La continua evoluzione del Club To Club | Intervista a Giorgio Valletta

Abbiamo incontrato Giorgio Valletta, dj radiofonico (Popolare Network, Rai) giornalista musicale (DJ Mag Italia, Rumore) e co-fondatore della storica club night torinese Xplosiva da cui è nato Club To Club, per scoprire come uno dei festival più importanti del nostro paese sia nato e continui a svilupparsi col passare degli anni. Un confronto fra il presente e il futuro della musica elettronica e non solo nel nostro paese.

 


 

Organizzare la line-up di un festival è un mare di complicazioni, da una parte l’ottimizzazione del budget, dall’altra l’incognita dell’apprezzamento del pubblico. Stiamo assistendo, qui in Italia, almeno da qualche anno, a scelte che puntano più sulla sicurezza dei grandi nomi piuttosto che a un processo innovatore e attento alle nuove tendenze (ma quanto mai rischioso).

Probabilmente questo è uno dei motivi per cui i festival indie-rock in Italia non sono mai decollati del tutto. Siamo rimasti ancorati all’idea del grande evento, perché è difficile trovare un equilibrio fra questi fattori. Come Club To Club abbiamo sempre cercato di proporre qualcosa di nuovo, presentando le cose che ci piaceva portare. I conti con i numeri, però, sono necessari, soprattutto quelli su quanti potrebbero seguire certe scelte. Ogni volta si tratta di spostare sempre un po’ più in alto l’asticella. È quello che abbiamo cercato di fare sin da subito, da una parte con un pizzico di incoscienza, mentre dall’altra abbiamo provato a spingere la nostra idea di festival senza perdere pubblico e, nel bene e nel male, ci stiamo riuscendo, i numeri hanno continuato a crescere da quando siamo partiti, soprattutto dal 2010, che possiamo considerare come l’inizio di una seconda fase di Club To Club. Nel periodo 2007-2010 abbiamo iniziato a staccarci dall’idea che si dovessero fare cose soltanto relative al mondo della dance elettronica, da cui proviene, del resto, il nostro nome. Quando siamo partiti si trattava di una club night (Xplosiva) in diversi locali collegati da una biglietteria unica. La prima edizione del 2002 era, addirittura, solo un venerdì in cui in tre club torinesi si alternavano diversi deejay fra italiani e stranieri e poi, da lì, siamo cresciuti. Fra il 2007 e il 2010 abbiamo iniziato a puntare, invece, più su artisti che proponessero delle performance live e su un concetto che non si riferisse solo ed esclusivamente alla musica ‘da ballare’. Questo aspetto ha preso definitivamente il sopravvento, in relazione a come è cambiata la musica nel frattempo e, conseguentemente, i nostri ascolti. Il pubblico ha risposto bene e così abbiamo continuato a investire su questo aspetto fino ad arrivare alle ultime edizioni. Si è trattato di un processo di trasformazione non repentino, ma frutto di tante riflessioni su come adattare al meglio la risposta del pubblico e la nostra idea.

È proprio questa confluenza fra diversi stili a staccare il Club To Club da molti altri festival, ma che rimane ancora minoritaria nel nostro paese, dove persistono alcune divisioni inattaccabili.

È una filosofia che ci piace e che è minoritaria, purtroppo, solo da noi, ma è destinata a diventare sempre più importante. C’è un ricambio generazionale, il pubblico più giovane viaggia più di frequente e sempre più spesso va all’estero a vedere come funzionano i festival stranieri. Grazie alla rete i gusti musicali si sono diversificati, sono diventati più complessi e meno legati ai grandi nomi come una volta. Se si parla di modello di festival rock classico, come poteva essere, per esempio, quello dell’Heineken Jammin’ Festival, si parla di un modello in fase calante e di estinzione, tanto che non ne esistono quasi più. Non si riesce più a fare cose di quel tipo perché, oggi, è molto più facile che le persone vadano a sentire il ‘grande nome’ a un concerto piuttosto che inserito in un grande festival. È stato inevitabile perché si trattava di una formula in cui si aspettava, spesso, solo l’artista principale e non era vissuto come ‘evento festival’, ed era dovuto anche a una limitata cultura musicale che limitava la curiosità attorno a gruppi sconosciuti ma che, fortunatamente, sta scomparendo.

