Dopo aver esplorato il legame di Patti Smith con Arthur Rimbaud, stavolta facciamo un giro nel mondo di Emidio Clementi, nella musica dei Massimo Volume, alla caccia delle bellissime energie sotterranee tra musica e parole.
Il mondo di Emidio Clementi è popolato di poeti. Nella produzione dei Massimo Volume l’energia di connessione tra musica e parole è fortissima: più che cantare Mimì decanta le parole, si lascia circondare dai suoi fantasmi ispiratori – lontani idoli come l’epocale dio bruciato Emanuel Carnevali o il confessionale monotono sublime di Cal-Robert Lowell –, Clementi fa vibrare il basso e con le parole rende indietro l’essenza primitiva di questa connessione. Ci sono momenti in cui mentre ascoltiamo le sue canzoni possiamo incappare dentro parole che suonano già sentite, lontane memorie, incisioni grezze e graffi che sono piccoli omaggi agli autori che ama. Come ha raccontato lui stesso in un’intervista si tratta di una tecnica che usa anche Vic Chestnutt, qualcosa capace di far risuonare l’Urlo di Allen Ginsberg dentro un pezzo ruggente come Fausto in una singolare connessione. Parliamo di energie che hanno mosso un sotterraneo dialogo tra musica e parole, che sentiamo sussultare nel cantautorato o nelle vibrazioni di certi reading in forma di canzone. Emidio Clementi possiede una forza pura sacerdotale quando è sul palco, in quel momento la musica diventa una specie di rituale per celebrare una fantastica evocazione di mondi, un’onda energetica che passa tra le sue parole e quelle tramandate dai confratelli di una speciale necropoli allo sbando. Il dialogo è viscerale; lo sentiamo prendere la forma astratta del linguaggio delle chitarre, scolpito nei suoni della voce – voce che nei dischi dei Massimo Volume è uno strumento potentissimo e polifonico.
Nella voce di Mimì Clementi sentiamo risuonare vecchi reading da localetti fumosi, luminosi urli, registrazioni lo-fi di poeti che recitano i loro versi, alla maniera in cui lo faceva Dylan Thomas, camminiamo a fianco di TS Eliot e Jim Carroll a turno tra paesaggi italiani, province remote e città infestate bombardate da parole. La connessione è particolarmente forte con i poeti americani, come se Clementi avesse costruito un lungo ponte che taglia spettrale il Nord Atlantico, lo stesso ponte su cui immaginiamo vagare il funambolico Emanuel Carnevali che una volta arrivato in America cominciò a scrivere le sue parole in inglese americano. In un pezzo ispirato come Il primo dio Clementi ha tirato fuori tutta la ruggine di Carnevali, lo sbando visionario d’America, l’urto e la forza delle parole violenta come uragani. Il primo dio è un omaggio che non c’entra nulla con la citazione: dentro quei suoni e quelle parole si agita la stessa vocazione da poeta di Clementi, la musica come un’infezione dove i Massimo Volume tirano fuori un cocktail corrosivo. Una cosa del genere succede pure in Inverno ’85 dove Clementi omaggia Jim Carroll già da quel titolo che sembra ricalcare i titoletti dei Basketball Diaries, evocando visioni carrolliane dal mondo di diciottenne in provincia. Nei primi album dei Massimo Volume si sente forte l’irrequietudine, una ricerca di assoluto e grazia plasmata sul rumore, sballottolati come siamo tra panorami svedesi, rigurgiti di Bologna e la stanchezza, presi d’assalto dai suoni, invasi da visioni e giovinezze e vuoti, il fuoco e la dannazione degli sballati.
Le parole si muovono, la musica si muove / Solo nel tempo; ma ciò che soltanto vive / Può soltanto morire. Le parole, dopo il discorso, giungono / Al silenzio. Solo per mezzo della forma, della trama, / Posson parole o musica raggiungere / La quiete, come un vaso cinese ancora / Perpetuamente si muove nella sua quiete. (Burnt Norton, TS Eliot)
Quando dopo una pausa decennale i Massimo Volume tornano con Cattive abitudini la comunione spirituale di Mimì Clementi con la poesia è ancora più consumata. Non è solo quel Robert Lowell evocato già dalla prima traccia, lo stesso Lowell che sentiamo gridare dall’inferno “Noi facciamo ciò che siamo” in un pezzo dal side project Sorge; Robert Lowell il puritano perduto e scarnificato dalle sue manie e dalla dipendenza da litio. È l’intera atmosfera di un disco che arriva feroce come una sassata trasponendo e mescolando in musica universi e immaginari. È vero che sentiamo vibrare in Fausto l’Urlo beat assoluto, non solamente per le parole e la voce, persino i suoni sembrano squarci ginsberghiani – e quando due materie diverse si intrecciano sta succedendo un piccolo miracolo. Una magia che arriva perfettamente naturale: la sentiamo avvolgente nel pezzo dedicato a Vic Chesnutt in Aspettando i barbari, un pezzo tagliente scandito dai ritmi della voce – ricordati di Chesnutt quando leggi Stevens, ricordati di Chesnutt quando guardi Guston – una memoria appannata che reinfetta le ore dei giorni – e per quanto siamo qui, siamo dirottati altrove. Altrove in un racconto di John Cheever (Il nuotatore), in una poesia di Danilo Dolci (Dio delle zecche), nel popolatissimo mondo di Mimì Clementi, nella sua lingua speciale, in una voce fatta di chitarre, basso, batteria, trascinati nei notturni americani e dentro chiaroveggenze indiane e vecchie pellicole butterate, da una provincia a un bar metropolitano. Come se stessimo fissando un’opera d’arte assemblata di Robert Rauschenberg, in uno straordinario scambio di fascinazione e perdizione che ha creato un universo molto specifico e riconoscibile. Qualcosa che sentiamo sussurrare a diversi gradi anche nella rilettura dei Quattro Quartetti di Eliot musicati in collaborazione con Corrado Nuccini, quando gli oscuri tempi dei versi di Eliot si spandono in tutta la loro larghezza modulati dal suono.
Tutto questo universo parallelo di ispirazioni, ad attraversarlo, lascia addosso sensazioni dolorose e bellissime, un sapore amaro e mai aspro, un sussulto che scalpita sul terriccio come un animale ferito. La poesia di Mimì Clementi fa questo effetto, è speciale perché ritrova la vocazione primitiva e orale delle parole, e facendole suonare le riporta a casa.