar del centro. Gli stessi che magari tra qualche giorno passeranno per il Parco delle Mura e apprezzeranno l’erba tagliata e il prato ripulito senza sapere che a fare ciò sono stati proprio quei ragazzi che loro, col loro voto, con le loro lettere e con le loro chiamate hanno fatto fuggire.

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