Il lunedì mattina ha il sapore della noia. L’inizio della settimana raccoglie la delusione del ricominciare, il ciclo continuo della routine che non si è mai fermata, nemmeno durante il weekend appena trascorso. Le porte delle officine meccaniche si riaprono con quelle di tutti gli uffici che si incastrano dentro i palazzi che guardiamo col naso all’insù, mentre aspettiamo che il semaforo dall’altro lato della strada diventi verde. Di lunedì si rimette in moto il trambusto delle città e il nomadismo delle province stanche. I mezzi pubblici scivolano nonostante l’attrito del manto stradale grigio, crepato dall’eccessivo uso e dal tempo che scorre. Auto e tir si affiancano nelle stesse corsie che la domenica precedente restano deserte – ad eccezione per i periodi estivi in cui non manca la classica gita al mare. I social network si riempiono di maledizioni e battute trite e ritrite. Nel frattempo a qualcuno tocca correre da una parte all’altra come una trottola, con lo sguardo rivolto verso il basso e la bocca tenuta nascosta da una sciarpa attorcigliata lungo il collo.
È lunedì mattina quando leggo gli ultimi due capitoli del recente romanzo di Claudia Durastanti. Cleopatra va in prigione (Minimum Fax, 2016) è uscito da qualche settimana – forse da qualche mese, ormai – e se ne parla ovunque. Magazine, blog, bacheche e chat private. La storia di Caterina è sulla bocca di tutti, c’è poco da aggiungere. Ho iniziato la lettura nel pieno del weekend appena trascorso, ma si sa come vanno a finire le cose in certi giorni. Conscio dell’inesistenza della quiete tanto reclamata, ho deciso di concedermi la fine di quello che stavo adorando, nel più totale stato di abbandono alla disillusione di un comune lunedì mattina autunnale. Qualche giorno prima un’amica ha cercato di mettermi al corrente delle sue impressioni, ma alla fine ci siamo promessi di parlarne quando avrei finito di leggere il romanzo.
Quella di Caterina è la storia di una ballerina di danza classica che si innamora di Aurelio, un ragazzo come tanti, e che è pronta a seguirlo ovunque. Dai tempi del videonoleggio a quelli del night club, dal suo arresto in seguito alle accuse di spaccio e induzione alla prostituzione fino ai suoi mesi di reclusione a Rebibbia. Caterina è sempre lì ad aspettarlo, nonostante la sua anca sfracellata. Quando il suo ragazzo e il socio fanno il salto di qualità, pur di mandare avanti il night club inizia ad esibirsi insieme al resto delle ragazze che assiste prima di ogni spettacolo. Si immerge in un modo a lei estraneo, nonostante gli anni di danza classica. Lascia cadere i suoi vestiti davanti ai clienti che popolano i piedi del palco, fino a quando Aurelio riesce a sopportare le conseguenze di questo gioco. Sullo sfondo giace inerme lo stato attuale del mondo del lavoro, la precarietà di cui ci sfamiamo per rendere più appetibile lo sforzo di arrivare alla fine della giornata. Pur di racimolare qualche soldo si deve essere pronti ad impersonare qualsiasi tipo di ruolo. Caterina si improvvisa stilista e truccatrice, compra vestiti e fondotinta talmente pesanti da riuscire a coprire tutti i lividi che possano esistere. Delinea così i loro volti, sceglie le tonalità migliori e traccia i contorni degli occhi secondo lo stile di Dita Von Teese e Cleopatra.
Claudia Durastanti cita la Roma di oggi, i mezzi dell’Atac e le borgate come Tor Tre Teste e Torpignattara. La Roma distante da quella di Sorrentino ma molto vicina a quella di Caligari. Una Roma in cui discendono le anime perse che si ritrovano nei luoghi dove la disperazione ha la meglio. La stessa Caterina comprende le espressioni ormai mutate dei clienti che assalivano il locale. I loro volti si squagliavano sotto il sole della sconfitta e per questo sceglievano di rintanarsi dove tutto sembra fatto su misura in base alla propria esigenza di rimanere estranei da ogni preoccupazione. Al di là dei semplici curiosi e dei futuri sposi, gli uomini che entravano nel loro night club volevano dimenticare chi diavolo erano. Le loro facce diventano la mera rappresentazione della routine ordinaria che attanaglia le loro speranze di riuscire nell’imprenditoria. La ricerca spietata del denaro non fa sconti a nessuno, e lì dove c’era il presentimento di qualcosa di losco, il reato era ormai compiuto. Mario – il socio – svanisce e a Caterina tocca restare a galla; Aurelio va in prigione. Le spogliarelliste sono ormai un ricordo. La realtà, adesso, è composta da un registro dove segnare i nomi dei clienti e da camere che aspettano di essere pulite da cima a fondo.
