Se il problema di trovare nuovi linguaggi e forme espressive è valido per l’intero mondo dell’arte in generale, dalla musica alla scrittura, per quanto riguarda le arti visive il tema diventa un attimino più arduo. Il Novecento ha aperto delle possibilità creative inimmaginabili per l’arte visiva: distruggere le forme classiche e figurative e aprirsi alle meravigliose possibilità dell’arte concettuale. L’estremo grido della tela bianca ne è una testimonianza. Qualcuno parla di impasse dell’arte contemporanea, un impasse che ha portato le arti visive a mescolare il loro linguaggio con altre forme artistiche: performance quasi teatrali (Marina Abramovic vi dice qualcosa?), musiche, scritte e graffiti, installazioni. I tentativi artistici per raccontare qualcosa di nuovo potrebbero sembrare quasi disperati, eppure quello che abbiamo sempre amato nelle arti visive come pubblico e fruitori, è l’impatto stesso con l’opera, ovvero la questione puramente estetica. L’emozione, al di là di ogni tentativo critico o morale.
Le fiere espositive nelle grandi città
Il panorama dell’arte contemporanea è attualmente dominato da città come New York o Londra: se vogliamo restare in contatto con i movimenti dell’arte contemporanea dobbiamo insomma guardare al mondo anglosassone/statunitense. Sono le gallerie inglesi e statunitensi quelle che dettano la tendenza (basti pensare a gallerie come White Cube o Gagosian) – un primato che cercano di mantenere stretto. Persino il movimento Not Surprised – che ha portato alla luce abusi e molestie nel mondo dell’arte – è nato in seno al “centro”. Più di 7000 artiste (tra cui Cindy Sherman e Laurie Anderson) hanno denunciato le molestie nel mondo dell’arte. Una questione che si è mossa intorno alla figura di Knight Landesman, direttore (ora ex-direttore) della rivista newyorkese ArtForum, accusato di molestie sessuali da almeno una decina di donne.
Se nei cosiddetti “centri di potere” si smuovono questioni urgenti, quest’autunno ha risvegliato un interesse nei confronti dell’arte contemporanea anche in quelli che gli anglosassoni oggi definirebbero centri periferici – ma che in realtà sono state vere e proprie capitali dell’arte in passato, centri di scambio e di incontro per artisti e appassionati. Occasioni come le grandi fiere espositive della Fiac a Parigi e di Artissima a Torino sono riuscite a trasformare il volto delle città per giornate intere intorno a questi eventi. Garantendo anche numeri molto alti in termini di presenze.
La Fiera Internazionale dell’Arte Contemporanea al Grand Palais di Parigi ha collezionato più di 73.000 ingressi in cinque giorni. A corollario del grande evento una serie di spazi dedicati ed esposizioni di arte contemporanea in tutta la città, hanno accompagnato le giornate della Fiac: eventi, vernissage, mostre. La città così diventa spazio privilegiato di incontro: riconfigura il suo volto e le sue coordinate, si scopre viva. Travalicando le Alpi anche in Italia si respira un fermento particolare. Durante la prima settimana di novembre Torino diventa la capitale italiana dell’arte grazie ai numerosi eventi che ogni anno nascono conquistando diversi spazi della città. L’appuntamento più noto è quello all’Oval Lingotto con Artissima che, da ventiquattro anni, rappresenta una vetrina importante per il mercato internazionale dell’arte, in grado di calamitare intorno a sé rassegne parallele e di provocare un dibattito sempre nuovo, mai effimero, sempre reale. Prima di entrare ad Artissima incrociamo una madre intenta a sgridare i suoi figli con l’ammonimento questa non è una fiera per bambini, fate i bravi! Se l’arte non è fatta per sviluppare la creatività dei più giovani, allora a cosa può servire davvero?
Nel 2017 l’arte non è soltanto quella custodita nelle teche delle gallerie o dei musei, ma è soprattutto quella accessibile a tutti, realizzata per essere ammirata da più persone possibili, senza distinzione di classe sociale, genere o età. Da questo presupposto si sviluppano eventi artistici come Paratissima o The Others, il primo arrivato alla sua tredicesima edizione e quest’anno dedicato al tema della superstizione che si trasferisce da Torino Esposizioni alla Caserma La Marmora, un luogo che, durante la Seconda guerra mondiale, fu sede del GNR e divenne teatro di torture ed esecuzioni di prigionieri politici, dissidenti e antifascisti, mentre The Others ha sede nell’Ex-Ospedale Maria Adelaide ed è, alla seconda edizione, la principale fiera italiana d’arte contemporanea dedicata alla valorizzazione delle nuove energie creative. A questi eventi si affiancano Operae, la fiera del design indipendente con casa al Lingotto, la neonata FLAT, la fiera del libro d’arte che conquista Palazzo Cisterna e Palazzo Birago, NESXT, il festival legato all’arte dipendente diffuso sul territorio cittadino fino ad arrivare a Flashback, la fiera di arte antica e moderna al Pala Alpitour e a DAMA che riempie di arte i saloni di Palazzo Saluzzo Paesana.
Ogni quartiere della città è coinvolto in questa esplosione artistica, rendendo Torino una galleria a cielo aperto, dove i chilometri tra gli spazi coinvolti si accorciano confluendo in appuntamenti come la Notte delle Arti Contemporanee. Per continuare l’elenco non possiamo non considerare opera di espressione artistica il Club to Club, il festival di musica elettronica che non ha bisogno di presentazioni e per concludere le rinnovate OGR che in questi giorni oltre a ospitare i concerti in 3D dei Kraftwerk hanno inaugurato la mostra Come una falena alla fiamma a cura di Tom Eccles, Mark Rappolt e Liam Gillick.
