Il CPJ, Committee to Protect Journalist, è un’associazione no-profit statunitense fondata nel 1982 per salvaguardare il lavoro sicuro dei giornalisti di tutto il mondo la cui attività è minacciata ogni giorno da violenze e recriminazioni. Dal 1992 il CPJ, la cui compagine è formata anche da accademici e avvocati, ha iniziato a raccogliere dati sui rischi concreti nei quali incorrono i professionisti dell’informazione, dalle incarcerazioni ai ferimenti, arrivando in non rari casi alla morte. Dal 7 ottobre 2023 al 28 giugno 2024, il comitato ha riportato che almeno 108 giornalisti sono stati uccisi nei territori di Gaza, rendendolo il periodo più letale per la professione da trentadue anni a questa parte.
Il mestiere del giornalista di guerra è una professione rischiosa ma necessaria e protetta dal Diritto Internazionale Umanitario. Con il mutare dei mezzi di comunicazione di massa è mutato allo stesso tempo anche il modo di veicolare le informazioni e nella società della rete odierna è ancora più pervasivo il traffico di notizie sull’attualità soprattutto attraverso l’audiovisivo. In un mondo di conflitti in cui un’immagine ha la potenza di guidare la narrazione della storia, cos’è ormai il giornalismo e che ruolo ha il giornalista?
Civil War di Alex Garland, uscito nelle sale italiane lo scorso aprile, sembra affrontare alcune di queste questioni estremamente attuali legate proprio allo statuto e alla missione ormai complessa dell’informazione. Ambientato in un’epoca non ben definita, un futuro prossimo ucronico post-Capitol Hill dove una guerra civile impazza per gli USA, il lungometraggio segue un’improbabile cricca di fotogiornalisti composta da Joel (Wagner Moura), Lee (Kirsten Dunst), l’anziano collega Sammy (Stephen McKinley Henderson) e la novellina Jessie (Cailee Spaeny) uniti dallo stesso obiettivo di rischiare tutto per “l’ultima storia rimasta”, cioè introdursi a Washington DC per intervistare il presidente prima della sua ormai inevitabile resa.
Da qui il film si dipana come un misto tra road movie distopico-apocalittico e zombie movie, con tinte thriller e risvolti drammatici e d’azione, nell’esplorazione terrificante di un’America fascistizzata in rovine dove la democrazia sembra aver del tutto fallito.
La filmografia di Alex Garland si innesta intorno a temi molto ricorrenti, come la relazione tra uomo e natura, tra artificiale e naturale e gli effetti conflittuali e a volte mostruosi di queste interazioni, come accade nell’esordio alla regia Ex Machina o in Annientamento. Per analizzare Civil War è più interessante rileggere piuttosto il primo progetto da sceneggiatore di Garland, 28 giorni dopo, il lungometraggio diretto da Danny Boyle nel 2002 con protagonista Cillian Murphy. Il film, un horror post apocalittico, narra infatti di un virus letale proveniente da un non riuscito esperimento umano sulle scimmie che si diffonde per tutto il Regno Unito, trasformando in zombie gli infetti. Ben presto, dunque, Londra e i suoi dintorni vengono dominati dal caos, il quale non deriva tanto effettivamente dalla mostruosità degli esseri assetati di carne umana, quanto più dalle conseguenze civili e politiche dell’epidemia mortale. Sono infatti le milizie dell’esercito in piccole e gerarchiche organizzazioni a far più paura, più che altro nella loro missione di ripopolazione del territorio attraverso lo stupro di guerra e la prevaricazione nei confronti di chi non segue quella missione ideologica folle un po’ nella lezione di William Golding.
Dunque, come tipico di molti film post apocalittici, in 28 giorni dopo è la brutalità umana a creare le mostruosità più terrificanti, un punto in comune molto importante con Civil War il quale, analizzando gli effetti di una guerra civile nell’America di oggi, mostra i piccoli fascismi e tutte quelle architetture gerarchiche violente che il caos produce. Nonostante il film non faccia espliciti riferimenti alla realtà storica i checkpoints, le barriere e i piccoli villaggi dei territori occupati ricordano a livello morfologico tanti di quegli stabilimenti militari statunitensi in Iraq e nel Medioriente in generale, contribuendo ad un’iconografia della guerra tutta americana.
La regia e le immagini del lungometraggio funzionano in un organico molto curato esteticamente, dando una compattezza stilistica a una narrazione quasi episodica. L’immaginario di Civil War è inoltre coerente col percorso autoriale di Garland, il quale prosegue la sua esplorazione delle dinamiche umane e sociali legate allo spazio e all’architettura dei territori naturali.
