Intervistiamo Claudia Durastanti poco dopo la proclamazione della lista dei concorrenti del Premio Strega, che è probabilmente il più importante premio per la narrativa italiana. Una straordinaria conferma del suo talento di scrittrice, certo, ma noi de L’Indiependente alla narrativa di Claudia abbiamo dato fiducia da tempo, senza sentire la necessità di premi nazionali o internazionali. La straniera rappresenta un cruciale giro di boa, nella carriera di Durastanti, non solo per la candidatura, ma anche perché sarà il primo libro di Claudia ad avere una traduzione negli Stati Uniti, appena annunciata. Insomma, è un gran momento per questa scrittrice poco più che trentenne, nata a New York e residente a Londra, che ha vissuto oltre i confini nazionali quasi metà della propria esistenza, e che ci spinge a riflettere su quanto gli italiani siano presenti nel dibattito nazionale, pur trovandosene fisicamente fuori. L’idea è che magari, proprio da lontano, sia possibile riuscire a dare una rappresentazione realistica di quanto succeda nel nostro paese in un momento così difficile da decifrare.
A metà strada tra Natalia Ginzburg e Joan Didion, in La straniera Claudia Durastanti ci rivela il suo “lessico famigliare”, in cui le parole chiave sono: migrazione, sradicamento, disfunzione, eccesso, ma anche colore, tenerezza, identità, determinazione. La copertina è rossa, come il sangue che scorre nelle vene della sua scrittura e si condensa in meravigliose volute sulla pagina bianca. Non mi azzardo a prendere posizione e dire se è il libro più bello di Claudia, e sinceramente, nemmeno se è il più autobiografico. Ma su questo ultimo punto, tornerà lei stessa più avanti. Certamente è quello che descrive meglio, attraverso il racconto dell’instabilità della propria famiglia, quella di un paese colto in una delle pagine più confuse della propria storia. Infatti, il proposito di Claudia ci appare quello di utilizzare il memoir non solo come diario personale, ma anche come capitolo di una narrazione più estesa, che si fa appunto familiare, ma anche generazionale e transnazionale. Abbiamo deciso di intervistarla perché pensiamo che il libro meriti di essere letto senza introduzioni, e che a parlarne sia la stessa autrice. Quello che non ci aspettavamo, è che Claudia ci fornisse tanto generosamente questo fiume di parole, che ci dimostra che al di fuori della copertina, le è rimasto ancora tanto da dire. Insieme alle fotografie che Claudia ci ha fornito, anche queste pensate come parte de La straniera e poi escluse, le sue risposte a queste otto domande diventano una sorta di out-take del lavoro appena uscito, in cui con una ulteriore serie di confessioni pronunciate a bassa voce, ma con il coraggio di descriversi senza nascondersi e senza usare parole gentili, Claudia riconduce il suo ultimo lavoro all’universo più esteso della sua interiorità esplorata attraverso i precedenti lavori della sua fiction. In ogni caso, si tratta di una chiacchierata a libro appena finito, con le pagine ancora fumanti, come le macerie dei paesini abbandonati a sé stessi dagli italiani che fuggono in qualsiasi altra direzione, che quella indicata dalla propria provenienza. Perciò siete avvisati, spoiler alert, e se non l’avete letto, beh, sentitevi liberi di tornare qui dopo averlo fatto, per ricollegare tutti i fili.
In foto il padre e la madre di Claudia Durastanti
Identità. La mia prima domanda è dedicata alla tua identità scissa e dislocata, ma a sorpresa, non alla componente americana o britannica, che di recente è stata esplorata fin troppo, bensì a quella lucana. Infatti, non c’è solo la storia delle persone che si muovono, ma anche il punto di vista del paese abbandonato, che è piuttosto originale, soprattutto se in relazione alle regioni più maltrattate e ignorate della penisola. Cosa ritieni sia rimasto della tua identità lucana, e come vivi questo momento di protagonismo turistico da cui la Basilicata è interessata? Pensando anche a scrittori come Franco Arminio, che si definisce “paesologo”, quanto il tuo background antropologico ha pesato in questo focus?
