Mi sento meglio se mi bacia il sole
se ho un nuovo disco da poter cantare
Entriamo all’Hart dopo aver girato un bel po’ prima di trovare un millimetrico parcheggio, tutta via Crispi è occupata da entrambi i lati e c’è già un bel po’ di gente davanti all’ingresso di quello che una volta era (e ora in parte continua a esserlo) uno dei cinema del salotto buono napoletano. C’è il tempo di salutare gli amici che sai di ritrovare sera dopo sera nei concerti cittadini senza avere nemmeno il bisogno di darsi appuntamento per quella che è una tribù metropolitana che cerca di partecipare quanto più possibile a un rito pagano diverso ogni sera sotto i palchi napoletani e della provincia. Quando entriamo nella grande sala dove sta già suonando Alì (cantautore su etichetta Trovarobato con due dischi all’attivo, prodotti dallo stesso Colapesce), già piuttosto piena di ragazzi, siamo subito colpiti da un fortissimo odore d’incenso. Mentre veniamo per un rapidissimo istante colpiti dall’irrealistico dubbio di aver sbagliato luogo di culto, vediamo qualcuno agitare un aspersorio dorato che continua a diffondere il fumo persistente della resina: del resto la copertina dell’ultimo lavoro di Colapesce, uscito il 27 ottobre dello scorso anno per la 42 Records/Believe, ritraeva il piccolo Lorenzo nell’atto di ricevere la prima comunione sotto quel titolo, Infedele, che suonava come una dichiarazione d’indipendenza rivendicata proprio attraverso la non appartenenza a nessuna chiesa. Un disco che ha segnato un deciso passo avanti nella carriera del cantautore siracusano che si è avvalso, nell’occasione, della produzione di Mario Conte, musicista e compositore napoletano già al lavoro su Egomostro e, soprattutto, di Jacopo Incani (Iosonouncane) che fa sentire forte la sua idea di musica in un disco capace di mescolare, in appena trenta minuti, cantautorato italiano, elettronica, tribalismo, musica brasiliana e le colonne sonore degli anni sessanta.
C’è attesa perché un disco del genere ha rappresentato uno strappo per i fedelissimi dello stile del cantautore siciliano e, contemporaneamente, uno stimolo fortissimo per chi gli si è fatto più vicino proprio in virtù delle nuove sonorità. C’è curiosità intorno alla resa live di un disco evidentemente stratificato, complesso e molto ben prodotto. A salire per primo sul palco è proprio Mario Conte che crea l’atmosfera con un’introduzione elettronica mentre gli altri musicisti salgono a poco a poco; tocca infine a Colapesce che si presenta con una grande maschera da pesce spada sulla testa. L’apertura è affidata a Pantalica, opening di Infedele e, a più livelli, manifesto dell’intero nuovo lavoro. Memoria ed evocazione dell’antichissima Hybla, Necropoli del XIII secolo a.C. della sua Siracusa, Pantalica è una suggestione sciamanica sospesa tra Lucio Battisti e Ornette Coleman, Vincenzo Consolo ed Eugenio Montale, tra suoni contemporanei e atmosfere arcaiche. Tutti sono vestiti da prete, con tanto di collarino bianco, solo la giovanissima Adele Nigro (Any Other), alla chitarra, spezza il colore nero con una minigonna argentata. Il finale è un delirio electro–free su cui domina il sax baritono di Gaetano Santoro, come la Nigro anche lui su disco.
Al baccanale che chiude Pantalica fanno seguito come gocce minimaliste le note del piano di Mario Conte che introducono Ti attraverso, una delle ballate più riuscite dell’intero disco con un ritornello fresco che trascina il pubblico. Le luci turchesi che illuminano d’improvviso il palco sono la scenografia perfetta per Vasco da Gama, capaci di trasformare la sala dell’Hart in un grande acquario, riuscendo a creare un’atmosfera sospesa dove sembra quasi di poter veder passare come fantasmi, come ologrammi, i personaggi raccolti in questa favola dolce che tiene unite, in una melodia antica, la Sicilia e le terre lusitane, fino e raggiungere le Indie. Ed è innegabile che Colapesce dà il meglio di sé quando meno si allontana da una forma espressiva capace di coniugare la semplicità delle linee melodiche (non di quelle armoniche) a suggestioni oniriche e ancestrali che riescono davvero a trasportarti in un altrove, in un sud dell’immaginazione.
