Due volti della letteratura italiana contemporanea (Claudia Durastanti e Giorgio Falco) per offrire una panoramica della scena letteraria nel nostro paese.
Mi sembra onesto cominciare dal dire che non sono esattamente un fan di Claudia Durastanti della primissima ora, anche se non è una cosa gentile, così in apertura. Ho cominciato a interessarmi a lei all’uscita di Cleopatra va in prigione (Minimum Fax, 2016), al mio ritorno in Italia, dopo alcuni anni spesi fuori. Per un periodo abbastanza lungo avevo ignorato la produzione letteraria nazionale quasi del tutto, a parte un paio di eccezioni che hanno una certa risonanza in Inghilterra e Germania, dove mi trovavo: Elena Ferrante in primo luogo, ma anche Walter Siti e Nicola Lagioia.
Tra gli scrittori italiani attivi al momento, Lagioia ha rappresentato a lungo per me lo scrittore della nuova “scena italiana”, a partire da Occidente per principianti (Einaudi, 2004). Nonostante il passaggio a Einaudi, Lagioia ha continuato a rappresentare un certo modello di scrittore che ho legato a Minimum Fax, l’editore romano “figo e giovane” che traduceva gli americani che ho amato di più e di cui tutti parevano essersi dimenticati: postmodernisti della prima ora oggi decaduti come John Barth e Donald Barthelme, e poi Nathanael West, Richard Yates, Walter Tevis, il poeta beat romano-newyorkese Gregory Corso, oltre a chicche ignorate di Raymond Carver e Henry Miller, e alcune belle traduzioni d’autore dei classici di Francis Scott Fitzgerald affidate a Giuseppe Culicchia, Tommaso Pincio e Francesco Pacifico, che ognuno in un diverso periodo, se di una “scena italiana” possiamo e vogliamo parlare, sono stati piuttosto rappresentativi.
Incuriosito un po’ dal titolo, un po’ dalla copertina, un po’ dal fatto che uscisse per Minimum Fax, dopo essere stata inclusa nell’antologia L’età della febbre (2015), un po’ dall’ubicazione dislocata dell’autrice, che decide di scrivere in italiano ma vive a Londra, sono tornato a esplorare la letteratura prodotta in Italia proprio grazie a Durastanti. Rapidamente, Durastanti ha preso il posto dei nomi fatti pocanzi, e pure quelli di suoi coetanei – uno a caso, Fabio Deotto, per il suo recentissimo Un attimo prima (2017) – come rappresentativa di una più ampia categoria di “narrativa italiana contemporanea”.
Dopo aver divorato l’agile Cleopatra va in prigione, ho infatti subito recuperato i più corposi romanzi pubblicati in precedenza per Marsilio: Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra (2010) e A Chloe, per le ragioni sbagliate (2013). Si è trattato di un colpo di fulmine che capita raramente a una persona che legge molta narrativa, ancora meno a chi legge anche molta critica, confermato dalla citazione che apre quest’ultimo romanzo, tratta da The Crack-Up di Fitzgerald: “I was always saving or being saved”. Una frase che descrive accuratamente i personaggi protagonisti della narrativa di Durastanti, sospesi tra tenerezza e violenza, tra la ricerca di affetto e l’incapacità di esprimerla, o esprimerne, al pari di quelli dello stesso Fitzgerald, presenza ricorrente nell’universo letterario di questa autrice che cita Tender is the Night (Tenera è la notte, Einaudi 1949) come il romanzo che avrebbe voluto scrivere.
Se fossi stato un lettore della prima ora, probabilmente sarei rimasto spiazzato dalla scelta di sostituire l’ambientazione americana dei primi romanzi con quella romana. Ma anche Cleopatra va in prigione rientra nel contesto descritto nei primi due libri e contenuto perfettamente nella frase di Fitzgerald, e ci riporta alle storie di amore e di follia da questi narrate. Cambia la location, ma la Brooklyn sudicia e proletaria è sostituita da una Roma altrettanto sudicia e proletaria. Siamo lontani dalle luci dei grattacieli di Manhattan quando seguiamo le passeggiate di Mark e Chloe, quanto siamo lontani dalla scintillante capitale dei film di Sorrentino quando accompagniamo la flaneuse Caterina nei suoi quotidiani pellegrinaggi al carcere di Rebibbia, per incontrare il suo fidanzato. Oltre che in Jonathan Cale/Francis e Dana Fogarty/Zelda, che prendono anche i nomi della coppia letteraria più chiacchierata dei roaring twenties, troviamo relazioni logoranti e autodistruttive quanto quella di Dick Diver e Nicole Warren in ogni storia di Durastanti, ma stemperate da momenti di tenerezza tardoadolescenziale propria della nostra generazione di adulti cresciuti male, se mai realmente cresciuti, che ci porta a ritrovarci in questa galleria di individui fragili e instabili, abituati a vivere l’amore come possibilità di ferirsi più a fondo a vicenda, piuttosto che di trovare una cura.