Prima della Straniera non avevo mai scritto di Basilicata, e l’ho fatto con una gioia profonda e inattesa; è come se fosse zampillata fuori di colpo. In quelle pagine c’è una certa furia che deriva dalla rimozione. Credo banalmente che tutto il filone dell’estrazione petrolifera nella «Texas d’Italia» abbia dato qualche scossa al mio immaginario, facendomi soffermare sugli strani incroci tra magia e modernità, su come la tecnologia che porta futuro e fantasmi abbia segnato la mia di generazione. In teoria, un disallineamento totale come quello percepito da chi è stato adolescente in Basilicata negli anni Novanta prima dell’arrivo di internet e che poi si è ritrovato a gestire questa nuova dialettica con il mondo esterno per me avrebbe dovuto produrre scritture allucinate e punk, molto nichiliste e da crollo del muro se vogliamo, invece mentre crescevo sentivo ancora fortissimo il peso di una retorica petrosa, di una letteratura umile e postcontadina fatta di aspettative umili e della dolcezza dei vinti, qualcosa che ho cercato di evitare come la peste per tutta la vita. A questo recupero della Basilicata ci sono arrivata anche tramite i libri, era come se volessi sovrascrivere un canone da cui mi sono sentita schiacciata, volevo liberarmi dalla fastidiosa intimità con Carlo Levi, Sud e magia di De Martino, e la teoria del familismo amorale, ormai datata. Così mentre ho iniziato a scrivere ho iniziato a pensare alla Val d’Agri che conoscevo, che stava tra Annientamento di Jeff Vandermeer, It di Stephen King e La leggenda di Sleepy Hollow di Washington Irving. E ho affrontato questa immersione in maniera stralunata, che è un po’ l’atteggiamento con cui mia madre ci vive tuttora, con un senso fortissimo di improbabilità: è tutto un non dovrei essere qui, allora perché ci sono? Che voce viene fuori da questa permanenza riluttante e svagata? Forse lì mi sono resa conto di somigliare profondamente alla regione in cui sono cresciuta grazie alla «rabbia fantastica» che condividiamo, una regione che ho rimosso a lungo proprio perché mi sentivo incapace di trovare dei riferimenti nuovi, che non trasformassero quel paese in un presepe in cui c’erano ruoli prescritti: il pazzo, la figlia della muta, il figlio del dottore, etc. Quando cresci in una comunità così piccola pensi a Edgar Lee Masters ogni giorno, è inevitabile. Una volta arrivata a studiare Antropologia culturale a Roma, mi sono sentita risospinta con violenza in Basilicata, ma era tutto tarato su un Meridione postbellico che non mi riguardava, e così ho preso gli strumenti della disciplina per distruggerla in qualche modo, reinventarla e affrancarmene. Negli ultimi anni mi sono resa conto di che potenza abbia avuto nella mia formazione una solitudine così concentrata, che era la mia, quella di mia madre e anche del paese in cui vivevamo. Una solitudine che per me resta inscalfibile, nonostante quel che succede nel materano: c’è una «tigna», uno stralunamento che resta sempre estraneo alla pubblicità, è una forza molto viva. Se penso a chi è rimasto in Basilicata, o a chi è cresciuto lì e poi se n’è andato come me e con cui ho ancora legami profondi, mi viene in mente una frase di Natalia Ginzburg scritta in Le piccole virtù, quando parla dell’Italia: «È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare l’intelligenza, come un vivido sangue». Non amo la romanticizzazione assoluta del periferico, né la retorica dell’abbandono, ma nelle mie visite continuo a sentire la presenza di questo vivido sangue. Mi hanno sempre detto che da quelle parti la storia arrivava per ultima, ma tante cose che ho imparato sulle migrazioni, come si alimenta il potere grazie allo spreco delle risorse e sul dissesto climatico le ho imparate lì, o me lo faccio raccontare da chi è ancora immerso in quella prospettiva. Questi paesi sembrano i candidati perfetti per i romanzi minori, invece bisognerebbe pensarli come se fossero romanzi massimalisti, immaginarci vite d’avanguardia. La paesologia mi interessa nella misura in cui non è nostalgia, quando è un «andare in visita» che non vuole trarre grandi profezie dal territorio ma è consapevole che passato e futuro lì sono sempre coesistiti.
In foto la madre di Claudia: a Coney Island con i fratelli, e in ritratto
Migrazioni. Dal paese alla fuga dal paese. La prossima domanda è relativa ai migranti, agli expats, agli italiani all’estero, alla fuga di cervelli: di nuovo, trovo che il tuo libro colga un aspetto molto importante dell’Italia contemporanea, di cui si parla poco in patria, se non attraverso commenti superficiali e una serie di numeri insignificanti al TG delle venti, ma si esplora in modo molto più profondo all’estero. Il tuo racconto del coming-of-age riflette la differenza nell’emigrazione delle diverse generazioni della tua famiglia, dagli anni Sessanta e quella attuale, fino ad arrivare a ritroso ai tuoi bisnonni migrati in Argentina, ma si sofferma anche sulle modalità con cui questo si riflette sulla terminologia con cui gli italiani si definiscono quando varcano i confini. In che modi ti definisci quando sei fuori Italia?