Caterina non si dispera. Va a Rebibbia ogni giovedì, resta al suo posto nell’albergo che può metterla fuori da un momento all’altro per via dello scarso guadagno e inizia una relazione con un poliziotto, lo stesso che ha arrestato il suo ragazzo giorni prima. Sembra il quadro perfetto per una ragazza che accantona ogni voglia di rimettersi in gioco all’interno della propria vita. Un livello virtuale particolarmente difficile da superare nonostante tutti i presupposti per un menefreghismo siderale siano al proprio posto. Prende addirittura in affitto un appartamento tutto per lei, lasciando la madre con la sua gatta. Il lavoro come receptionist riesce a mandarla avanti, proprio come faceva suo padre prima dell’accusa di adescamento di minore. La sua si direbbe una vita segnata dalla prigione, dalle questure e dai poliziotti. Eppure Caterina non chiede apprensioni, non chiede pietà per nessuno. È la ferma testimone di una realtà che trasloca i suoi sogni oltre il limite e che lascia sul tavolo il conto da pagare. Mette poco o nulla in moto, se non per il fatto di farsi tramite dei dubbi di Aurelio in merito al suo arresto.
Giunto all’ottavo capitolo, il mio sguardo di lettore viene catturato dalla cena quasi improvvisata con una ex ballerina del night e la successiva passeggiata notturna per le vie della città. Caterina si mette al pari della ragazza che cerca a tutti i costi un lavoro o un modo qualsiasi per tirare avanti. Il suo ragazzo è tornato in Albania e lei ha deciso di rimettersi in contatto con i proprietari del night club dove lavorava, cominciando proprio dalla scrivania dell’albergo di Caterina. Le due ragazze si studiano, si pongono domande e cercano di capire quello che è stato all’interno del locale. Qualcuna arrotondava concedendo extra ai clienti, qualcun’altra si teneva su tirando cocaina fino all’alba e assumendo antidolorifici oltre la soglia consentita. In Cleopatra va in prigione, Claudia Durastanti riesce quasi a dar vita ad un quadro sociologico che indaga un determinato aspetto di una classe sociale messa alle strette dalle scarse opportunità che le si sono presentate nell’arco dell’intera esistenza. Come se la passano tutti quelli che battono ogni strada, ogni possibilità, in cerca di un dannatissimo spiraglio che consenta loro la salvezza tanto attesa?
Quando Aurelio esce dal carcere di Rebibbia non è più la stessa persona. Fissa il vuoto, trema per le improvvise crisi di panico e inizia ad intavolare discorsi sulla politica. Caterina lo capisce – chi può più di lei? Tra i due sembra subentrare la rassegnazione per un tempo che ormai non c’è più, un tempo dove tutti gli elementi della loro storia occupavano il proprio posto. Nel frattempo il poliziotto si fa vedere sempre meno. Il loro rapporto si sgretola lentamente nella stessa camera dove fecero sesso per la prima volta. I conti lasciati in sospeso tornano a bussare prepotentemente alla porta delle loro vite. La prigione ha consegnato una nuova scocca al telaio di Aurelio; a Caterina ha lasciato tutto il tempo per misurarsi nelle profondità degli abissi impersonati dalla solitudine.
Eppure, nonostante l’accadere degli eventi, Caterina è una delle ragazze più dure che abitano la letteratura dei nostri giorni. Seppure resti ferma all’angolo della strada, il suo corpo sembra correre contro ogni ostacolo. Scavalca l’immobilità e la rende innocua attraverso un modo di reagire colmo di energia. Non si sente mai spacciata, nemmeno quando le portano via il ragazzo per un reato che non ha affatto commesso. Si preoccupa per lui ma allo stesso tempo decide di non sottrarsi a sé stessa. Frequenta il poliziotto, lo vive sulla propria pelle, e quando ci resta male per la sua uscita di scena raccoglie subito tutti i pezzi del suo cuore, pronta a rimetterli insieme con la colla migliore reperibile sul mercato. In tutto il romanzo non c’è spazio per la fragilità della sua protagonista proprio perché non è una caratteristica che le compete. In lei ci sono la grinta e il coraggio, dettagli che fanno dell’intera narrazione le basi di una zattera pronta a traghettare chiunque voglia nel mare dei tempi che stiamo affrontando. La contemporaneità è messa in 130 pagine senza aver interpellato alcun artificio sdolcinato. Caterina sembra una di quelle protagoniste uscite dai racconti di Richard Yates, molto simile alla Myra di Nessun dolore. Al contrario della fragilità impressa in Maria, protagonista del romanzo Prendila così di Joan Didion, lotta per far sì che le cose facciano il loro corso. Quando tutto sembra andare a rotoli, lei non si lascia scalfire; si arrotola le maniche e continua ad avanzare dritta per la sua strada.
Alla fine il mio lunedì è stato diverso dagli altri per via di tutte le impressioni che si sono susseguite. Si sa, leggere le ultime battute di un romanzo che hai adorato è sempre un po’ triste. Una volta chiuso, ho osservato l’illustrazione in copertina realizzata da Manuele Fior: raffigura una donna seduta sopra una panchina in attesa del suo treno, in quella che può essere tranquillamente una classica stazione italiana di provincia – a me ha fatto pensare a quella che ho frequentato durante gli anni di assiduo pendolarismo per via dell’università. Ecco, lei aspetta il suo treno nonostante i ritardi mai annunciati tempestivamente. Quella panchina è l’equivalente del materasso disteso sul pavimento dove Caterina si addormenta ogni sera, un materasso che conserva i continui pensieri che si rannicchiano in posizione fetale mentre sudano in una notte estiva in un appartamento che si affaccia sulla Tiburtina.