Cloud Nothings – Last Building Burning

In una parola? Heaviness.
Termine che tradotto letteralmente nella nostra lingua perde qualche sfumatura di significato, perché immediatamente tendiamo a ricondurre la “pesantezza” a qualcosa di noioso, lento e ostico all’approccio. La parola “pesante” in ambito artistico di primo acchito mi fa pensare a qualcosa come può essere un classico del cinema neorealista; bellissime e inarrivabili pellicole come La Strada o Roma Città Aperta ma (– non me ne vogliano gli amici cinefili) prive della leggerezza di una serata Netflix and Chill sul divano di casa. Ecco la pesantezza di cui sto per trattare è qualcosa di più vicino all’intensità nella nostra lingua. Volendo possono anche essere sinonimi ma sta piacendo questa divagazione sulle sfumature di significato. Non a caso parlo di heaviness: è proprio il termine che Dylan Baldi, frontman, scrittore e chitarrista dei Cloud Nothings, ha utilizzato in un’intervista per identificare quel qualcosa che manca alle altre band sulla scena e che invece caratterizza la sua formazione.

La pesantezza dei Cloud Nothings viene espressa in quest’ ultima fatica dal loro canonico noise rock un po’ più veloce del solito – e a tratti hardcore, quasi a voler celare la piatta depressione che trasuda specialmente dai testi brevi, incisivi e urlati fino ad essere quasi incomprensibili nel microfono, con la violenza di qualcuno che sta precipitando da una ponte. Non a caso si apre con un brano intitolato On An Edge, che tra una schitarrata feroce e l’altra è oggettivamente la presa di coscienza di qualcuno che si sta per buttare.

Questo album, Last Building Burning, è il secondo negli ultimi due anni dopo l’uscita l’anno scorso di Life Without Sound, un disco decisamente più comodo e prevedibile; è il sesto invece in ormai dieci anni di carriera: si sente che qualcosa è cambiato, c’è sicuramente più grinta e azzardo e più voglia di sperimentare. È stato registrato furiosamente in otto giorni nello studio texano Sonic Ranch con la supervisione del produttore Randall Dunn (Sunn O, Wolves In The Throne Room, Boris), uno che ha buone referenze.

Un brano che posso dire di non aver totalmente compreso e apprezzato è il secondo, Leave Him Now, uno strano ibrido di pop punk e college rock triste, in cui il nostro Dylan invita una fanciulla amica a “mollare” il fidanzato/marito/compagno di vita, per una serie di ragioni riassumibili nei versi “He won’t deserve you”, “he’ll leave you broken” e “he doesn’t want you”. Una traccia che (al di là del pop punk che non riesco più a sopportare) non capisco come si concili con quello che dovrebbe essere un lavoro volto all’introspezione più brutale. Ne esce fuori un risultato che — perdonatemi, davvero perdonatemi — mi ricorda (forse anche per l’abuso del termine “doesn’t”) Scotty Doesn’t Know — sì, quel pezzo cantato da Matt Damon rasato in quel filmaccio che era Euro Trip…

La prima metà è decisamente più energica, perfetta per scatenarsi nei momenti in cui ci si sente un po’ giù ma anche un po’ arrabbiati. Anche i testi sono scritti bene (menzione particolare per The Echo Of The World: bella lyrics, bell’arpeggio e bel climax fino alla fine), che fanno scorrere tutto liscio fino a rendersi conto che dell’elefante nella stanza. Letteralmente. La traccia numero sei è Dissolution, della durata di quasi undici minuti in un disco di trenta, un terzo del lavoro, una rarità per un gruppo le cui canzoni durano al massimo 4 minuti, e che include una nota di chitarra tenuta e distorta per quasi due minuti. Un brano lungo, con una bella batteria e questa maledetta tendenza shoegaze, a cui però non si può dire nulla e che di fatto scorre anche abbastanza velocemente.
Seguono So Right So Clean, che è una sorta di ultimo e stanco respiro, e potrebbe anche essere degli Smashing Pumpkins per l’attitudine e il verso “I wish i could believe in your dream”; e la chiusa Another Way Of Life in cui tutta la violenza e la ferocia viene ammazzata da questa canzoncina super catchy che invita a prendersi il proprio tempo, riflettere e capire che tutto sommato ci si rialza sempre e si sopravvive, persino o soprattutto reinventandosi.

Nel complesso direi che si tratta di un lavoro niente male: ci hanno riprovato con un risultato nettamente migliore rispetto allo scorso lavoro che non spicca per nulla. Qui c’è qualche momento in cui sparano in alto e che davvero fomenta nell’ascolto, ma ce ne sono altrettanti debolucci. Un album che si colloca in modo giusto nella carriera di Baldi e compagni, che fa anche ben sperare per dei prossimi eventuali, essendo finalmente usciti dalla loro bolla e azzardando un po’ di più. Un risultato piacevole. Ancora più piacevole suonato live forse, dove l’esperienza, la presenza scenica e la capacità di far scatenare la gente sono più incisive. Il Last Buiding Burning forse sono proprio loro che sono ancora in piedi nella scena, solitari, in fiamme e a pezzi.

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