Nell’ormai sconfinato panorama indipendente italiano Colapesce è da sempre stato considerato uno di quelli bravi davvero. Lo è stato almeno dal 2012, anno a cui risale il suo primo lavoro in studio Un meraviglioso declino. Sul che cosa voglia dire, poi, bravo davvero si potrebbe stare a sindacare per ore scomodando critici e artisti un po’ da ogni parte del globo, in vita e non. D’accordo o no con questa definizione, o presunta tale, la sensazione che il musicista siciliano abbia qualcosa in più (rispetto a chi lo lascio decidere a voi) c’è e c’è sempre stata. Però. Però come direbbe lo zio Ben di Peter Parker parafrasando una delle citazioni più abusate del cinema “da grandi talenti…” Quando si giudica un album di Colapesce infatti si tende d’istinto a mettere un po’ da parte la clemenza che spesso si riserva ad altri, e si parte già con l’asticella delle aspettative tarata decisamente sopra la media. È un po’ come correggere il compito del primo della classe. Se poi si legge che Infedele, il suo nuovo disco uscito oggi come sempre per 42records, è stato prodotto insieme a Iosonouncane (un altro di quelli bravi davvero) il risultato è che l’asticella è già ben oltre la zona rossa ancora prima di partire. La colpa è quindi in parte anche di tutte queste aspettative se, senza girarci troppo intorno, il disco non ci ha colpiti particolarmente. Ma procediamo con ordine.
Infedele è stato anticipato da due singoli, Ti attraverso e Totale, usciti rispettivamente il 6 e il 22 settembre. Le grafiche dei pezzi dimostrano che anche visivamente Lorenzo (o chi per lui) sa dove andarsi a scegliere le ispirazioni e infatti la copertina che mostra una sua foto da bambino su sfondo pastello incorniciata da scritte in nero risulta la versione sicula di Mura Masa e Life of Pablo.
Ti attraverso si apre con un pianoforte alla Regina Spektor che lentamente introduce quel timbro riconoscibilissimo a cui siamo ormai affezionati. Al primo ascolto il brano rimane già in testa, merito forse della leggera assonanza con Il cielo è sempre più blu che arriva dopo il primo ritornello. Dopo qualche riproduzione ci si accorge che la disarmante semplicità dell’arrangiamento sembra aver intaccato anche il testo. Non fraintendeteci, i riferimenti al piccolo quotidiano ci piacciono almeno dai tempi di Canzoni da spiaggia deturpata ma a fine 2017, dopo l’esplosione indie-pop degli ultimi anni, sembrano arrivare un po’ fuori tempo massimo e non fanno più lo stesso effetto (“Sei la pensione che non avrò mai”). Ci sta. È un singolone, e mentre lo si ascolta lo si immagina a ripetizione in versione ridotta e chiusa a dissolvenza nella pubblicità radiofonica di Infedele in un mondo ideale dove questo avrebbe possibilità di accadere. Una volta rotto il ghiaccio passiamo a Totale che sembra realizzare tutto quello che il primo singolo era in potenza. Il brano è infatti la tipica canzone italiana® , di quelle che, per radio, ci passano davvero. È un inno alla fratellanza che nel testo abbandona l’irriverenza del naufrago leghista salvato da un rumeno per una versione più clericale e politically correct: “Siamo nati tutti senza denti, tutti senza nome, come dei bambini torneremo felici”. Nel quadro generale la retorica del pezzo sembra essere quella solita del “basta poco per essere felici” che, per rimanere in casa 42records, già I Cani ci avevano somministrato con FBYC (Sfortuna).
A questo punto abbiamo l’illuminazione e in barba al buon senso che vorrebbe che si ascoltassero almeno ¾ del disco prima di tirare le somme pensiamo (con accento romano anche se si vive da sempre in Emilia): Colapesce s’è fatto er disco pop. Da bravi snob quali siamo ci prende la tachicardia mentre di fianco a noi una voce fuoricampo (anch’essa inspiegabilmente in romano) ci grida “embè?”. Da qui in poi, mentre ascoltiamo, ci ripeteremo come un mantra che, in fondo, non c’è niente di male. Quando riusciamo a mettere le mani sul disco completo facciamo un respiro, selezioniamo il primo pezzo e clicchiamo play. Rivelazione. Pantalica è una bomba. Non solo il suo ritmo elettro-etnico (Iosonouncane, sei tu?) attualizza il brano provando che il cantautorato italiano®, termine che mi ero promessa sarei riuscita a evitare, è materiale esportabile oltre i propri claustrofobici confini, ma anche il testo è di una bellezza struggente: “Una montagna foriera / una necropoli intera / mi mette in mano la vita / quindi mi passa la morte” (Montale, sei tu?). Scherzi a parte, con il pezzo di apertura Colapesce è davvero al suo massimo e lo dimostra riuscendo a racchiudere in 4 minuti e 34 un disco intero, o almeno l’idea a monte. È evocativo e diretto allo stesso tempo, tribale senza allontanarsi mai da casa. Il finale ha un che di sciamanico che ci fa assaporare la brutalità di un entroterra remoto sconosciuto ai più, esattamente com’era successo con DIE, secondo album del già citato co-produttore.