Questi personaggi borderline si aggirano tra le macerie del sogno americano sopravvissute agli attentati dell’11 settembre e tra i fantasmi di chi ha vissuto il medesimo sogno qui a casa nostra, nutriti dalle prolungate illusioni del boom economico fino a diventare post-verità non più autentiche delle quotidiane fake news: gli sconfitti dell’America e quelli nostrani, passando di generazione in generazione – dai baby boomers che introducono il primo romanzo ai millennials che si congedano nelle pagine dell’ultimo – mantenendo intatta la sensazione di chi si sente procedere senza una direzione certa, in sospeso in un percorso di auto-annichilimento che Durastanti sa descrivere dannatamente bene.
È la capacità di descrivere in modo così accurato questo sentimento così familiare agli italiani delle ultime generazioni che mi fa pensare a Durastanti come più autentica rappresentante di una “scena italiana” in letteratura: il sentimento di chi è sospeso tra due mondi, se non proprio letteralmente – e se non tra più di due mondi, come accade alla stessa Claudia, nata a Brooklyn, cresciuta tra la Basilicata e Roma, e attualmente residente a Londra, ma contraria a ogni possibilità di definirsi attraverso una “doppia cittadinanza” letteraria, come ci diceva un paio di anni fa – certamente in modo figurato, nel balletto protratto tra un corso di laurea e un master, uno stage e un altro stage, un appartamento e un altro appartamento, con la visione di una stabilità lavorativa e abitativa che è sempre oltre la nostra portata e che si riflette in una precarietà affettiva in cui ci rispecchiamo.
Originale, perché unica nel panorama letterario italiano contemporaneo capace di andare oltre le centinaia di storie che sembrano tutte ruotare intorno a famiglie disfunzionali e traumi della buona contemporaneità borghese, eppure rappresentativa, perché magistralmente abile a dare un corpo a questa dislocazione esistenziale da cui non riusciamo a guarire, Durastanti padroneggia una rara capacità di trasfigurare la carta e dare vita a personaggi sfaccettati e umani, quelli che vorremmo incontrare nelle nostre strade affollate da persone che sembrano essere uscite dall’ennesima, pessima, fiction televisiva.
A questo punto non bisogna più guardare a Fitzgerald, ma avere il coraggio di pronunciare il nome che più immediatamente è associato alla rappresentazione di Roma e delle sue borgate: quello di Pier Paolo Pasolini. Non mi trovo d’accordo con chi scrive che i personaggi di Durastanti siano così lontani da quelli di Pasolini, infatti, mi sembra che ne siano piuttosto un’evoluzione: figure ai margini che similmente cercano di trovare una propria strada finendo per perdersi lungo la via. Potremmo, se vogliamo, parlare di una fotografia della gentrificazione della Roma pasoliniana, il quadro di una “periferia rarefatta”, per utilizzare una felice espressione di Durastanti, di una Roma che “abbrutisce solo chi non la capisce”, attraversata alla disperata ricerca di autenticità.
C’è forse molto più Pasolini in Durastanti di quanto lei stessa ammetta, per esempio se pensiamo al dialogo a distanza tra Roma e New York che il poeta friulano aveva intrapreso dopo i suoi viaggi americani, o forse Durastanti ne è più consapevole di quanto voglia lasciarci vedere. Mi riferisco a questa capacità di scavare nella poesia della periferia disastrata e scabra senza romanticizzarla o nasconderne lo squallore – “non c’è bisogno di romanticizzare la provincia, perché la maggior parte delle volte fa schifo, e il compiacimento del loserismo può essere una trappola narrativa”, specifica, nella bella intervista a Olga Campofreda – ma per restituirne la profonda umanità dei personaggi ritratti, che scintilla nascosta a chi riesce a vederne solo la superficie.
Gli illusi di Fitzgerald, quelli di Pasolini e quelli di Durastanti, i belli e dannati, i baby boomers e i millennials, a Roma e a New York vivono e hanno vissuto sotto un unico cielo di carta blu strappato in cinquanta punti e incorniciato da strisce rosse e bianche: tutti vittime allo stesso modo di quell’immaginario occidentale che era stato già descritto da Lagioia in quel libro importante seppure discreto, intitolato Occidente per principianti, tuttora attuale se lo rileggiamo a fianco agli scrittori più nominati oggi internazionalmente, come Mathias Énard e Moshin Hamid, che oggi rivive in romanzi come Cleopatra va in prigione, che ci ricordano che se c’è una “scena italiana” da descrivere, è quella che ci conduce a ricercare quel che resta della nostra umanità, quale che sia il posto in cui si vive o di cui si racconti.