Qualche tempo fa ho visto un Twitter un sondaggio sull’appartenenza working class. In poche domande, si chiedeva: si è working class perché si è cresciuti in una famiglia così? O perché il proprio lavoro e salario determina l’inclusione in quella categoria? Fino a che punto ci può identificare in quella classe se ci si è emancipati dalla propria famiglia subalterna? Ammetto di essere andata in confusione, e di aver sentito un vuoto nominale, un’incapacità di definirmi, lo stesso che mi assale quando devo dare una risposta coerente alla domanda «da dove vieni?». Anche il «dove vivi» non mi viene bene, perché di fatto negli ultimi otto anni sono stata in un triangolo tra Italia, Inghilterra e in parte Stati Uniti (una specie di triangolo delle Bermude dei fascismi) e le patrie concrete hanno perso i contorni, il che ovviamente è facilitato dal continuum dei loro disastri politici. Non mi è ancora chiara questa perdita dell’identità, ma non mi è chiara neanche l’acquisizione di qualcosa di diverso. Io credo che ognuno di noi finisce con il vivere in una patria immaginata che è la sovrapposizione di più posti in cui siamo stati, e in cui continuiamo a lasciare ologrammi di noi stessi, e questo vale anche se non ci si è mai spostati dal proprio paese. A un certo punto smettono di essere città e paesi e diventano miti: penso a Maria Wyeth di Play it as it lays di Joan Didion, all’attenzione ossessiva per le sue origini, la costruzione di sé che passa necessariamente attraverso il luogo, il posto che ha lasciato. Da ragazzina Didion ha deciso di essere un’erede della frontiera e ha modellato tutta la sua scrittura in quel solco, e penso pure che c’è tutto un filone di scrittori e scrittrici a cui sono affezionata che provengono da famiglie di diplomatici o militari in perenne spostamento: Joan Didion, Denis Johnson, di recente Valeria Luiselli. È uno squilibrio che sulla pagina si sente; le origini più belle sono quelle inventate.
E lo spostamento è anche tra più spazi: siamo abituati a ragionare in termini di appartenenze nazionali, ma quante identità locali si possono accumulare all’interno di una singola nazione? Il movimento degli studenti fuori sede, quello di chi abbandona la periferia per il centro o viceversa, queste cose si perdono quando all’estero si dice «Vengo dall’Italia», e per me sono sfumature fondamentali. Non a caso da quando sono emigrata ho scoperto di essere meridionale, più che italiana, e tutte quelle differenze di classe, di cultura politica e se vogliamo anche di sensibilità linguistica che ho sentito tra nord e sud in Italia all’interno della comunità che frequento a Londra si sono amplificate a dismisura. Ed è qui che sento una continuità imprevista con la migrazione dei miei nonni in America, che è stata già una migrazione tardiva essendo avvenuta negli anni Sessanta. La recrudescenza della loro italianità e del loro meridione è stata a lungo misteriosa per me, la loro incapacità di barattare il posto da cui venivano per il posto nuovo mi ha frustrata, e invece stavano solo accumulando, creando degli eccessi, proliferando. La gestione dell’appartenenza è una cosa molto brutale, concreta, minima e quotidiana, ognuno individua le proprie strategie e attiva e disattiva il proprio sentirsi qualcosa in base alle circostanze. Il mio problema nasce nel momento in cui crediamo che la libertà di scartare un’identità e crearsene un’altra sia un privilegio del cosmopolitismo istruito e benestante, quando abbiamo tutti diritto a eccessi di identità, e quando mi rendo conto che il disagio nominale, quest’incapacità di definirsi, in realtà nasconde una forma di disprezzo per le migrazioni degli altri. Brexit ha avuto una funzione illuminante in questo senso: chi si definiva expat, straniero, o cervello in fuga nel momento in cui ha intravisto la possibilità concreta di essere rifiutato ed espulso si è scoperto immigrato, creando un raccordo tra il sé e gli altri. Ma questa consapevolezza, invece di generare una riflessione più ampia sul senso dei confini e del movimento delle persone e di come viene disciplinato dagli stati, si è ridotto a una rete di solidarietà europea a mio avviso poco trasversale, anche cinica se vogliamo. Sono stati gli anni del «Peggio per loro, tanti io ho un doppio passaporto». Credo che dica molto sul conflitto sociale che si vive in Inghilterra in questi anni. Finché viviamo l’appartenenza fluida e molteplice come qualcosa di sconnesso dai destini di chi non ha avuto questi percorsi migratori e siamo i primi a stabilire un confine tra chi può dirsi espatriato e chi immigrato, finché troviamo parole inoffensive e carine come Brexodus per parlare di chi lascia l’Inghilterra perché avvilito e continuiamo a perpetuare la retorica di una migrazione che è fatta solo da grandissimi successi o solo da catastrofici naufragi io continuerò a sentirmi a disagio, e a non saper bene cosa rispondere, e a rifiutarmi di dare una risposta univoca.
Italianità. Il tuo racconto mette in evidenza che, seppure muovendoti da una comunità italiana all’altra – Brooklyn, Basilicata, Roma, Londra – il tuo percorso è rimasto fondamentalmente centrato sull’Italia. Come descriveresti il rapporto tra l’Italia e le sue periferie? Ci si sente più o meno italiani, dopo aver abitato all’estero quasi una metà della propria esperienza di vita?
