a cura di Paolo Bergamaschi
Lo scorso maggio nelle sale è uscito Loro 2, seconda parte che va a completare l’ultima opera di Paolo Sorrentino. L’uscita del film sembra aver ammansito il coro di voci discordanti della critica che si era alzato dopo i primi 94 minuti, proiettati per la prima volta il ventiquattro aprile. Infatti, una grande fetta del pubblico, sia quello preparato, sia quello, diciamo, più ingenuo, si è espressa in merito. Sappiamo tutti come vanno queste cose, lo sa anche lo stesso Sorrentino che ha risposto alle varie critiche scaricando la colpa di questi prematuri attacchi sulla nostra Nazionale che non si è qualificata, ahinoi! ai mondiali e che quindi costringe l’Italia a riversare il tradizionale zelo da secondo allenatore nella critica cinematografica.
Tra i detrattori del regista napoletano c’era chi gli rimproverava di essere diventato una parodia barocca di se stesso, ed evidentemente non ha apprezzato le comparsate animali o le suntuose vanità dei festini notturni, e chi addirittura ha puntato il dito dichiarando che solo un berlusconiano convinto potesse partorire un film come Loro. D’altra parte c’è anche stato chi, non appena uscito dalla sala, si è messo a gridare all’ennesimo capolavoro. Anche se, a dire il vero, una buona parte delle analisi andavano oltre il carattere cinematografico, e dunque artistico, del film, finendo per centrare il focus sul regista, o sul protagonista. Non è mia intenzione trattare qui questi aspetti del film, su cui tra l’altro sono già state spese molte parole, sintomo che comunque la si guardi la pellicola non lascia insensibili. Piuttosto vorrei proporre una particolare lettura di alcuni personaggi del film, perché credo che se analizzassimo meglio la struttura, anziché limitarci alle questioni esterne/estetiche, arriveremmo ad una comprensione maggiore del messaggio che Sorrentino, e Servillo, ma anche il resto del cast, ci vogliono mandare. Anche perché questo messaggio riguarda tutti noi italiani.
Non è la prima volta che Sorrentino tratta in uno dei suoi lavori un personaggio politico, già nel 2008 aveva convocato il fedelissimo Toni Servillo facendogli interpretare il controverso Divo, Giulio Andreotti. A distanza di dieci anni il sodalizio continua e questa volta l’attore dovrà indossare le vesti di un altro uomo politico, non meno discusso del primo, Silvio Berlusconi. Nel suo Divo il maestro napoletano aveva espresso un forte giudizio sull’uomo e sull’esercizio del potere, non limitandosi a raccontare la cronaca degli ultimi anni di Andreotti, ma ha costruito una serie di scene verosimili in cui lo statista tra un bacio ad un boss siciliano ed un processo ammetteva, in un grande mea culpa, la propria responsabilità di tutto ciò che di oscuro, ed irrisolto, è accaduto durante la Prima Repubblica.
Per Berlusconi, Sorrentino opera una scelta narrativa diversa, non vuole raccontare il politico (anche perché la tesi che viene sbandierata per le 3 ore dei due film è che B. non fosse un vero statista, quanto più un piazzista che voleva gestire lo Stato come una delle sue aziende), ciò che la telecamera inquadra è invece la decadenza interiore, ed esteriore, di un uomo in crisi. Se Andreotti era l’occultamento del potere, necessario alla sua conservazione, Berlusconi è l’uomo che ha fatto dell’ostentazione di sé e del suo successo la più affilata arma di seduzione. Il regista dunque, non fa altro che esporre, o meglio sottolineare, ciò che l’opinione pubblica già conosce. Il Berlusconi di Sorrentino è quello reale, o quanto meno quello che si è sempre mostrato all’Italia. Un ragazzo un po’ stagionato ma col cuore sempre giovane.
Sorrentino conosce l’animo umano, e sa bene che dietro ai sorrisi di facciata e alle ostentate battute spesso si nasconde un dolore profondo da cui scappare, ed ecco che nella seconda parte arriva a mostrarlo. Il pranzo con Ennio Doris, che apre il secondo capitolo, mostra subito il motivo scatenante dell’infelicità del cavaliere: la sconfitta alle elezioni, anche se per un pugno di seggi, sembra aver fatto perdere al leader del centro destra la sua proverbiale sicurezza di sé. Per tutta la vita Silvio è stato un grandissimo venditore, probabilmente il più grande, questo è ciò che è. Nel momento in cui non riesce più a vendere egli smette anche di esistere. Ma l’abile discorso dell’amico, e socio, spazza via ogni nube di incertezza, e Berlusconi, rinvigorito, torna a capo del governo.
