Alcuni giorni fa Giovanna Taverni in “Cos’è successo all’indie?” descriveva senza isterismi e con pacata coerenza lo stato attuale della scena indipendente lungo le due sponde dello stesso fiume: la parte artistica e quella dei fruitori dell’opera.
Uno spunto da cogliere per aprire un dialogo e provare a tessere un’analisi delle ragioni di una crisi, in modo particolare della scena musicale alternativa come specchio di una condizione dell’arte nella sua interezza.
Chiunque ascolti musica sa quanto il web, oggi più che mai, consenta l’accesso non solo alla musica nei modi di fruizione che maggiormente si preferiscono ma anche alle informazioni sulla musica stessa. Siti di riferimento online (di giornali anche cartacei), blog personali, webzine sono diventati in qualche misura le nostre guide personali all’universo musicale, modificandone in maniera sostanziale la fruizione. Si può dire che da un mondo dominato da una dinamica verticale dei grandi mass media (tv, radio e giornali) si è passati progressivamente ad una dinamica orizzontale che ha trasportato al mondo 2.0 il fenomeno del passaparola.
È evidente che questo sistema ha favorito la diffusione dei musicisti di matrice indie. Termine abusato spesso ma, nel caso specifico, perfetto per indicare la contrapposizione con l’industria delle major, che controlla non solo il mercato discografico ma anche i grandi gruppi di comunicazione.
A pioggia sono, di conseguenza, arrivati soprattutto nell’ultimo decennio vagonate di dischi, uscite quotidiane, ricerche costanti della “next big thing” che hanno dato origine a piccoli culti, riti di nicchia, ossessioni personali.
La prima ragione di crisi risiede proprio in questo: la musica ha perso ogni aspetto cultuale, l’ipervisibilità data ai protagonisti, l’abbattimento delle distanze generata dai social, l’uso sempre più massiccio di tecnologie “portabili” ha modificato in maniera profondissima il rapporto tra pubblico e autore, in una maniera decisamente superiore allo scenario che, nel passaggio dal teatro al cinematografo, portò Walter Benjamin a scrivere il suo celebre “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”.
C’è da chiedersi di questa musica cosa resta? La risposta più dura potrebbe essere: niente. Con niente non intendo naturalmente che molti dischi non siano piacevoli, che altri non siano belli, altri ancora non interessanti. Intendo invece mettere in discussione la necessità, l’autenticità, l’urgenza, l’onestà delle opere realizzate. Intendo dire che probabilmente tra una ventina d’anni, in un ipotetico 2033, tutto ciò che ha seguito Kid A dei Radiohead sarà dimenticato o ricordato solo da vergini vestali ad oltranza.
Nell’ipertrofico panorama della musica indie è possibile separare una corrente più o meno strettamente cantautorale da quella invece più propriamente rock (discorso leggermente più complesso andrebbe fatto per l’elettronica). Se nel primo caso è possibile trovare, seppur declinati in modi e forme tipiche dell’attitudine indie, gli stessi stilemi della grande tradizione americana (e talvolta della chanson francese) che possono ancora funzionare da “classico” è nel secondo che sono maggiormente evidenti alcune delle ragioni della crisi.
Infatti, se è vero che da anni ci si è rassegnati alla mancanza di originalità e si è dato onore alla capacità di rielaborare forme e materiali del passato in una nuova veste è ormai evidente come certa musica abbia ceduto alle derive più pop di certo postmodernismo lì dove la deriva si configura come sterile ripetizione di certi modelli in una totale assenza di originalità e personalità (va da sé che l’originalità è intesa non nel senso di materiale nuovo ma di sua nuova collocazione).
Se da una parte l’indie è spesso accusabile di aver prodotto artisti a dir poco naif quando caratterizzati da strutture musicali esili al limite del dilettantismo su altro fronte si è cercato, soprattutto con le ultime produzioni, di stratificare in maniera insensata il suono dando spesso luogo ad un frastuono sonoro che copre carenze creative piuttosto che arricchire idee semplici.
