Conversazioni sulla poesia contemporanea | Nunzio Bellassai

Da circa un mese nelle librerie della penisola è comparso un piccolo volume bianco contenente circa una cinquantina di liriche di un giovanissimo poeta siciliano. Il libroedito da Ensemble Edizioni,  si chiama Due Tempi ed è l’interessante opera prima del nostro Nunzio Bellassai, siracusano classe 2000 (!). La raccolta si configura come uno sguardo doppio, in due tempi, appunto, lanciato dal poeta al mondo infetto dalla pandemia e dalle sue conseguenze visibili ed invisibili.

In occasione del suo notevole esordio poetico (già dai primi versi, infatti, è possibile riconoscere la maturità dello stile e del tono del poeta, oltre che una compiutezza e coerenza formali ammirevoli) ho avuto il piacere di chiacchierare con Nunzio, che è ormai al terzo anno di collaborazione con la nostra rivista. Dopo aver parlato della genesi e della struttura della sua opera, con Nunzio abbiamo provato ad addentrarci nella spinosissima questione della poesia oggi in Italia.

Segue intervista.

 

Due tempi. Parlacene un po’: come e quando nasce la raccolta?

La raccolta nasce nel 2020 che per me è stato un anno di scrittura in generale, di “smania”, iniziato con un lutto familiare e seguito, poi, dalla pandemia. In quel periodo particolare volevo scrivere e basta: non sapevo ancora di cosa, ma volevo farlo. Dopo quel 9 marzo del discorso di Conte con il conseguente esodo dalle città, mi sono ritrovato da Roma a Siracusa a farmi due settimane di quarantena a casa dei miei. Ricordo che in quei quindici giorni ho iniziato a seguire sui vari notiziari la cronaca quotidiana, che parlava prevalentemente se non totalmente della pandemia, cosa che prima non avevo mai fatto, o quantomeno non era mai stata un’abitudine, e questo sguardo sul mondo mi ha spinto a scrivere le prime poesie della raccolta. Durante il primo lockdown ho mandato alcune liriche a Maurizio Cucchi, che cura la rubrica di poesia de La Repubblica, e lui nella mia totale incredulità mi ha chiamato dicendo che voleva pubblicarle sul giornale. Io scrivo poesie dalla prima adolescenza ed avevo partecipato a diversi concorsi, ma non avevo mai pensato ad una raccolta, forse anche colto dai pregiudizi nei confronti della poesia. Da lì, poi, ho continuato a scrivere fino alla chiusura della raccolta e della pubblicazione.

Linea Obliqua e Il Bambino.

La prima parte della raccolta, Linea Obliqua, tratta del lockdown e della città. Milano, come città simbolo, prima del dinamismo, poi del blocco e della tragedia della pandemia, compare subito in Campo Ottantasette, che è la prima poesia della raccolta che ho scritto e che guarda, appunto, a quella zona del cimitero che ha accolto i corpi non reclamati delle vittime del virus e che è un piccolo specchio del dramma mondiale: lì tra le altre tombe sono saltate ai miei occhi quella di una donna di 106 anni, che ha vissuto due guerre mondiali, la spagnola, e poi è stata dimentica e quella di un uomo cinese di 50 anni.

Parlo spesso di tombe e di fosse, ma quello che mi interessa non è la morte in sé né il dolore, quanto il sentimento di emarginazione, acuito ancora di più dalla pandemia, che questa si porta dietro. La società ci spinge, purtroppo, ad un darwinismo sociale di sommersi e salvati, specialmente nelle occasioni di necessità. In questo caso, credo che di salvati tout-court non ce ne siano, tutti abbiamo ricevuto in questi due anni un qualche trauma piccolo o grande; i sommersi veri e propri invece esistono e sono tutti coloro che sono stati dimenticati durante l’emergenza: sono i morti del campo ottantasette, sono i Samosely di Cernobyl, sono il popolo Afghano e gli abitanti di Beirut, e tutti gli altri. Ho voluto volgere lo sguardo e raccontare tutta quell’umanità che soffriva e che è la vera testimone di questo dramma, vittima della disumanizzazione e dell’emarginazione inasprita dalla pandemia.