Sto arrivando al punto in cui avrò vissuto metà dei miei anni all’estero e metà in Italia, ma gli anni dello studio e della lettura sono avvenuti lì, e quella è la parte più stabile di me, quella che ha mi ha dato un senso di me stessa più compiuto. Banalmente io credo che siamo la lingua che abbiamo parlato dall’infanzia all’adolescenza e quella che abbiamo studiato a scuola, la lingua dei primi romanzi letti, delle prime fiabe. Finché continuerò a scrivere in italiano, l’italiano rappresenterà il legame primario. Quel che so è che a distanza la lingua si vendica, fa di tutto per non essere ignorata. Da quando vivo a Londra il mio accento si è fatto più romanesco, ricorro spesso al dialetto lucano che non so parlare ma uso nell’ambito domestico in registri comici, mentre la rabbia ormai si esprime solo e soltanto in inglese (è la lingua delle offese per me) e mi è impossibile fare un ragionamento sulla lingua italiana che non sia anche un ragionamento sui dialetti. La mia non-fiction è angloamericana, la mia fiction è italiana. Ma tanto per complicare le cose, la mia prima persona è italiana e la mia terza persona è molto diretta e inglese. L’italiano è quello che mi tradisce, quello che affiora quando non voglio usarlo, e dunque per me l’italianità è quella sostanza che viene fuori senza controllo, quando il sé è molle, distorto e fragile. E anche se il mio sta diventando nel registro parlato un italiano anche sporco, di contrabbando, non riesco ancora a metterlo sulla pagina così: per adesso è molto levigato e fermo, ma mi piacerebbe inserire sempre più elementi non tradotti, soprattutto quando mi ritrovo a scrivere in inglese, per i motivi che Elaine Castillo, l’autrice di America is not the heart spiega qui, o sfruttare diversi registri. Perché alla fine tutta queste riflessione sulle nuove comunità italiane all’estero implica necessariamente un discorso su come cambia la lingua di una fascia consistente di persone, il cui potenziale e poetico è ancora tutto da esplorare: un tentativo molto bello a mio avviso è questo. In fondo, tutto il Festival of Italian Literature in London che aiuto a organizzare nasce anche attorno a questa domanda: che lingua parliamo? Noi che adesso siamo altrove e siamo diventati calchi ambulanti, che contributo sostanziale apportiamo alle lettere italiane?
Colori. Cambiano direzione, mi piacerebbe soffermarmi sul modo in cui i colori acquisiscono una grande importanza nel libro, visto che dici di averli presi da tua madre, insieme a ossessioni e incostanza. Siccome ritengo che i libri si giudichino anche dalle copertine, mi chiedo in che modo questo si rifletta sul rosso che hai scelto (ammesso che sia stata una tua scelta) per questo libro?
Mentre finivo di scrivere La straniera stavo traducendo L’atlante sentimentale dei colori di Kassia St. Clair (Utet) e quell’attività mi ha aiutato a recuperare l’idea del colore come costruzione culturale. I colori che esistono in alcune culture e comunità e non altre, il porpora che per alcuni appartiene alla categoria dei viola e per altri sta nei rossi. Sembra qualcosa di distante, ma in realtà ha profondamente a che fare con il mio approccio alla disabilità e alla «normalità» nel libro, volto a riportare alla luce quanto ci sia di costruito nel modo in cui vediamo un corpo. In territorio selvaggio, Laura Pugno scrive: «Nulla del resto, è in potenza più pericoloso, più reazionario, dell’idea di naturale, di semplice di primitivo. Di inevitabile perché dato con il corpo». Ecco, io sono cresciuta in un mondo in cui la vita dei miei genitori sembrava inevitabile per via del loro corpo, qualcosa che dovevo accettare come dato, ma anche con una nonna che all’oggettività del rosso e del blu rispondeva con una particolarità circostanziata del linguaggio che ha avuto un effetto profondo su di me, e mi ha aiutato a scomporre le cose, a ribaltarle o approfondirle. Quando penso al personaggio di mia nonna, mi viene sempre in mente quello di Padre Paulus in Underworld quando dice a Nick Shay che deve imparare a nominare tutte le parti di una scarpa. Questa precisione del linguaggio parallela alla consapevolezza che si tratta comunque di scelte relative a un solo momento, e in un solo spazio, mi è arrivata anche grazie alla traduzione del libro di St.Clair, e mi ha fatto riavvicinare all’uso del colore per le donne della mia famiglia: mia madre che dipingeva a mano quadri dai colori brillanti e violentissimi e a volte li ricopriva tutti di nero, impedendomi di svelare la parte sottostante. È l’influsso demonico di cui parlo nel libro, la mancanza di paura nello sciupare e distruggere il bello. È un’attività che sento opposta alla mia, penso sempre alla scrittura come a quei disegni che ci facevano fare alle elementari, quando ci chiedevano di ricoprire le figure disegnate con i colori a cera di nero solo per grattare e riportare alla luce la parte sottostante. Per me la scrittura è quel graffio, un salvataggio. E poi to dye and to die hanno di base lo stesso suono, tingere e stingere e morire. È un fraintendimento insito nella storia della mia famiglia, di mia nonna in particolare che ha perso una figlia per il colore. È la dimostrazione che ormai senza l’attività di traduzione e lo stare in mezzo a due lingue io non saprei neanche cosa scrivere.
