Adoro le cose che luccicano, adoro le stelle dello spettacolo. Un giorno voglio diventare una stella, proprio come mia madre e come Maude.
Negli anni Settanta un ragazzino americano di nome Christopher Robison passava le proprie giornate tra le urla dei propri genitori, con la voglia di diventare un famoso parrucchiere delle dive con la passione per il canto e mai senza quella di non andare mai più a scuola. A casa sua le urla, in genere, si trasformavano in qualcos’altro, molto spesso piatti tirati addosso e botte. Quella sera in cui venne oltrepassato ogni limite sua madre ha pensato anche solo per un momento di morire soffocata e suo padre, ubriaco, è stramazzato sul pavimento con una ferita alla testa. O almeno così ci racconta la sua vita quel Christopher, che poi famoso magari come desiderava lo è diventato davvero, scegliendo per sé come pseudonimo Augusten Burroughs e scrivendo libri.
Dato che si inizia sempre da qualcosa che si conosce bene, il memoir e poi vero e proprio cult di Augusten Burroughs (uscito per la prima volta in Italia nel 2007 e ora ripubblicato quest’anno da minimum fax nella traduzione a cura di Giovanna Scocchera) Correndo con le forbici in mano racconta grottescamente e da paura proprio quegli anni là – dalla sera in cui tutto nella sua vita è cambiato passando per il suo soggiorno come figlio adottivo nella matta villa coloniale rosa dei Finch, l’amore ricambiato e per niente platonico per Neil Bookman e molto altro. Racconta di tutto, a modo suo.
A volte ci penso. Mi meraviglio di non essermi ancora suicidato. Eppure ho qualcosa dentro che mi fa andare avanti. Credo sia qualcosa che a che pare con il domani, con il fatto che c’è sempre un domani, e che quando arriva tutto può cambiare. Una cosa però l’ho imparata, stasera: la Crema Regina Elena è molto più che un semplice balsamo per capelli.
Quella sera Augusten fa la conoscenza del dottor Finch, psichiatra di sua madre – che per chi non sapesse era l’aspirante poeta di fama mondiale, ma in cerca di pubblicazione Deirdre. Per tutelare il figlio, vista la situazione familiare e l’evidente bisogno di entrambi i genitori di raccogliere i pezzi, il dottor Finch accoglie Augusten in casa sua. Ha tredici anni, va alle medie e, stando a quello che dice lo psichiatra, è nell’età in cui può scegliere di fare ed essere quello che gli pare. Augusten non vuole andare più a scuola, anche se non si può non andarci, sarebbe illegale, ma inaspettatamente il dottore lo appoggia: basta un suicidio simulato, dopo di che potrà evitarsi le lezioni per un bel po’.
Tutto, a partire dai fatti narrati passando per le persone che abitano nella casa rosa, è grottesco. C’è Agnes, la moglie del dottor Finch, che ama starsene davanti alla televisione a sgranocchiare croccantini per cani. La cucina è un disastro, ma nessuno fa una piega quando Augusten e Natalie decidono di tirar giù il soffitto della stanza per fare più luce. Le decisioni importanti possono essere prese da un gioco amatissimo da Hope, la pesca alla Bibbia, così come il dottor Finch ha la facoltà di svegliare tutti dicendo che tutti i problemi sono finiti da quando ha interrogato le sue feci nel gabinetto, e prega perciò Agnes di prendere una paletta per ispezionarle. Gli aneddoti legati ai Finch e alla vita di Augusten insieme a loro si rincorrono e mantengono l’attenzione di chi legge immersa in una spirale di repulsione e di curiosità.
«Nel senso che sei sempre stato uno scrittore. Da quando ti conosco hai quel tuo naso a punta sempre infilato in qualche quaderno. Hai vissuto con la mia famiglia e non ti sei lasciato sfuggire niente di noi. Dio, è incredibile quanto sei bravo a imitare le persone.»
Un viaggio acido, sporco e incerto tra adolescenza, malattia mentale, sesso e aspirazioni personali. Una storia curiosa da cui Ryan Murphy (sì, quello di Nip/Tuck, Glee, American Horror Story etc. etc.) ha tratto il suo primo film come regista nel 2006 con un super cast in cui nel mondo-Finch figurano, tra gli altri, Annette Bening, Joseph Fiennes, Brian Cox e Joseph Cross nei panni dello stesso Augusten. Film molto fedele al libro, ma che ha il pregio-difetto di lasciare molte parti forti della narrazione stessa all’immaginazione di chi guarda.
Augusten Burroughs è uno scrittore e sa di esserlo. Se Correndo con le forbici in mano è stato un best seller per molto tempo è merito della sua scrittura. Della sua adolescenza particolare, certo, del mondo grottesco che ha saputo creare sulla sua storia personale, aggiungiamoci pure quello stacco che a certo punto si crea tra il semplice memoir e una vita romanzata raccontata molto bene, e tutto questo è anche e soprattutto specchio della sua bravura nello scrivere.