Totale, che chiude la prima parte interamente dedicata al nuovo disco, canzone pop del lotto composta in realtà in qualità di autore, sembra figlia, pur nel suo arrangiamento frutto di un dialogo tra Sicilia e Sardegna per la versione definitiva, di Luca Carboni che, non a caso, l’aveva opzionata (e prima o poi andrà studiata l’incredibile influenza che Carboni, quasi come nume tutelare, sta avendo sulla nuova generazione di cantautori e musicisti italiani). All’improvviso la scenografia prende forma, il grande schermo bianco del cinema è illuminato dai colori sgargianti di una vetrata gotica che crea l’ambiente perfetto per quest’atipica celebrazione liturgica.
Reale è il primo pezzo da Egomostro che tanto deve alla musica d’oltremanica e alle sue derivazioni italiane di metà anni ottanta. Adele Nigro lascia la chitarra per guadagnare lo sfondo del palco dove va a imbracciare un sax tenore. La quota leggerezza di Reale lascia poi spazio a Egomostro col suo ritmo coinvolgente mentre ancora i due sassofoni all’unisono costruiscono la solida nervatura del pezzo. Si ritorna alle nuove canzoni di Infedele sulle quali è stata evidentemente pensata la scaletta e il nuovo approccio del live. Maometto a Milano, costruita su un beat e composta direttamente su laptop (la ricchezza dei nuovi brani si deve anche a un inedito approccio compositivo) beneficia del grande lavoro di Conte capace di dar vita anche dal vivo al giusto tappeto sonoro per quella che è, forse, la canzone più ermetica dell’album.
Ogni canzone finisce tra il boato del pubblico. Satellite si prende un boato anche all’inizio ed è innegabile che siamo davanti a un pezzo che, fin dalla sua uscita, ha dimostrato di possedere la forza di un classico. Mai come qui a Napoli sembra di avvertire la voce di Meg galleggiare nell’aria come se, dopo il duetto del 2012, il suo personalissimo taglio, quel modo di entrare lateralmente sulla melodia, fosse rimasto incollato al pezzo e, del resto, il lavoro e la presenza proprio di Mario Conte fanno da trait d’union in questo legame da Regno delle Due Sicilie che si respira stasera (quant’è bello suonare a Napoli – dirà, a un tratto, entusiasta dal palco). La fantasia samba che segue il secondo ritornello sul disco (e che richiama, ebbene sì, l’immortale Anima Latina) qui invece si trasforma, soprattutto grazie a Santoro e al suo sax, in un ritmo molto più funk che progressivamente travalica i confini del free jazz per poi calare di giri e scivolare lentamente verso il finale suggellato dalla batteria di Giannicola Maccarinelli (JoyCut) alle prese con un compito più che arduo: far dimenticare che su disco la batteria è affidata a Fabio Rondanini (Afterhours, Calibro 35).
In questa prima parte, nonostante la bellezza dei pezzi, non tutto è perfetto, qualcosa suona slegato eppure c’è altro: un’atmosfera, un’emozione che si muove costantemente tra pubblico e palco, non una tensione, semmai il contrario: una sospensione del tempo e degli affanni, come un reciproco cullarsi dentro un’improvvisa e ritrovata calma.
Foto di Grazia Russo
I musicisti abbandonano il palco su cui resta Mario Conte che, con poche note, disegna arabeschi a sostegno di Segnali di Vita, cover di Franco Battiato da La Voce del Padrone del 1981, in un confronto col grande artista catanese che diventa quasi una tappa obbligata per ogni musicista siciliano. Colapesce abbandona anche la chitarra per cantare semplicemente al microfono. La voce si alza e s’incrina un po’ e dal pubblico arriva il grido “Vai Lorenzo!” e se non è certo perfetta, conserva, però, intatta una sua particolare intensità grazie a una versione delicata che suona come una più intima invocazione.