A decidere che sarebbe stata questa la copertina de La straniera è stata Elisabetta Sgarbi, e le sono grata. Un bravo editore sa vedere anche le cose che l’autore non capisce immediatamente. Io volevo qualcosa di astratto, temevo l’identificazione con una figura femminile, ma sopra ogni cosa temevo questo rosso. Mia madre invece appena la vista ha pensata a Irène Jacob nella locandina di Film rosso di Kieślowski, e ha sentito che era questa. Io ho lavorato tutto il tempo invece pensando al blu di Prussia come colore di questo libro, in termini di temperatura emotiva, un colore da costellazione, e non a caso in quella trilogia c’è anche il Film blu. Forse è una copertina complementare.
Claudia Durastanti con la madre e il fratello Valerio
Autoindulgenza. Memoirs e autofiction di solito implicano un altissimo tasso di autoindulgenza, spesso ci si sente come se l’autore volesse fornire delle giustificazioni sulle proprie scelte di vita. Già l’immersione nel mondo appartato di tua madre, che hai descritto poco prima attraverso i riferimenti letterari americani piuttosto che quelli italiani, mi ha fatto pensare al DeLillo che attraverso i rimorsi di Nick Shay riscopre il Bronx della sua infanzia in Underworld. Il tuo libro, al contrario, mi sembra descriva un processo di affermazione. Perciò mi ha fatto pensare a Didion e Ginzburg, piuttosto che ad altri testi, che inoltre attraverso il racconto dell’esperienza personale, come te cercano anche di fornire spiegazioni di avvenimenti cruciali vissuti. Ecco perché ho menzionato l’antropologia poco prima, o la sociologia. Inoltre, in una tua intervista a Radiotre, mi ha colpito il modo in cui descrivi il tuo atteggiamento nei confronti delle tragedie, come di chi si dirige verso l’apocalisse con il sorriso. Essendo una caratteristica in comune coi protagonisti dei tuoi romanzi, possiamo dire che l’approccio di Durastanti al memoir è assolutamente libero da piagnistei e malinconie? Che tipo di percorso avevi in mente quando hai scritto La straniera?
Ho dedicato al dolore diversi libri, soprattutto all’affrancarsi dal dolore tramite il linguaggio o l’arte. A Chloe, per le ragioni sbagliate in questo senso è il mio vero memoir. Per quello che racconta sul corpo, su una relazione d’amore, su ciò che viene certificato come malattia. In rapporto a quel libro, La straniera è un romanzo infiltrato dal saggio, e dunque ha questa felicità che deriva inevitabilmente dal romanzesco, che è l’uscire fuori da sé, lavorare su archetipi in cui il lettore si identifica, fingere di raccontare storie chiuse che invece sono storie aperte, abitabili da chiunque. Far dimenticare che è una vita specifica, affinché diventi una storia pura. Scrivevo a un amico l’altro giorno per parlargli un po’ di come ci sono arrivata e ho ribadito di aver «scaricato» la mia famiglia nella fiction precedente, come se qui fossero rimaste solo le loro ossa, simili a quelle dei cavalli a Dead Horse Bay. E davanti a queste ossa potevo anche un po’ commuovermi, prima di andare. Questo libro che circola come memoir e come memoria è fatto di tantissime cose che sono andate, non dimenticate ma andate, escluse le parti Denaro e Amore, che sono le più inquiete e fragili e ancora in via di maturazione e scrittura fuori dal libro ed è importante che ci siano, altrimenti sarebbe stato un libro posticcio e quasi postumo, come dice la mia editor Chiara Spaziani.
Non amo i libri in cui il protagonista o la protagonista di un’autofiction dimenticano di essere personaggi, o quantomeno mi aspetto che le loro riflessioni testimoniali o documentali abbiano un vertice altissimo in termini di lingua o di cristallinità filosofica, altrimenti il libro non si regge. Un’amica che fa la curatrice nell’ambito della fotografia, quando ha sentito che forse volevo allegare foto di famiglia al libro, con molto tatto mi ha fatto notare che ci sarebbe voluto un forte filtro e parere esterno, perché a me quelle foto sarebbero sembrate tutte belle e importanti ma l’effetto su pagina non sarebbe stato mai all’altezza delle mie aspettative, i miei genitori su pellicola non erano più i miei genitori, non erano più le persone del libro. Uno scrittore che vuole usare la prima persona e affidarsi al memoir deve essere il primo curatore dei suoi ricordi, deve fare un lavoro di selezione attentissimo, ed è questa attività che per me tiene al riparo la scrittura dal melodramma, dal patetico o dalla tragedia. Una buona attività di curatela di sé (che non è censura, anzi, semplicemente capacità di sapersi leggere) significa dimostrare che neanche i traumi più indicibili hanno una coerenza nel tempo, ma si ridefiniscono in base a nuovi dolori o nuove gioie. Il trauma non è solo rimozione e squarcio, è anche qualcosa che viene lavorato, pacificato, abitato come se fosse un terreno nuovo. Altrimenti rimarremmo fermi per sempre, e io credo che ogni personaggio de La straniera cerchi di fare il contrario, di non stare mai fermo.