Da qui inizia la scalata verso la riacquisizione del potere, il prezzo da pagare però è alto per Silvio. Assieme al potere ricominciano i festini a base di olgettine e tutto il tram tram del bunga bunga, il regista ci sbatte in faccia tutto questo abbondare di corpi nudi e vacuità morale ed intellettuale- che ci ha reso tanto chiacchierati nel mondo- con una normalità, ed una naturalità, che fanno male. In sala si ride quando, tutti attorno al tavolo, Silvio e le sue amiche cantano e ridono e si scambiano incarichi politici o posti pubblici, ma credo che in fondo buona parte degli spettatori nelle poltrone dei teatri provasse un qualche fastidio.
Durante tutta la durata del secondo capitolo lo spettatore si trova immerso, quasi assuefatto, in quel mondo di superficialità e di sesso che circonda Berlusconi, e di cui lui è il centro di gravità. Fra una fitta selva di adulatori ed adoratori due personaggi in particolare incarnano il disagio di chi guarda lo squallido spettacolo dall’ esterno, e che grazie alla distanza fisica ed etica in cui si trova ha ancora la lucidità di guardare oltre le lucine della festa e vedere il vuoto che la riempie. Stella, Alice Pagani, è una ragazza di 20 anni che studia lettere e sogna di fare l’attrice, viene convinta da Morra-Scamarcio a partecipare a queste feste alla corte di B. con la promessa di un posto nel mondo dello spettacolo. Mentre si trova in Sardegna ad una di quelle serate viene avvicinata da Berlusconi che prova a sedurla, ma pur sciorinando le sue arti da amatore, lei lo respinge educatamente dicendo che ha lo stesso alito del nonno, né buono, né maleodorante, un alito da vecchio. L’attrice esprime appieno il sentimento di straniamento e degrado che deriva dalla situazione quasi surreale in cui si trova: lei, così giovane, al centro delle moleste attenzioni di un settantenne che ha organizzato la serata con quell’unico proposito. Certo, una notte di piaceri effimeri e di libertà di cui godere, ma che non porta da nessuna parte. Come i vuoti trenini della Grande Bellezza, con la differenza che questi erano fatti di uomini e donne di mezza età che si nascondevano dietro la maschera dell’arte per celare agli altri, e a loro stessi, il proprio decadimento, e non dal capo del governo padrone del più grande impero televisivo d’Europa, e per di più molto più anziano delle invitate.
A mio avviso, Stella rappresenta quella fetta di popolazione italiana, che ha vissuto i primi vent’anni della propria vita nella sua Italia, e che ora lo vede come un vecchio patetico ed imbarazzante, privo di alcuna credibilità, e che lo ha reso uno dei poli dell’ironia digitale, espressione della generazione di Stella, e di chi scrive.
Una parodia moderna di un antico film comico, con queste parole la Lario definisce Silvio, e i suoi compari, colpevoli di aver sprecato la grande possibilità di fare il bene della Nazione. Nell’acceso dialogo in cui attacca ferocemente il marito per averla tradita e aver devastato la propria dignità di donna e moglie, Elena Sofia Ricci trascende la figura della sola Veronica Lario per assumere le forme di quella parte d’Italia, bellissima e che legge libri difficili, che aveva creduto in Berlusconi, la cui unica colpa era quella di essersi innamorata di Lui, ed è rimasta profondamente delusa, umiliata e tradita. Risuonano qui, dove amore e politica si uniscono profondamente, le parole di uno dei senatori di sinistra, l’unico che non si lascia corrompere: in amore si tradisce, in politica si cambia idea. Veronica rinfaccia al marito, ciò di cui gli oppositori politici, e i comunisti, l’hanno sempre accusato, cioè di aver avvilito con le sue politiche corruttrici e delinquenziali il nostro paese. Andando avanti il bersaglio delle sferzate della donna diventa la personalità dell’uomo, i suoi complessi di inferiorità che lo hanno portato ad essere ciò che è: un pazzo egocentrico e sessuomane, che da uomo più ricco del Paese sperava, diventando premier, di essere anche amato da tutti alla follia. Il litigio si chiude con la domanda più famosa che riguardi B., ossia da dove si sia originata la sua fortuna, che gli ha permesso di dare il via alla propria impresa. Ovviamente Sorrentino, come nella realtà d’altronde, una risposta non la dà. Mentre le risposte di Silvio alle bordate di Veronica sono perfettamente in linea con la figura dell’uomo delineata in tutto il film, sono la dimostrazione espressa del Berlusconismo, un individualismo edonistico ed irresponsabile.
L’amore è finito, perlomeno quello della moglie, Silvio ha vinto le elezioni, ma ha perso molto di più. È un uomo solo, al potere, circondato da un bestiario di arrampicatori sociali, di centauri tra politica e mafia, e di ragazze che assomigliano tutte a Veronica.
Ciò che alla fine rimane dopo tutte le feste e le giostre sfavillanti è il grande silenzio degli uomini della protezione civile che riposano stremati attorno ad una statua della Pietà, storicamente simbolo del dolore, appena estratta dalle macerie del duomo de l’Aquila dopo il terremoto, a cui fa da eco il rispettoso silenzio degli spettatori che abbandonano la sala del cinema alla maniera di come si esce da una chiesa nel giorno di un funerale.