Con il cuore pieno della ritrovata speranza bypassiamo i due singoli che si trovano in seconda e terza posizione e ci avventuriamo verso il quarto pezzo. Vasco da Gama, almeno per quanto riguarda il richiamo etnico (questa volta più esplicitamente orientaleggiante) sembra puntare nella stessa direzione di Pantalica ma si palesa subito come un tentativo riuscito soltanto a metà. Bisogna dire che qui, però, c’è Colapesce al 100%: sono suoi i riferimenti (il mare, il seno, le terre emerse), sue le immagini, sue le melodie. Da fan di vecchia data indugiamo ancora un po’ nei suoi quattro minuti e mezzo, coprendoci con la rassicurazione di un pezzo che di certo non sorprende ma conforta. Quando arriva Decadenza e Panna siamo già in un mood malinconico e questo gli permette di sferrare il colpo decisivo che ci fa piegare verso una ritrovata indulgenza. Deponiamo le armi imbracciate dopo l’ascolto dei singoli e ci fermiamo a meravigliarci davanti alla sua perfetta semplicità. È una ballad che sa di hawaii e solitudine auto inflitta e, di nuovo, il testo…Il testo è breve, brevissimo. Un haiku che, per dirlo rimanendo a casa nostra, si dispiega in poco spazio come il cielo in una stanza (“E mi rassegno alle tue scuse / faremo come dici tu / quando il buongusto è sulla sedia / e il cappio l’hai comprato tu”). E a questo punto sembra già di vederle le recensioni, che inneggiano al ritrovato, ancora una volta, grande cantautorato. Quello spettro gigante davanti al quale qualsiasi artista italiano prima o poi è costretto a misurarsi. La verità è che i paragoni lasciano un po’ il tempo che trovano e, alla fine del giorno, se anche si scoprisse che Colapesce è, davvero, il nuovo Battisti, importerebbe?
Eliminato tutto ciò, quello che resta è un pezzo che superata la metà sembra prenderci in contropiede dimostrando che si possono ancora fare magie soltanto con voce e chitarra. Per questo, quando Maometto a Milano irrompe con la sua accennata scala araba strappata direttamente a Marrakech la domanda che sorge spontanea è: ce n’era davvero bisogno? E sorge perché il pezzo, sia da un punto di vista strettamente strumentale che in modo più specifico nelle lyrics suona, nel complesso, un po’ paraculo usando un francesismo, e fa l’effetto delle palme in Piazza Duomo. Il risultato è che il testo (e tutto il brano) rischia di annegare proprio in quel qualunquismo che ironicamente viene citato nel ritornello. Passiamo oltre. La settima traccia è un’altra sorpresa che risponde questa volta al titolo di Compleanno. L’intro ricorda (neanche troppo) vagamente Iron di Woodkid, e esattamente come nel pezzo del compositore francese l’atmosfera è da subito avvolgente. Pochi secondi dopo l’inizio ci si fa però assalire dal dubbio che la riproduzione di Spotify versione gratuita ci stia rifilando un pezzo di Cosmo (non a caso anche lui uscito con 42records) ma basta un rapido check per constatare che non è così. Va bene, il genere va e noi mettiamo da parte il bigottismo e ci godiamo tutti i suoi 5 minuti e 24 di durata che da metà in poi riescono anche a coinvolgerci per davvero e a posteriori risultano tra i passaggi migliori del disco. Chapeau. Le otto tracce di Infedele si chiudono con Sospesi, un pezzo pseudo natalizio (non è che tra un mese lo farete uscire come singolo, eh?) che potrebbe essere stato scritta da Francesco Renga. È lento, dolce, romantico, tanto da farci sentire delle brutte persone se non riusciamo proprio a farcelo piacere. Il fatto è che quest’ultimo brano condensa e riassume un po’ tutti i problemi del disco. Sulla carta è ben fatto, ben scritto, ben suonato. Ha una sua linea precisa e la segue. Nella realtà tuttavia manca d’ispirazione e coraggio e fa perdere a Colapesce l’unica sfida che davvero conta, quella contro se stessi. Infedele nella sua perfezione formale sacrifica un po’ di quella genuinità così presente in entrambi i suoi dischi precedenti e lo fa nel probabile tentativo di cavalcare l’onda (di quale onda parliamo lo si capisce), di uscire in tempo. È un disco diretto, fatto per essere fruito senza sforzo da un pubblico più ampio di quello a cui si è sempre rivolto. Come conseguenza i testi si semplificano, la femminilità delle ragazze evocate si uniforma a quella appartenente a un universo ben preciso e circoscritto e si perde un po’ quella delicatezza che era il vero punto di forza della scrittura di Lorenzo Urciullo.
In tutto questo la cosa positiva è che, ne siamo convinti, il disco andrà alla grande. Se ne parlerà tanto e lo si ascolterà ancora di più. E se questo significa che Colapesce verrà riscoperto in tutta la sua meravigliosa produzione non possiamo che esserne felici, mettere da parte la gelosia che lo voleva confinato tra pochi eletti e affermare che, nonostante tutto, lo assolviamo dai suoi peccati.