Eroi. Leggendo La straniera, scopriamo retroattivamente che Cleopatra e Chloe, oltre ai personaggi “americani” dei tuoi primi libri, hanno numerosi punti di contatto con la tua storia personale, come in realtà avevano sempre pensato, e come tu stessa hai sottolineato. Sono straordinari quanto sono straordinari i personaggi che descrivi come parte della tua esperienza, tutti parte di un unico mondo di persone che si percepiscono, per qualche ragione, fuori fuoco. Nonostante l’eroe del libro sia tua madre, per aver affrontato così tante avventure senza lasciarsi scoraggiare dalla propria disabilità, non trovi che invece appaia altrettanto eroico, o esemplare, riuscire a trovare un ordine nel disordine, e crescendo seguendo la sua scia?
Chiunque scrive ama pensare al proprio lavoro come se fosse inserito in un continuum, in una poetica personale. Con La straniera questo desiderio si è fatto addirittura gioco, qualcosa che volevo mettere alla prova per me stessa innanzitutto. Cosa sarebbe successo ad alcuni episodi della mia vita, già usati nei romanzi precedenti, se questa volta li avessi presentati come veri? Che luce o sfumatura avrebbero assunto, se presentati al lettore con un’intenzione diversa? Vale per il dialogo in cui mia cugina dice che solo quando si smette di essere dipendenti da una sostanza si assume quell’aspetto da tossicodipendenti, è quando l’amore finisce che veniamo rivelati in tutte le nostre croste e miserie. È qualcosa che ho usato in Cleopatra va in prigione, ma lo facevo dire a un uomo. Oppure l’episodio del rapimento con cui si apre A Chloe, per le ragioni sbagliate, solo che invece che stare sulla East Coast, in realtà ero tra le campagne abruzzesi con mio padre. È un gioco di rimandi che mi ha fatto capire quanto piacere io tragga dalla manipolazione della realtà, e che per me la scrittura è non può essere definita in termini di «è una storia vera» o «una storia falsa», non l’ho mai pensato ma mai come in questa fase della mia vita mi rendo conto che non c’è un confine tra persone e personaggi per me, si corrompono sempre a vicenda. Ho iniziato ragionare sul fatto che i personaggi che ho sempre usato e tendo a usare anche nei racconti si somigliano, e sono anche loro dei calchi delle persone che amo o meglio, per me l’innamoramento stesso è una sorta di cattiva traduzione di ideali e sogni che ci portiamo dietro, e amare significa rendere perfettibile la lingua che abbiamo trovato, lavorare sulla resa. Una mia cara amica mi faceva notare che c’è una scena nel primo libro in cui Jane sta ferma per strada al semaforo e il suo compagno la guarda, e nella Straniera c’è mia madre ferma al semaforo, e forse ogni ragazza che ho descritto nel mio lavoro era una proiezione della gioventù di mia madre, un modo di sovrascriverla e impossessarmene. È come se avessi sempre lavorato sul non essere alla sua altezza, ma nessuna madre è all’altezza e lei non lo è alla nostra, ci dev’essere questa distanza, questa costante conversazione con un mito che si è stancato di essere tale o non ne ha più la forza. In termini generazionali mi interessa questo amore tradito che non si trasforma mai in odio, diventa solo un rapporto in cui a volte sono più forti loro e altre volte siamo più forti noi, in un costante alternarsi di sconfitte e vittorie che è il rapporto con una madre. Una madre che vince o perde sempre è una madre finita, non ha una storia.
Chinatown, in foto il padre di Claudia Durastanti
Professioni. Al di là di quella di madre, su cui ci siamo soffermati a lungo, piuttosto, questa Claudia una e trina, anzi, di più: scrittrice, traduttrice, saggista, ma anche organizzatrice di eventi letterari. La mia idea di scrittore è molto legata a quella dell’intellettuale a 360 gradi, che scrive, legge, e fa leggere, che insomma tiene insieme vari pezzi del circuito letterario e non si limita a pubblicare e promuovere quello che scrive comparendo all’improvviso nelle librerie insieme al libro sugli scaffali. Quanto ogni parte influenza l’altra? Nelle edizioni in inglese che hai annunciato, di Cleopatra e della Straniera, ti autotradurrai?
