Come Bowie e Arcade Fire fecero risorgere l’album dieci anni dopo iTunes (e trenta dopo gli Stones)

Cominciamo con una di quelle domande retoriche che fanno sempre effetto nell’introdurre gli articoli: “quali sono stati gli eventi musicali più importanti o quantomeno chiacchierati del 2013?“. Io ne ipotizzerei quattro: a) cinquantesimo avversario degli Stones, e tour annesso, b) Miley Cyrus (sul “musicale” si potrebbe discutere, ma non è questo il luogo), c) nuovo disco di Bowie, d) nuovo disco degli Arcade Fire. In metà delle risposte (un suggerimento, e un banale gioco di parole che neanche a Colorado Cafè: c&d) appare un nome che non avrebbe dovuto vedere mai più la luce del sole, come era successo per la parola “audiocassetta” prima di lei.

Per quale motivo la parola “album” si ostina a voler sopravvivere nel lessico musicale, nonostante sia stata condannata irrevocabilmente all’oblio? Tutti sanno, infatti, che l’idea stessa di raccogliere insieme delle canzoni seguendo un ordine logico fu dichiarata legalmente deceduta nel 2003, con l’avvento di iTunes. In quella che potremmo definire la rivoluzione copernicana della musica, gli ascoltatori rinnegarono il CD come unità di misura ultima per l’ascolto di musica, in favore degli 0.99$ a canzone che il Sig. Jobs poteva offrire.

Credit:CNN.com

La promessa di Apple, va detto, non si limitava solo al “vil denaro”, al pensare alla musica come ad una merce all’ingrosso, in un modo non diverso da quello della celeberrima Casalinga di Voghera che deve comprare una cucina nuova. La scomparsa dell’album avrebbe infatti significato un cambiamento nella nostra vita, sì! In primis, un risparmio di tempo e di noia, un’ottimizzazione della nostra giornata, la possibilità di un mondo in cui avremmo ascoltato soltanto le canzoni che già sapevamo di apprezzare. Mai più filler, insomma: quei riempitivi che l’artista è costretto ad inserire per ragioni contrattuali, per un qualche capriccio dadaista o, più concretamente, per raggiungere un minutaggio tale da giustificare il prezzo del CD agli occhi del fan. Non ci sarebbe stato più nulla da giustificare, appunto: sarebbe bastato sfornare un gran singolo, organizzare una campagna promozionale efficace e, con il minimo sforzo, tutte e tre le controparti della storia (major, artista, ascoltatore) avrebbero massimizzato la loro soddisfazione. Il sacrificio dell’album era necessario a rendere la vita di tutti più efficiente e, perchè no, un po’ migliore.

Prima di provare ad organizzare una risposta vorrei soffermarmi ancora un attimo sugli Stones, non per celebrare la loro endless summer come hanno già fatto in ogni modo e occasione tutti i principali organi di stampa, ma per evidenziare un fatto che in pochi sembrano ricordare, e che è strettamente collegato al discorso che stiamo portando avanti. Furono proprio Mick&Keith, infatti, a dare il vero colpo di grazia al concetto di album, con almeno 15 anni di anticipo rispetto al profeta Jobs.

Non ci fu bisogno di creare nulla di nuovo, nessuna applicazione, nessun pay-per-view, nessun business plan: bastò semplicemente constatare come i soldi veri venissero da due fonti, concerti e merchandising. Perchè, allora, non scollare la raccolta di canzoni da qualsiasi pretesa filosofico-idealistica sessantottina, e piegarlo a favore di queste due categorie? La soluzione fu trasformare l’uscita discografica in un semplice pretesto, in una scusa per cominciare un nuovo tour, con biglietti sempre più costosi, scalette sempre più uguali e, soprattutto, accessori sempre nuovi da riportare a chi ci aspetta a casa e non si è potuto permettere di venire. Basta perdere tempo dietro agli assurdi concept album di Bowie (come questo o questo, per citare i soliti noti): meglio saturare il mercato con live (6 nel giro di venti anni), raccolte (5 in altrettanti anni), riedizioni e, soprattutto, album dimenticabili come Undercover e Steel Wheels. Et voila, in men che non si dica il disco assume lo stesso valore delle calamite da frigo con le labbra di Mick Jagger vendute fuori dallo stadio.