Il concept dei saloni espositivi è quello di ospitare gallerie da tutto il mondo che contemporaneamente “mostrano” e provano a vendere opere. L’equivoco potrebbe essere quello di pensare che si tratti di un banale mercato dell’arte per collezionisti e fanatici. E sicuramente non è per tutte le tasche comprare un bronzo di Alberto Giacometti a 22 milioni di euro, o un dipinto di Basquiat a 17,7 milioni di dollari – come è successo alla Fiac. Tuttavia anche semplici curiosi hanno l’occasione di scoprire le nuove tendenze dell’arte tra i padiglioni delle gallerie – giacché esiste la possibilità di visitare e guardare senza comprare (per fortuna). Un giro tra le gallerie di New York, Londra, Berlino, Roma, Tokyo, contemporaneamente e senza doversi spostare. Con questa filosofia i saloni espositivi vincono: rendono a portata di mano quel senso di ubiquità che l’uomo naturalmente ricerca da sempre – la possibilità di guardare e conoscere, aprire gli orizzonti creativi. Così come durante un Salone del Libro le case editrici si ritrovano per esporre i propri libri (=prodotti), ecco che lo stesso può accadere per rinverdire la nostra necessità di arti visive.
E quel che è bello è come intorno al grande evento si costruisca una vera e propria “economia” di altri spazi ed eventi alternativi dentro la città. In questo modo la città diventa devota al movimento, si apre all’esterno, stimola uno scambio: ed è in questo scambio che la città trova il suo senso. Come per Paratissima e The Others a Torino, durante il lungo weekend della FIAC diverse erano le gallerie di Parigi a organizzare eventi e mobilitare nuove occasioni di scambio. Per esempio il salone espositivo alternativo alla Fiac, ovvero la Paris Internationale delle gallerie escluse dal Big One Event – che quest’anno ha scelto come location l’ex sede storica di Libération, il quotidiano francese di sinistra nato dalle ceneri del Maggio ’68. Ambienti completamente diversi da quelli fastosi del Grand Palais: il palazzo è scarno, underground, ha quell’aria volutamente trasandata e “berlinese” che ben rappresenta il concetto di alternative. Oppure la Young International Art Fair, che ha offerto una panoramica interessante sulla scena dei giovani artisti internazionali.
Il ritmo del nostro tempo
Eventi come questi ci aiutano a riscoprire il piacere tutto estetico degli occhi, e a tenere il ritmo del tempo in cui viviamo – attività che è particolarmente difficile nell’era dell’istantaneità breve, in cui tutto nasce e muore in modo frenetico. Artisti come Anish Kapoor, Richard Prince, l’ironia folle di David Shrigley, o del nostro connazionale Max Petrone, sono la testimonianza diretta della nostra epoca.
Inoltre si rimette in chiaro il ruolo fondamentale che ancora oggi hanno i galleristi. Le nostre città sono ancora una bellissima collezione di gallerie (indipendenti o meno) che continuano a portare avanti il loro ruolo – scomodo – di diffusori d’arte e cultura. Se l’artista è il centro da dove tutto parte, intorno a lui curatori, galleristi, e addetti ai lavori, continuano imperterriti un compito che si fa sempre più complesso, soprattutto quando viene giocato “alla pari” – e non entro le dinamiche di potere denunciate da Sherman e colleghe. Curare vuol dire anche “prendersi cura”, scegliere un artista o un’opera, scommetterci sopra e provare a diffonderla. Queste mediazioni, queste scoperte e queste scommesse sono ancora vive, in tutti i mondi artistici, e sono la parte più vitale di quella cosa che continuiamo a chiamare arte in ogni sua declinazione.
Per questo è bello osservare come nel nostro paese le gallerie che continuano a scommettere sulle opere d’arte siano tantissime, e resistano. Resistano per esempio a un immaginario fin troppo iper-visibile che nel secolo dei social network affoga il discorso visivo. Per esempio tra i padiglioni dei due eventi spiccava la presenza di gallerie italiane importanti come Mazzoleni di Torino e Magazzino di Roma – e sono solo due tra i nomi dei galleristi italiani che da Napoli a Firenze hanno esposto le loro opere nelle fiere. Mazzoleni per esempio con una selezione che va da Vincenzo Agnetti a Picasso, e Magazzino con un’installazione-schock che rappresenta le sorti della città siriana di Aleppo oggi, a cura dell’artista rumeno Mircea Cantor.
È vero: conta tanto avere un buon ufficio marketing oggi nel mondo dell’arte, come in ogni campo, e del resto parliamo di vendite e compravendite. Ed è vero pure che ai tempi di Van Gogh questa frenesia contemporanea intorno alle opere d’arte – o all’evento in sé – non era ancora entrata a possedere totalmente lo spirito dell’uomo dei tempi. Insomma, a voler tirare le somme l’arte contemporanea se la cava piuttosto bene, considerando lo spirito dei tempi in cui siamo. I numeri ci sono, le vendite non mancano, il pubblico partecipa, e si è stimolato una sorta di “repulisti” interno ai centri di potere. Forse quello che latita è proprio il Van Gogh di turno: dove si nasconde, e cosa sta dipingendo?
a cura di Ilaria Del Boca e Giovanna Taverni
Foto: Anna Chasovskikh e Ilaria Del Boca