Le note di un pianoforte aprono le danze su Ol’ ’55, la prima traccia dell’album di esordio di Tom Waits. Closing Time, pubblicato il 6 marzo del 1973, compie i suoi primi cinquant’anni, e per l’occasione verrà ristampato in vinile da ANTI- Records, un doppio LP in uscita il prossimo 2 giugno. A risentirla, la voce registrata un mezzo secolo fa, non è ancora quella curva e roca del Waits maturo; è appena più limpida, ma già calda e biascicata, deve ancora attraversare le notti insonni di cento canzoni. All’alba del 1973 il poco più che ventenne Tom Waits ha da poco firmato un contratto con Asylum Records, è impaziente di tirare fuori il primo album dopo tante esibizioni in giro tra club, si agita come un troubadour che cerca di trovare il suono che metta insieme le sue grandi ispirazioni – qualcosa che sia beat, e jazz, e blues, e suonato al piano come i cantori notturni. La copertina di Closing Time mette subito in chiaro quello che sta cercando il giovane nottambulo californiano: al centro di tutto c’è il pianoforte, lui ci si è accasciato sopra, siamo avvolti dalla luce soffusa di un bar, da qualche parte c’è un bicchiere di whiskey, una bottiglia di birra aperta, un posacenere strabordante di sigarette. Nel disco Tom Waits vuole registrare il suono ruvido dei bar americani, le sue notti affollate di terre desolate.
Closing Time non riscosse subito un grande successo di pubblico. Se nel corso del tempo il disco e la sua copertina si sono fatti strada nella memoria comune lasciando la scalfittura di un graffio sulla pelle, quando l’album uscì erano da poco cominciati gli anni Settanta, e il suono che andava in voga all’epoca non era quello dei notturni spezzati di Tom Waits. Parole come jazz, beat, blues, e persino piano, sembravano invecchiate nei sottoscala dei bar. Anche se il sogno di pace e amore era andato infranto, il mondo non era ancora pronto a buttarsi sul lato oscuro della rauca malinconia da fondo di bicchiere. Il rock sfavillante di David Bowie, la chitarra di Lou Reed, l’epopea chiaroscura e folk-rock di Neil Young, il blue dalle tinte folk di Joni Mitchell, erano i suoni che sfamavano le orecchie dei più eroici ascoltatori di musica. Quando apparve sulla scena, Tom Waits andava in un’altra direzione. Voleva fare qualcosa di diverso, affondare nel cuore di tenebra americano, far rivivere l’urlo scalmanato di Allen Ginsberg con le note del suo pianoforte, diventare un cantastorie dei bassifondi, cercare suoni e motivi perduti, parlare all’uomo battuto e messo all’angolo di cui scriveva Kerouac, riportare alla luce il vibrante jazz da club che precipita nei canti blues.
Con un furore addosso da giovane sbandato, Waits butta allora la testa nel sottoscala, e tira fuori la bellissima miscela di Closing Time. Il tipo di musica che si mette nei locali all’orario di chiusura. Closing Time è un disco bastardo nel suo essere contenitore di suoni e contaminazioni, e altrettanto un disco innovativo per l’originalità della scrittura e della voce del bardo Waits. Ballate spezzate come I Hope That I Don’t Fall in Love With You e Grapefruit Moon, atmosfere fumose e sbiadite da night-club deserto, stralci di poemi d’amore, e canzoni che ancora oggi si lasciano riascoltare nella loro primitiva bellezza. Martha è uno dei vertici del disco, la voce di Waits sferraglia malinconica, la sua scrittura è da cantastorie dei bordi; il giovane cantautore ha 23 anni ma scrive già come un uomo vissuto che parla ubriaco a un fantasma o a una segreteria telefonica. La title-track che chiude il disco è un portentoso e intimo strumentale, che suona come un arrivederci al prossimo album. Tom Waits è consapevole del suo talento, sa che comunque andrà la sorte di Closing Time le sue canzoni arriveranno al domani.
È andata così: a cinquant’anni dall’uscita del disco, siamo ancora qui a parlarne, mentre da qualche parte si sta per ristampare il vinile di un album che oggi suona ancora così bello, perduto e impossibile nel raccontare un mondo che quasi non si vede più.