È inutile tornare con la testa indietro verso Il meraviglioso declino che hai amato, consumato, sventrato. Le stagioni vanno avanti, e anche se le cose che hai portato con te restano dentro di te, oggi è tempo del nuovo album di Colapesce: Egomostro. Ti porti dentro, per esempio, la capacità di fondere sound e influenze straniere con un cantato e un linguaggio italiano che poco hanno a che fare con le parole post-moderne e i canoni che ha tracciato Francesco Bianconi in Italia, che poi ha dato il la al linguaggio scelto da I Cani e dagli ultimi Amor Fou. La ricerca linguistica di Lorenzo Urciullo aka Colapesce mi è sempre sembrata un tantino più sincera e meno costruita: gli occhi tornavano al loro nome proprio (occhi), e i barbari erano tutti quelli che tentavano di definirli in maniera metaforica. Nonostante lo scetticismo iniziale, e la paura che Colapesce fosse incappato nel pericolo di una qualche gabbia del cantautorato italiano e dei suoi costrutti classici di ”canzone” (riff-ritornello-riff), quest’album conferma la classe e il talento del cantautore siciliano. Che brilla, tra gli altri, per originalità.
È subito chiaro sin dall’impatto con Entra pure, intro di poco più di 30 secondi che ci accompagna dentro il piccolo viaggio di Egomostro, che le sonorità di quest’album riproducono le belle atmosfere di sempre, per quanto siamo distanti dall’attitudine più lo-fi degli esordi. C’è sicuramente una cura maggiore negli arrangiamenti, che man mano ci culla per tutta la durata del disco. Ma l’originalità per fortuna è salva. Basti ascoltare pezzi come Sottocoperta, che confermano la supremazia di questo cantautore nello stanchissimo e ripetitivo panorama del cantautorato nostrano. Eccola di nuova quella melanconia tutta unica che ci piace tanto in Colapesce, con quegli arrangiamenti che accompagnano perfettamente melodia e parole: c’è un modo di pronunciare ”la tua bocca” che rimane immediatamente fissato in testa. E non ti lascia più.
I due singoli di lancio del nuovo album (Maledetti italiani e, in particolare, L’altra guancia) avevano lasciato presagire un avvicinamento di Colapesce verso una dimensione più pop(olare) rispetto ai suoi precedenti lavori, un ritorno al salvifico rifugio di Lucio Battisti reinterpretato per i tempi odierni. E così quell’attenzione ai sound inglesi e americani che mi era piaciuta tanto trovare in un disco italiano come Il declino avevo paura fosse perduta. In realtà non è andata così: ci troviamo di fronte a un album che riesce a essere critico con se stesso a partire dal titolo. Egomostro è la nostra società contemplata al microscopio, con tutti i suoi vizi amplificati da una generazione ammaliata dall’io e dall’immagine di questa moltitudine di io. La folla degli io che si affidano a Brezny, mentre ”la progettualità è il nuovo inferno’‘. Son passati tre anni dal meraviglioso declino, il tempo è cambiato, e chi ti invitava al viaggio in India anche a costo di vendersi un rene, oggi rinnova il suo invito a sgonfiare l’io per ritrovarsi nudi a contemplarsi le schiene. Mai vista è un pezzo che potremmo definire come emblematico in questo disco: se inizia soffuso nelle sue atmosfere e ripesca negli esordi di Urciullo, arriva un momento in cui la canzone si apre verso le sonorità nuove di questo lavoro in cui la chitarra non è assente, ma certamente meno presente, e si lascia accompagnare da tutti gli altri strumenti. Un album più difficile in cui entrare, in cui ricostruire i geroglifici a pezzetti.