 

 

Persiste ancora, però, il problema a distinguere quello che è un festival di musica elettronica da una semplice serata in discoteca. A cosa è dovuto?

C’è un equivoco di fondo, perché il problema è che alcuni media generalisti fondono insieme questi due aspetti. Il Club To club non è più solo quella ‘cosa’ e questo aspetto è compreso molto più dal pubblico che ci segue rispetto a chi ci guarda dall’esterno e ancora fatica a capire quello che siamo diventati. Credo che il nostro pubblico sia già abbastanza preparato e sappia cosa lo aspetta e, questo, vuol dire anche una serie di djset che, ogni anno, vengono scelti molto accuratamente, più adatti a far ‘ballare’ le persone. Ma se si guardano gli ultimi cartelloni ci si accorge in fretta che per la maggior parte si tratta di artisti che propongono dei live e, addirittura, inizia a essere difficile assimilare il Club To Club a una definizione così stretta come quella di festival elettronico, perché ci sono tante cose che sono al confine tra i due mondi, come sono stati, ad esempio, i Battles nell’ultima edizione.

Come dicevamo prima, il rapporto con le persone è fondamentale e, in qualche modo, si può davvero parlare di una reciproca influenza (ed educazione) che l’organizzazione fa col pubblico, portando artisti che in Italia non avevano mai suonato. Come si è costruito questo rapporto, da Xplosiva fino alle ultime edizioni?

È un aspetto a cui teniamo molto, e abbiamo cercato di farlo sin da quando è nata Xplosiva come club night nel 1997. All’inizio si trattava soltanto di una serata senza grandi pretese, e quando Sergio (Ricciardone, NdR) ed io mettevamo i dischi le persone che ci seguivano erano attratte da questo ibrido fra musica indie ed elettronica, dai Chemical Brothers in poi, che già andava per la maggiore in Inghilterra. Così l’anno dopo abbiamo iniziato a invitare ospiti stranieri, deejay e ogni tanto qualche live. Portare i suoni di artisti che non erano mai stati in Italia è sempre stato uno dei nostri obiettivi, già prima di Club To Club. Lo abbiamo fatto spesso e quando mi chiedono degli esempi a me vengono in mente Ricardo Villalobos, James Blake, i Disclosure.. Inevitabilmente la serata di Xplosiva è passata in secondo piano negli anni, perché abbiamo concentrato tutti le forze sul festival, estendendo gli eventi anche durante l’anno sotto il nome di Club To Club, appuntamenti in cui ci piace sottolineare quale sia l’identità del festival. Tante piccole tribù a cui quest’anno si è aggiunta l’edizione milanese di Festival Moderno. Ma sono tutte parti dello stesso discorso ed è sempre stato importante per noi portare quegli artisti che ci convincevano di più e che potessero avere un riscontro e un seguito anche qui.

 

 

L’ultima edizione di Club To Club ha scavato, però, un solco importante, vista soprattutto la caratura degli artisti che siete riusciti a portare, confermandovi fra i pochi in Italia a poter attrarre tanti nomi di un certo rilievo internazionale. Eppure non si tratta mai soltanto di un festival composto esclusivamente da grandi nomi.

Instaurare un buon rapporto con gli artisti è fondamentale e, da sempre, cerchiamo di agire in quella direzione. Jamie XX, ad esempio, l’avevamo già chiamato nel 2010 quando ancora da solo aveva fatto pochissimo e, addirittura, aveva suonato solo nella seconda sala del Lingotto. A volte coinvolgere un artista quando ancora non ha raggiunto un livello forte di popolarità ha i suoi vantaggi, perché si crea un rapporto di fiducia forte, che gli permette di sapere in quale contesto può suonare e davanti a che tipo di pubblico. Fa parte del nostro processo e cerchiamo di ripeterlo più volte che possiamo. Ogni anno il programma è un equilibrio fra i grandi nomi che siamo in grado di attrarre e le scommesse che vogliamo fare sugli artisti emergenti che non sono mai stati qui. Se si guarda le line-up di tutte edizioni si vede questo bilanciamento costante, sarebbe sbagliato se facessimo solo una o l’altra cosa, un festival di soli headliners non ci è mai interessato.

Con C2CMLN siete tornati di nuovo a Milano, quanto è importante estendere il vostro nome a livello italiano e internazionale?

