Il luogo comune vuole che la dimensione del club sia la più consigliata perchè un autore riesca a far comprendere le sfumature del proprio lavoro al pubblico, evitando le semplificazioni imprescindibili dalla spettacolarizzazione dello stadio, dalla necessità di intrattenere decine di migliaia di persone che manda a farsi benedire la coerenza e la purezza del messaggio.
Dall’altro lato, però, rinunciare a palcoscenici di tale dimensione, al di là delle logiche pubblicitarie ed economiche (e delle pretese narcistiche degli artisti stessi), presenta un grande contro: la difficoltà di mantenere alto il pathos, l’epica che sembra essere ingrediente fondamentale di certe canzoni, tanto quanto gli strumenti stessi che le hanno eseguite. Evocative e misteriose nelle cuffie di un qualsiasi walkman, si riducono a scialbe cover quando vengono eseguite live dai (legittimi) compositori in uno scalcinato locale di provincia. Il luogo perfetto per porre fine a questo conflitto tra chiarezza del messaggio e epica nella sua consegna sembrava essere, almeno in potenza, il teatro, abbastanza piccolo da permettere un contatto vero con il pubblico e, allo stesso tempo, provvisto di quell’autorevolezza che soltanto la Storia può fornire, quando le masse oceaniche sono impegnate a fare altro. Nonostante queste allettanti premesse, anni di tentativi più o meno riusciti ci insegnano che la formula perfetta per far attecchire il rock in un ambiente del genere, senza tradirne le prerogative, è una missione quasi impossibile. Gli enormi problemi tecnici, con l’impossibilità tecnica di garantire un’acustica dignitosa, nonchè una più astratta, ma altrettanto importante, componente di sudditanza psicologica, hanno dato il via ad un’infinita serie di rivisitazioni jazzate, riletture unplugged, che non hanno (quasi) mai riconsegnato al pubblico un’esperienza che potesse dirsi paragonabile non tanto a quella, incomparabile, di uno stadio, ma perlomeno alla resa sonora di un qualsiasi club delle stesse dimensioni.
Fortunatamente, “Io so chi sono”, il tour che gli Afterhours stanno portando in giro per 17 teatri d’Italia, è quanto di meno “teatrale” ci si possa immaginare, almeno nel senso che abbiamo imparato a conoscere sulla nostra pelle nel corso degli anni. I volumi sono pericolosamente alti, tanto da far temere per gli intarsi del Teatro Filarmonico di Verona, che ospita questa data, le chitarre distorte e le luci penetranti, come non stonerebbero in un qualsiasi palazzetto. Paradossalmente, però, non sembra poter esistere al mondo un luogo migliore dove poter ascoltare l’ultimo lavoro della band, “Padania”, impegnativo e pieno di contenuti sin dal titolo. Gli Afterhours non si sono lasciati addomesticare dall’etiquette dell’Operà, riuscendo nell’arduo compito di sfruttare appieno le potenzialità del teatro senza tradire il proprio sound. Proprio come ai tempi della loro innovativa e discussa presenza a Sanremo, hanno avuto la lungimiranza di capire che è proprio nei luoghi “istituzionali” del Paese (reale), le scuole, i teatri, i festival della canzone, che un messaggio forte, pur se minoritario, può riuscire a superare intatto gli angusti limiti della nicchia, ad elevarsi a manifesto vero e proprio, reale, appunto.
“Quando realizzerai che il potere della tua gioventù, e quel che hai fatto era un’assurdità che non potrai cambiare più, che non puoi cancellare più, allora l’onestà emergerà come un tatuaggio in faccia, niente brucerà di più, e oggi ho avuto un dono: io so chi sono”
Con queste parole, passando tra il pubblico in platea, Manuel Agnelli sale sul palcoscenico, per lanciarsi, accompagnato dalla band, in Spreca una vita e Costruire per distruggere, estratti quasi programmatici da “Padania”: “bimbo,diventa ciò che sei: adesso sei un uomo” ammonisce la prima, “sarà bellissimo fare parte della gente senza appartenere a niente”, profetizza la seconda. Il tema annunciato della serata, l’identità, coincide in fin dei conti con quello dell’album stesso, il cui scopo sembra quello di incitare ad un cambiamento radicale nelle nostre vite, una rivoluzione, si potrebbe dire, ma che stavolta non si dimentichi delle individualità di chi vi partecipa, non le sminuisca seppellendole sotto tonnellate di dottrina. Da un lato, quindi, la costruzione, sulla base di quanto di buono c’è stato prima di noi, dall’altro, la distruzione, la necessità di riconoscere, affrontare e, perchè no, combattere il cambiamento valoriale che, volenti o nolenti, ci scorre sopra. È sotto questa luce, forse, che si può interpretare la scelta, rischiosissima, di riprendere un testo abusato come Indifferenti di Gramsci, e di accompagnarlo con la sola batteria di Fabio Rondanini, il cui ritmo ossessivo, tribale, sembra quasi una chiamata alle armi per chi l’ascolta.
“Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?”