Nella seconda parte, Il Bambino, invece, prova a trovare spazio un po’ di spensieratezza e di allegria. Ora lo scenario diventa Lipari, dove andavo a passare i fine settimana con gli amici, e che è una sorta di contraltare estivo di Milano. In queste liriche affiora spesso anche il passato in forma di ricordo, ricordo della mia infanzia che diventa nei versi una proiezione nel futuro, perché penso che la poesia debba servire a qualcosa, ed in quel periodo a me serviva guardare al futuro. Nella conclusione, negli ultimi versi compare il bambino che raccoglie, anche sadicamente, i gusci di paguro sulla spiaggia e che non mi somiglia più. Ecco quel bambino è cresciuto e deve crescere.

 

Hai parlato di pregiudizi verso la poesia, spiegaci meglio: qual è il tuo rapporto con la poesia?

Sinceramente il nome poeta mi mette in imbarazzo, nel senso che la vivo un po’ come una presa in giro. Forse perché ho interiorizzato i pregiudizi che ci sono in Italia verso la poesia. Ogni tanto mi chiedo che fine abbia fatto la millenaria tradizione poetica italiana. Fino al 1997 con Dario Fo, che è stato l’ultimo, vincevamo con cadenza di circa dieci o quindici anni il Nobel per la letteratura, e poi cos’è successo? È ovvio che i premi contano quanto contano, però possono essere indicativi dello stato della poesia. Si dice che di poesia se ne legga poca e se ne venda meno, forse è così, ma chi la legge? Penso che il lettore di poesia oggi sia qualcuno con una grande cultura e che legga già poesia, magari di una certa età; oppure a leggerla sono gli studenti di lettere o di campi limitrofi, e non so se per passione o per dovere.

D’altra parte mi capita spesso anche di chiedermi: e dopo Montale che c’è? Un vuoto, quantomeno a livello di conoscenza popolare, ma anche alta, ci sono autori che spesso faticano ad essere più che dei nomi anche per gli addetti ai lavori e per gli studenti, basti ricordare il caso della maturità di Caproni qualche anno fa. Forse il problema nasce dalla scuola stessa: difficilmente i programmi riescono a superare la seconda guerra mondiale, per cui per un giovane approcciarsi al secondo Novecento o addirittura alla contemporaneità diventa difficile e l’unica strada è l’autodidattica.

Questo forse succede meno nel mondo della prosa: penso che il romanzo oggi abbia preso molto spazio, quasi che la letteratura viva esclusivamente di questo. Tra l’altro nell’Italia del premio Strega non esiste un premio altrettanto importante per la poesia. Questo fa pensare. All’estero non è così, se si pensa all’opera di inclusione e di riconoscimento di forme di letteratura “altre” del premio Pulitzer. Così si rischia che la poesia si arrocchi sui lustri del passato e su se stessa, dimenticando quello che c’è fuori.

Io spero che si cominci a vedere che la poesia non sta solo nelle righe, nei bei versi di Montale di Quasimodo eccetera, ma anche e soprattutto la poesia sta nella canzone: per me Guccini Battiato e De Gregori sono stati importanti bacini da cui cogliere, ma in generale nella musica la poesia è sempre presente. Nei giovani c’è molta poesia, nel rap, ovviamente, c’è poesia. In questo senso apprezzo molto il lavoro della Treccani nel mostrare la poesia nei testi delle canzoni italiane. La poesia deve essere musicale, secondo me, deve partire da uno sguardo verso l’esterno e ancorarsi alla realtà raccontandola, altrimenti rischia di essere astrazione. Se racconto solo quello che sento dentro corro il rischio di essere autoreferenziale, e poi a chi serve la poesia? Io voglio raccontare quello che vedo fuori: l’emarginazione, l’esclusione dal mondo dei Samosely. Voglio che la poesia sia viva, ma d’altra parte c’è una visione passatista per cui se io dicessi che mi ispiro ad un testo, per esempio, dei Coma Cose alla critica letteraria si drizzerebbero i capelli. Per quanto mi riguarda ho cercato di fare una poesia in primo luogo comprensibile, che si potesse leggere e non fossi fuori dal mondo, che parlasse di fatti contingenti e potesse essere interpretata e criticata da tutti, non solo dal critico vecchia scuola. Spero di esserci riuscito.


Non parlarmi di tempi remoti.
In questo breve fiato si confondono
i nostri sogni. E anche se i giorni
scorrono invisibili sul tuo volto
olivastro, nonno, viviamo.
In quest’eterno presagio di un attimo
di comunione. E ci dà torto questo
nostro impossibile essere fratelli.

— Due Tempi, Nunzio Bellassai

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