Siamo tornati, è vero, ed è un processo che serve a estendere il percorso che abbiamo intrapreso qui a Torino. Esistono già delle avventure estere del festival, ormai da una decina d’anni. Torino, ce lo diciamo tutti, è la città laboratorio dove sperimentare e, forse, solo in una città come questa sarebbe potuto nascere Club To Club. A un certo punto senti la necessità di far uscire dal laboratorio questa tua creatura e Milano ci ha sempre offerto una visibilità diversa, a livello di artisti e riscontro. Siamo arrivati a un punto in cui prima del festival vero e proprio possiamo portare in giro per l’Italia, e non solo, questa nostra idea.

 

 

Hai parlato di ‘idea di festival’, quanto è importante, in tutto questo, avere un percorso da seguire che possa caratterizzare tutto quello che fate?

Si tratta di un aspetto fondamentale su cui ragioniamo tutto l’anno e che deve essere necessariamente in continua evoluzione. Alla fine di ogni edizione ci rimettiamo in discussione e cerchiamo di correggere e migliorare gli aspetti che ci hanno convinto di meno. Non saremmo capaci di fare in un altro modo, è il nostro stile di lavorare, ed è ciò che ci ha permesso di farci riconoscere. Da molti anni ormai anche il pubblico, credo, ha cominciato a riconoscere una linea di direzione artistica e capacità di fare scouting e tutto questo ci ha portato anche a creare un processo per cui un parte del pubblico, per fiducia nelle nostre scelte e nei confronti del festival, decide di acquistare i biglietti a scatola chiusa dopo l’annuncio delle date e dei primi  nomi.

Oltre a tutto questo, Club to Club supporta e sviluppa un progetto italiano importante come quello di Italian New Wave. In questi anni stiamo assistendo a una crisi di alcuni generi musicali storici, che da sempre hanno trainato il movimento, e che ha creato una sorta di scarto fra noi e l’estero. Credi che la musica elettronica possa essere quella componente capace di farci recuperare terreno sotto questo aspetto?

Italian New Wave è un aspetto importantissimo e su cui puntiamo molto. Credo possa essere questa cosa, e credo che la forza degli artisti che ne fanno parte sia di non avere modelli di rifermento immediatamente riconoscibili, di non imitare, cioè, un modello estero o di essere solo una riproposizione personale di quello che già c’è. Questo perché nessun artista di INW si assomiglia e non esiste un unico denominatore stilistico, se non quello di aver preso le distanze dai modelli più stereotipati di musica elettronica. Molti di loro non c’entrano nulla con il mondo della dancefloor e i pochi in cui si può trovare una vicinanza lo sviluppano in maniera differente. INW è nato come progetto sperimentale che abbiamo voluto fondere insieme a quello che nel 2006 avevamo chiamato Club Europa, una serie di serate parallele all’edizione torinese in città straniere, che anno dopo anno si è sviluppato in maniera autonoma. Nel 2010, con l’arrivo al Village londinese, abbiamo voluto che questi due progetti convergessero nella stessa direzione e, in questo modo, alcuni artisti (Ninos du Brasil, Vaghe Stelle, Not Waving..) sono diventati protagonisti dello showcase londinese, facendo assumere a INW una certa visbilità internazionale. Abbiamo sempre cercato di selezionare, per gusti e attitudine, gli artisti che potevano essere inclusi in questo progetto e continuiamo a farlo tuttora. Il nome di INW è nato quasi casualmente quando a Torino James Holden, dopo la sua esibizione, aveva twittato dopo il set di Vaghe Stelle “I’ve heard the Italian New Wave, it’s called Vaghe Stelle”. Questa cosa ci è rimasta impressa perché proveniva da un grande artista e, oltre a essere un attestato di stima, abbiamo compreso che potesse essere l’identità del movimento di musicisti italiani che stavamo cercando di sviluppare.

Un’ultima, e provocatoria, domanda. Dopo tutto questo credi che i festival italiani, di ogni tipo, siano vivi e lottino insieme a noi o stiamo assistendo al loro inesorabile declino?

Credo che i festival italiani vivano e lottino insieme a noi. Alcuni con maggiore lucidità, altri meno. Quelli che ancora non hanno capito come si stia evolvendo il contesto musicale oggi avranno, probabilmente, grandi difficoltà.

 

Tutte le foto sono a cura di Alessia Naccarato

Exit mobile version