Dopo una versione incredibilmente potente di Il sangue di Giuda, da “I milanesi ammazzano il sabato”, è il solo Agnelli a rimanere sul palco per eseguire alla chitarra Place to be di Nick Drake (“il mio cantautore preferito”, confessa), anche se la sua voce, potente e strabordante, sembra faticare a rientrare nei ranghi di quella dell’autore. Dopodichè, la band ritrova il suo posto sul palco per una doppietta di classici (Baby fiducia e Ballata per la mia piccola iena) che anticipa la seconda lettura della serata, tratta dall’Urlo di Allen Ginsberg. La voce fatica a sovrastare il rumore di campane, i colpi sordi, le grida generate da Xabier Irondo, ma il messaggio arriva forte e chiaro:
“Moloch i cui occhi sono mille finestre cieche! Moloch i cui grattacieli sorgono in lunghe strade come Jehovah senza fine! Moloch le cui fabbriche sognano e gracchiano nella nebbia! Moloch le cui ciminiere e antenne incoronano le città! Moloch il cui amore è petrolio e pietra senza fine! Moloch la cui anima è elettricità e banche! Moloch la cui povertà è lo spettro del genio!”
E forse non a caso queste parole, quasi ne fossero un anticipazione, sono seguite da tre brani di “Padania”, tra cui Terra di nessuno, forse la migliore esecuzione della serata, con la voce di Agnelli che lotta contro l’andamento marziale della batteria e le tre chitarre elettriche schierate, quasi a mo’ di sfida, in primissimo piano, proprio di fronte al vano che dovrebbe ospitare l’orchestra. Seguono un’ottima versione di Varanasi Baby e I milanesi ammazzano il sabato, che sembra particolarmente calzante in una serata del genere, con il suo andamento quasi noir e le parole che suggeriscono una qualche ombra che sta per incresparsi sotto la normalità di un viaggio in automobile. La stessa normalità che si interrompe a causa di un banale incidente e genera nel proprietario di un’osteria una felicità che Pessoa si sforza, invano, di comprendere nel Libro dell’inquietudine, da cui è tratto il terzo ed ultimo reading della serata. Serata che sembra trovare la sua conclusione ideale nella fantastica ballata La terra promessa si scioglie di colpo, introdotta dagli archi e dal pianoforte di Agnelli, per poi lentamente liberarsi e rivelare l’eleganza del drumming di Rondanini ed un breve ma efficace assolo dell’altro nuovo arrivato, Stefano Pilia, alla chitarra.
“Senza cori, nè bandiere, è uno stato nella mente e so che c’è una dittatura, perchè c’è, qui dentro me”
Per il bis, la band rientra direttamente dalla platea, in acustico, senza amplificazione, per accompagnare, letteralmente, il pubblico nell’esecuzione di Non è per sempre, in un momento davvero intenso, più che per il brano in sè, perchè posizionato a culmine di una ricerca consapevole di ascolto, di empatia umana, ancor prima che musicale. È questo momento, e quello che sta a significare, ciò che rimane veramente dello spettacolo di Verona, e poco importa se, forse, l’ora di musica che seguirà, per un totale di due e mezza effettive, sembra un po’ soffocare la coerenza efficace della prima parte. I tre bis che seguono, contenenti, tra le altre, una bellissima versione di Lilac Wine (molto più Nina Simone che Jeff Buckley, per intenderci), Caroline Says di Lou Reed, cantanta da Dellera, Riprendere Berlino e, a chiudere, Quello che non c’è, in cui va segnalato il gran lavoro alla chitarra di Pilia, sembrano infatti quasi avulsi dal contesto della serata, quasi come se un’eccessiva volontà di accontentare il pubblico avesse portato il concerto fuori dai giusti binari. É questo l’unico neo di una serata eccezionale, la cui riuscità va senza dubbio ricondotta all’ottimo lavoro dei tecnici alle spalle della band. È anche grazie alla cura millesimale delle luci e, in particolar modo, ad un mixaggio sorprendentemente chiaro e diretto, soprattutto se rapportato al volume a cui si è suonato, che il messaggio degli Afterhours è riuscito a farsi strada, forte e chiaro, senza distorsioni, in un luogo inaspettato come quello del teatro di Verona.
SCALETTA:
1. Io so chi sono
2. Spreca una vita
3. Costruire per distruggere
4. Reading Indifferenti
5. Sulle labbra
6. Il sangue di Giuda
7. Place to Be
8. Baby fiducia
9. Ballata per la mia piccola iena
10. Reading Moloch
11. Metamorfosi
12. Terra di nessuno
13. Padania
14. Varanasi Baby
15. I milanesi ammazzano il sabato
16. Reading Il libro dell’inquietudine
17. La sottile linea bianca
18. Iceberg
19. La terra promessa si scioglie di colpo
BIS 1:
20. Non è per sempre
21. Ossigeno
22. Posso avere il tuo deserto?
23. Ci sono molti modi
BIS 2:
24. Lilac Wine
25. Bianca
26. Riprendere Berlino
27. Il mio ruolo
BIS 3:
28. Caroline Says
29. Inside Marylin Three Times
30. Carne fresca
31. Quello che non c’è