In questi giorni sto partecipando alla selezione di chi tradurrà La straniera in inglese, ma non voglio autotradurmi. Non penso di esserne in grado, anche se la traduzione è la migliore forma di editing di un testo e credo che la versione americana del libro sarà per tanti aspetta diversa, carica anche delle riflessioni che maturo in queste settimane a uscita avvenuta. Parlando con gli editor di Riverhead e Fitzcarraldo è emersa subito la possibilità di questo lavoro di riscrittura e reinvenzione attraverso il passaggio nell’altra lingua, ed è uno degli aspetti che mi gratifica di più; non escludo di esplorare alcune cose che sono rimaste ancora inerti in italiano (tutto il capitolo su Londra, per esempio, in una versione iniziale era ambientato al futuro, in forma di speculative non fiction, ma non era riuscita bene e ho rinunciato. Mi divertiva l’idea di inserire un salto temporale in avanti in un libro che convenzionalmente parla di una vita già vissuta). Oltre a scrivere parti direttamente in inglese, tutto il longform su Sanremo e la traduzione nel libro l’ho scritto prima in inglese e poi l’ho tradotto in italiano. Ci sono bravissime scrittrici – mi viene in mente Rachel Cusk – e scrittori che lavorano alla propria opera in silenzio e non sentono l’esigenza di farsi promotori di libri, traduzioni o essere sempre dichiarativi rispetto al presente; a volte li invidio ma non credo ci sia un modo giusto o necessario di stare in letteratura. So che l’interventismo perenne non fa per me tanto quanto non lo fa l’eremitaggio, cerco di trovare un equilibrio e più passa il tempo più sento di scivolare naturalmente nella posizione di chi ha piacere nel divulgare il lavoro degli altri anche per una banale questione di rimessa in circolo del sangue. In passato lasciare alcune riviste per cui scrivevo è stato faticoso, ma c’era la gioia di aver portato dentro firme da cui avrei potuto imparare, che facevano il lavoro necessario di scoperta e di ricerca che a me non veniva più così spontaneo. Quindi a volte la promozione e la mediazione culturale che faccio nascono da un profondo egoismo, dal bisogno di trovare puntelli, di trovare dei riferimenti per i libri che verranno.
Mi sembra un discorso assolutamente sensato. In effetti, è semplicistico pensare che una scrittrice voglia auto-tradursi, semplicemente perché è in grado di farlo. Una conversazione portata avanti attraverso la traduzione in effetti rende il libro perfino più interessante – leggerò certamente anche la traduzione in inglese! Ma vorrei concludere con una domanda finale che a leggerla così sembra pure questa uno po’ superficiale, ma vorrebbe esserlo meno. Quando sono uscite le nominations per lo Strega – complimenti, a proposito – hai pensato che questo possa essere il tuo libro “giusto”? E al di là dello Strega, ci sono motivi di altra natura per cui senti che possa esserlo?
Per via del mio lavoro che è trasversale – a volte scrivo libri, li traduco, scrivo dei libri degli altri e organizzo un festival letterario a Londra insieme a una squadra di persone da cui ho imparato molto in questi anni– non riesco a vivere quanto succede alla Straniera come se fosse avulso dal contesto, e per contesto intendo anche il modo in cui i libri vengono distribuiti e immessi sul mercato.
Tutto quel che faccio è la traduzione di una conversazione, e ammesso che questo libro sia «giusto» lo è anche per una serie di circostanze che dipendono solo in parte da me. Mi viene spontaneo pensare al lavoro degli altri: all’editore che ha difeso le ragioni profonde di questo libro, difendendolo anche da me e dalla mia azione distruttiva se vogliamo – volevo riordinarlo o addomesticarlo e frenare quella seconda parte su di me adulta per esempio, – e mi ha aiutato a sovvertire le aspettative – si può scrivere un’autobiografia a poco più di trent’anni? Durante una delle prime riunioni Elisabetta Sgarbi mi ha detto che la vita particolare del libro era legata anche a questa posizione nel tempo, che sarebbe stata anti-monumentale e anti-nostalgica per definizione – e a gestire questo momento di passaggio. Non concepisco la scrittura come un percorso lineare e ascensionale mirato alla maturità e consacrazione, ogni libro è documento di un certo tempo, e in una vita fatta di scrittura ci sono stelle più luminose e altre meno. Credo che gli scrittori e le scrittrici di libri che reputo belli e a cui mi affeziono siano sempre consapevoli e onesti sul proprio lavoro, perché sono i giudici più severi di loro stessi, e sanno se questa luce c’è oppure no. Ma a prescindere da questo, qualcuno deve crearti contrasto e oscurità attorno. È il motivo per cui, dopo l’uscita, a scrittura finita, si può parlare solo di risultato condiviso: di una luce tua, e di un contrasto che ti offre il mondo. La Straniera è il risultato di un processo durato anni a cui hanno partecipato molte persone, da Giorgia Tolfo che lo ha letto per prima e