I campionamenti fanno risuonare delle risate, all’inizio di Decadenza e Panna (come in Bored in the USA da I Love You, Honeybear, secondo disco di Father John Misty che Colapesce ama particolarmente) mentre i musicisti salgono sul palco indossando una maschera con l’emoji che piange dalle risate. È la canzone più delicata e dolce di Infedele, dialogo ideale di un rapporto fragile, pensata per voce femminile nel ritornello e che diventa, invece, affidata alla sola voce maschile, il gesto implacabile di un fallimento amoroso. Il palco è completamente buio tranne che per due lucine bianche al led che brillano sulla visiera del cappellino che Colapesce ha messo in testa ed è nel buio assoluto che il pezzo si avvia a conclusione con un arpeggio alla Neil Young. È tempo ancora di alcuni brani dai lavori precedenti. La distruzione di un amore, con il palco solo leggermente illuminato da un faro azzurro e da poche luci dello stesso colore sullo sfondo, segna un momento di stanca nonostante il bell’effetto delle luci che si fanno più forti a ogni colpo della batteria, mentre con Sottocoperta il palco riemerge definitivamente dal buio.
Tocca agli ultimi due brani di Infedele. Compleanno è un pezzo complesso, una fanfara di fiati che viene affiancata dalla cassa dritta che lo trasforma in un pezzo da club che gira in tondo per poi riprendere nuovamente la strofa. Colapesce si muove sul palco con un giubbotto di pelle con una saetta luminosa che campeggia sulle spalle, si diverte ad atteggiarsi a rocker consumato, un personaggio non sempre riuscito che sa giocare però con ironia sulla sua timidezza. Il bilanciamento dei suoni sul pezzo non è del tutto riuscito, Colapesce chiede ripetutamente di abbassare l’amplificazione di Conte che nel ritmo aggressivo dei beat elettronici finisce col coprire anche la sezione dei fiati. Nella samba elettronica che spezza l’andatura del pezzo sul finale, Colapesce prende una ciotola trasparente con dentro delle ostie e le offre al pubblico delle prime file in una messinscena di eucarestia pagana lasciandole poi girare tra la folla come in un’infinita comunione col pubblico.
Chiude il concerto Sospesi, ancora senza chitarra, del resto è un brano scritto al pianoforte qui naturalmente affidato a Conte e il pubblico lo canta in coro mentre il palco si riveste di un rosso carminio e Colapesce cerca ancora il contatto con il suo pubblico: prende lo smartphone di un ragazzo per continuarne il video inquadrando tutta la sala.
Ma quanta luce i tuoi occhi / sento bruciare dei fogli
Richiamato a gran voce, Colapesce torna sul palco per un nutrito gruppo di bis. Il primo è Restiamo a casa, lo schermo torna bianco, i fari si fanno color del fuoco e sul suono splendido della chitarra, Colapesce l’eretico, prende la scaletta e la brucia con un accendino. Maledetti italiani, con Adele Nigro alla chitarra acustica gode dell’improvviso divertissement con il ritornello de I migliori anni della nostra vita cantata a squarciagola da un pubblico sempre più entusiasta. La band sta bene, c’è più energia rispetto a un inizio più titubante come se, lungo il concerto, i musicisti (tra cui il bassista Andrea Gobbi) avessero guadagnato in affiatamento per arrivare compatti alla parte finale.
S’illumina, ancora dal primo disco, avanza col suo andamento da folk studio. Dovrebbe essere l’ultimo pezzo da scaletta e invece c’è tempo per un ultimo splendido regalo: Bogotà da Un meraviglioso declino con l’arpeggio di chitarra che sorregge il racconto di un’infanzia, di una rimembranza che è il modo migliore per lasciarsi andare in questa notte e quando parte la frase Io la notte ancora sto sveglio a pensare al tempo che ho perso e ne accumulo altro è difficile non alzare lo sguardo verso il soffitto e pensare alla crudele esattezza di un verso così bello.
È tempo degli applausi finali, dei saluti e dei ringraziamenti, di una chiacchierata e di una vodka tra pochi amici insieme a Lorenzo a parlare di frutti di mare, di cibo siciliano e napoletano, di alberghi dove rientrare, di Primavera Sound e di feste da qui a qualche mese che sono già da organizzare. Ma è tardi e le cose belle finiscono guadagnando l’uscita da una porta laterale.
Foto di copertina di Simone Cargnoni
Scaletta
- Aziz
- Pantalica
- Ti attraverso
- Vasco da Gama
- Totale
- Satellite
- Reale
- Egomostro
- Maometto
- Segnali di vita
- Decadenza e panna
- La distruzione di un amore
- Sottocoperta
- Compleanno
- Sospesi
Bis
- Restiamo in casa
- Maledetti italiani
- S’illumina
- Bogotà