Tornando al cuore del nostro discorso e considerando quanto detto fino ad ora, il vero paradosso di tutta questa storia è che, ad oggi, gli album sembrano essere di nuovo al centro del sistema discografico-promozionale. Bowie sembra aver rispedito al mittente i colpi leciti o meno degli Stones, neanche fossimo nell’ennesimo, ostinato remake Stalloniano di Rocky. The Next Day, così come Reflektor, Art Pop, con la tanto decantata cover di Koons, e perfino il nuovo disco di Claudio Baglioni (!), è stato accompagnato da una campagna mediatica fortissima, che una volta sarebbe stata concentrata esclusivamente sul singolo di punta, piuttosto che sul prodotto in generale. Sicuramente non è da trascurare il fatto che questo fosse “il disco del ritorno del Duca Bianco”, con le implicazioni mediatiche che ne conseguono, ma, a mio parere, il discorso trascende da questo specifico caso. Se, infatti, Bowie ha puntato sull’effetto sorpresa, arrivando a “riciclare” la cover di Heroes, Gaga e Arcade Fire hanno messo in atto una strategia diametralmente opposta, tentando in ogni modo di aumentare l’interesse per l’album, l’hype, a colpi di dichiarazioni, anticipazioni, video, leaks della cui autenticità è ormai lecito dubitare. Metodi opposti, quelli di Bowie e degli Arcade Fire, ma una sola, identica conclusione: l’abbandono della ricerca del tormentone ad ogni costo da parte di artisti affermati che, dieci anni fa, avrebbero fatto qualunque cosa per ottenere un passaggio del loro video su MTV, in favore di una maggiore attenzione al messaggio dell’album o, per essere meno retorici, al suo mood e all’immaginario cui fa riferimento. Proprio come hanno fatto i Daft Punk: avete ragione, li avevo dimenticati.

Prendiamo la campagna degli Arcade Fire: in primis hanno disseminato per il mondo graffiti anonimi relativi al titolo dell’album e alla data di rilascio (le 9 del 09/09…), che sono stati poi raccolti in questa pagina, hanno quindi annunciato la collaborazione dello stesso Bowie all’album e che Anton Corbjin avrebbe diretto il video del primo singolo, concesso un ascolto in anteprima esclusivamente a David Fricke di Rolling Stone per convergere l’intero web, confuso ed affamato, su di un unica, masochistica preda che non poteva chiedere di meglio. Tutto qua? Magari. La band è stata inoltre protagonista di uno special del Saturday Night Live, diretto da Roman Coppola (figlio&fratello di), a cui ha partecipato chiunque da Bono a Ben Stiller, si è esibita sul tetto della sede della Capitol Records (mio dio… pensavo avessimo detto basta a questo genere di cose) .

Il ritorno dell’album, insomma, potrebbe essere l’inizio di un nuovo-vecchio modo di concepire la musica, in cui ciò che ascoltiamo non è la canzone più orecchiabile uscita tra altri 100 scarti, ma un concetto, un’idea compiuta che l’artista vuole esprimere, al di là del suo potenziale commerciale. Sembra in atto il revival del concept album, del voler comunicare ad ogni costo un messaggio e un’atmosfera ben delineati all’ascoltatore. Potremmo essere di fronte alla riconquista del primato dell’arte sull’economia, ad una presa di posizione da parte dei musicisti che ci aspettavamo da almeno venti anni e che in pochi hanno avuto il coraggio di esprimere.

Purtroppo questo discorso nostalgico e sognatore allo stesso tempo deve fare i conti con l’amara realtà: come tutto ciò che è vintage, rootsy, hipster per definizione, questo ritorno di fiamma per l’album non è altro che un semplice strumento all’interno di un’elaborata operazione commerciale. Vorremmo crederci, soprattutto noi nostalgici, ma sarebbe solo una terribile illusione. Si è capito che ciò che il pubblico brama al tempo di Internet non è più la semplice canzone, ma un’esperienza che sia il più possibile completa. Non vuole più “la canzone dell’estate XXXX”, dato che ne ha già una marea archiviata sullo smartphone, ma gli odori, la moda, le frasi, la cultura di un’estate lontana. È la Retromania che Simon Reynolds ha sviscerato nell’omonimo libro, il desiderio di ricongiungersi ad un passato idealizzato e, forse, mai effettivamente esistito. Di conseguenza, l’album torna ad essere fondamentale, ad essere il miglior modo di intercettare l’attenzione ed il gusto del pubblico, proprio perchè la canzone in sè non permette di abbracciare uno spettro di tematiche ed emozioni ampio come quello che viene richiesto al giorno d’oggi. In 10-15 brani, al contrario, l’artista riuscirà nell’impresa di creare un’opera coerente, politica, eterna… o semplicemente a costruire un prodotto con una vita e una personalità propria (il feticismo delle merci di cui parlava qualcuno), che racconti una storia o abbia un target tale da potersi differenziare sul mercato nella maniera più efficace possibile.

Riscoprire l’album non significa quindi ritornare ad un vecchio modo di fare musica ma, semplicemente, riciclare un altrettanto vecchio modo di venderla.

Cover Credit: Robert Frank

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