Ecco allora che un’altra causa della deriva musicale di questi ultimi anni è da ricercare nella debolezza della scrittura, nella totale assenza di riconoscibilità e di forme strutturali che sostengano l’impalcato creativo.
È come se oggi fossimo invasi da Self Portrait aggiornati. Dischi che sono di passaggio ma non lasciano il segno, incapaci di tracciare un passo importante in un percorso più ampio, di essere momento di cambiamento e riflessione.
È chiaro che alcuni dubbi possono facilmente essere sollevati: un fenomeno così diffuso di spaesamento unitamente all’assenza di uno scenario futuro ipotizzabile di cambiamento sono solo il riflesso di una crisi contemporanea che investe l’intera società o piuttosto la disperata chiusura di una forma musicale che raggiunte le sue capacità espressive è incapace di produrre una nuova sintassi del linguaggio?
In definitiva il problema della musica “leggera” oggi è nel suo rapporto con le strutture alle quali da un lato cerca di non appoggiarsi ma che nello stesso tempo non sembra in grado di superare. In qualche modo la società liquida di Zygmunt Bauman applicata alla musica.
Non dimentichiamoci, infatti, che le avanguardie e, in una certa misura, anche l’universo indipendente che si oppone ad una logica strettamente di mercato si sono sempre rivelate tali attraverso la spia del linguaggio, non certo in riferimento al solo aspetto formale ma a qualcosa di ben più ampio raggio. Godard, nel cinema, ha lavorato quasi unicamente su quello, per fare un nome caro a queste pagine.
E se guardiamo alla musica colta (espressione orribile ma meno inesatta di “musica classica”) l’evoluzione del linguaggio ne ha in qualche maniera determinato la fine attraverso il passaggio dalle architetture bachiane al più fragile cromatismo di inizio novecento fino alla destrutturazione a partire dagli anni ‘50. Ecco allora che anche autori contemporanei quali Arvo Part si collocano dalle parti del postmodernismo quando si parla di “minimalismo sacro” che da un lato guarda a Philip Glass dall’altra alle cantiche medievali.
Se la musica colta con la sua complessità ha impiegato circa quattro secoli per vedere esaurirsi le sue capacità espressive è possibile che la musica leggera lo abbia fatto in poco più di 50 anni?
Quanto ha pesato in questo impoverimento il radicale cambiamento del rapporto tra musicisti e mondo esterno? Racchiusi all’interno di un protettivo guscio auto riferito sembrano aver interrotto non solo un dialogo con la società quanto lo stesso rapporto di ricerca e di evoluzione all’interno del campo più ristretto del linguaggio musicale e artistico. Questa in larga parte la differenza con la grande creatività del periodo artistico dei ‘60/’70. Questa anche una delle possibili cause di una crisi francamente preventiva.
La mancanza di figure di spicco, di leader autorevoli anche in campo musicale che sappiano dialogare con la società, che siano leader nel vero senso della parola finisce con il dare poco valore anche a quelle poche opere che ancora, in parte, meriterebbero invece attenzione.
Di chi la colpa? Quanto è imputabile ad una certa iperproduzione e quanto alla sua speculare bulimia di ascolto? Quali sono gli spazi creativi in un processo di produzione e ascolto pressoché consumistici? Quanto è possibile chiedere all’Arte in una società come quella contemporanea, quale il posto che può occupare?
Sono le domande le cui risposte sono i punti fermi da cui ripartire per “la costruzione di nuove immagini, di nuove parole, di nuove idee”.
Bisogna ripartire anche da noi stessi; è fondamentale ricostruire un rapporto con le origini, indagare la fedeltà al mito, rivedere la base e da lì proiettarsi verso il futuro senza lasciarsi travolgere dalla corrente. Perché se è vero che un artista è tale quando è capace di interpretare il mondo attraverso il suo sguardo personale è anche vero che rischiamo di non riconoscerlo se siamo i primi a confondere il nostro.