mi ha detto di lavorare per isotopie, a Fabio Detto che una notte mi ha mandato un articolo su Arrival e l’ipotesi di Sapir-Whorf e non ci ho dormito e ho deciso che avrei scritto un libro sulla lingua aliena dei miei genitori, al mio compagno che mi ha suggerito di strutturarlo per capitoli con titoli che creassero un ulteriore livello di lettura, alla mia famiglia che non mettendosi in mezzo mi ha lasciato una grandissima libertà di fuoriuscire dagli argini, e quindi anche il loro silenzio è stata una forza incisiva, fino appunto all’editor che mi ha aiutata a non spaventarmi. Poi c’è stato il lavoro che ha fatto sì il libro venisse letto e acquistato all’estero, chi ha fatto sì che circolasse tra i giornali e per passaparola. Queste sono le forze che fanno i libri. Io di mio precipito nel panico quando sento che c’è una creazione di valore slegata dal riconoscimento di un lavoro dietro, e di un lavoro che non è solitario ma collaborativo. È sempre insidioso iniziare a ragionare su: cosa crea valore? Chi giudica il bello? Che logiche ci sono nelle selezioni, come si crea un equilibrio? È un processo estenuante, ma proverei imbarazzo a stare dove sono senza farmi domande su come accadono le cose. Quindi la mia gratificazione e la mia serenità nel concorrere a un premio importante come lo Strega deriva dalla consapevolezza che una candidatura e la selezione è la manifestazione di una serie di forze, di cui la più importante, e quella che dovrebbe surclassare tutte, è quella del testo. Ci sono libri belli in dozzina, alcuni per me sono state vere sorprese, e ce n’erano anche tanti tra i cinquantasette. Cerco di vivere questa esperienza innanzitutto da lettrice.
Quello editoriale è un mercato in cui tanto dipende dall’allineamento delle circostanze e dalla volubilità degli interlocutori che mediano tra scrittura e industria editoriale, e questo è il suo lato spaventoso, ma detesto questa abitudine oscena del considerare i lettori come una massa compatta di persone incapaci di decidere del proprio bene e vittime di una seduzione pubblicitaria costante, come se fossero tutti passivi e asserviti. Appunto perché la lettura è una delle attività più libere che abbiamo a disposizione e che risponde al piacere, spesso segreta e non dichiarata, fatte di passioni inconfessabili, pretendere di governare questo mondo imponendo i canoni del «giusto» in quello che resta uno dei pochi ambiti di scelta in un contesto che sicuramente tende al monopolio ed è controllatissimo e fatto da grandi filtri, ma anche di grandi chissenefrega rispetto ai filtri, mi pare assurdo.
Arrivata a questo punto, dato che la Straniera riflette anche sulla classe e l’emancipazione dal destino prescritto, mi faccio molte domande sulla funzione della fortuna e mi rendo conto di quanto sia devastante la retorica sul talento che prima o poi verrà sempre alla luce. C’è tantissimo talento che resta sommerso, invece. Per me è osceno dire che tanto del mio percorso dipende dalla fortuna e dalla generosità di chi ho incontrato nei miei anni formativi, perché questo elemento mi costringe a venire a patti con la realtà che non basta la scuola, lo studio, se non c’è un raccordo fuori che aiuta chi proviene da certi contesti sociali tenuti al margine rispetto a un presupposto centro, ed è una consapevolezza che mi agita. Ecco, se per me c’è una cosa giusta è la forma con cui ho deciso di raccontare questa storia, che non poteva non essere intersezionale e vivere anche di una mia profonda stanchezza per la retorica sulla disabilità, la migrazione e la classe sociale portata avanti del dibattito pubblico. Tendo a pensare che questa intersezionalità sia giusta per il momento storico, questo sì. Sull’uso dell’autobiografia, molto presente anche nella dozzina Strega, sono più serafica invece: siamo inondati da prime persone nel contesto mediatico e social quotidiano, il fatto che tutto questa massa si riversi in letteratura è inevitabile, ma il tempo farà una cernita, il tempo banalmente dirà cosa resta.
Copertina La Straniera
Confidavo nel fatto che la risposta di Claudia avrebbe fatto apparire di certo meno sciocca la domanda di partenza, ma devo dire che sono stupito che abbia potuto aprire tali discorsi. Su questa nota sull’intersezionalità, una disciplina davvero poco diffusa in Italia, che ci ribadisce la maggiore consapevolezza di chi vive all’incrocio di più mondi, salutiamo Claudia. C’è tempo giusto per un ultimo commento a volo, che riprende una vecchia citazione da Fitzgerald molto amata dalla scrittrice – dopo la pubblicazione di La Straniera ti senti più di aver salvato, o di essere stata salvata? – a cui lei risponde, immaginiamo sorridendo, “salvata salvando”. Che sia o meno il libro giusto, noi siamo più che felici che La straniera ci confermi di essere un gran libro, un libro necessario, un libro che ci pone delle domande importanti, e che provi a fornire anche delle risposte adeguate.