È inevitabile, inoltre, al di là dell’associazione con lo zombie movie, il riferimento al linguaggio dei videogiochi con la sua esplorazione fluida dello spazio e la divisione della narrazione in piccole missioni e capitoli. In particolare, Civil War sembra riprendere molto da The Last of Us, il videogioco di Neil Druckmann e Bruce Straley adattato per il piccolo schermo lo scorso anno. Le analogie più evidenti sono indubbiamente quelle tematiche, un’epidemia infetta e trasforma in creature mostruose la popolazione, ma ancora una volta il nemico più grande sembrano essere gli stessi sopravvissuti e le gerarchie di riorganizzazione in uno stato desolato e gettato nel caos dove regna l’assenza di regole. L’organizzazione militarizzata, i personaggi, anche proprio a livello di nomi -il personaggio di Wagner Moura si chiama Joel come il protagonista del gioco- e di relazioni, in quanto la giovane Jessie può ricordare vagamente la Ellie di The Last of Us. In quest’analogia ritorna però ancora il concetto della verosimiglianza con la realtà, in quanto è noto che lo stesso videogioco sia ispirato in larga parte al conflitto israelo-palestinese, come dichiarato esplicitamente da Druckmann e come esemplifica Emanuel Maiberg in questo articolo molto interessante.
Il limite più grosso di Civil War sta però proprio in una delle sue caratteristiche distintive, cioè la (voluta) carenza di narrazione del contesto politico. Il film inizia infatti praticamente in medias res, senza una spiegazione esplicita e chiara delle dinamiche storiche che hanno portato alla guerra civile. Lo spettatore si trova infatti a unire i puntini per delineare la figura di un paese spaccato in due, tra forze presidenziali e antipresidenziali, tra governo ufficiale e governo secessionista illegale che culmina in violente rappresaglie da ambo le fazioni. Garland gioca con l’assunto di base del mezzo cinematografico cioè l’identificazione spettatoriale, portandoci a empatizzare con questo gruppo sgangherato di giornalisti senza conoscerne pienamente il posizionamento. Il film pare apparentemente trarre forza da questo aspetto, con l’obiettivo di fare un ragionamento tanto assoluto quanto banale sulla politica, la storia e il giornalismo: non importano le destre, le sinistre, i repubblicani o i democratici, la guerra è tremenda sempre e i giornalisti stanno perdendo il senso dell’informazione e dell’umanità.
È cieco però pretendere che lo spettatore accetti quest’approssimazione, come è superficiale pensare al giornalismo come una pratica neutra. Il diritto internazionale vuole che i reporter di guerra siano apparati ai civili quando la loro funzione rimane civile – ossia che non fungano da spie o che non diano delle informazioni evidentemente partigiane rispetto alla realtà – ma chi stabilisce qual è l’occhio neutro? Esiste l’interpretazione oggettiva della storia o dell’evento politico?
Anche la riflessione psicologica sul lavoro del giornalista appare quantomeno superficiale, da un lato infatti la veterana Lee, fortemente traumatizzata dalle esperienze passate della guerra, insicura sulla missione del proprio mestiere ma che mantiene una propria etica, dall’altro il futuro, la giovane Jessie, altrettanto dubbiosa e spaventata ma in grado di sollevare domande importanti la cui risposta durante la durata del film sembra essere più cinica di quanto si possa inizialmente ipotizzare. È proprio il confronto tra le due, a film terminato, a rappresentare lo scarto tra vecchio e nuovo giornalismo evidentemente senza scrupoli.
Il potere della rappresentazione audiovisiva della deumanizzazione della guerra, tra l’altro, è il centro di molte opere cinematografiche ben più potenti di Civil War, e ne ha fatto recentemente buon uso Paul Schrader nel suo The Card Counter, rifacendosi alle fotografie dei soldati con i prigionieri torturati a Guantanamo e Abu Ghraib.
L’ispirazione allo zombie movie, poi, è purtroppo meramente iconografica e il lungometraggio non riesce a sfruttarne tutte le potenzialità. Non è infatti una novità che spesso l’horror funga da metafora politica di alcune dinamiche storiche, basti pensare a Zombi 2 di Lucio Fulci, dove la questione dello zombie nel suo territorio originario di provenienza, i Caraibi, era in realtà una grossa riflessione sulle drammatiche conseguenze dell’imperialismo e del colonialismo americano.
Come nel suo precedente poco riuscito Men, Alex Garland propone in Civil War molte idee potenzialmente interessanti ma sviluppate in modo approssimativo e superficiale. Se infatti nel film del 2022 egli indagava le dinamiche di genere in un horror sulla paura della differenza freudiana, lo faceva fermandosi su un superficiale strato pseudo psicoanalitico, senza un discorso di smantellamento strutturale del patriarcato e dell’oppressione dell’uomo sulla donna. Allo stesso tempo risulta impossibile e fallace ideare un discorso sulla guerra, sullo sguardo e sul potere dell’immagine senza analizzare l’architettura politica capitalistica dello Stato e in particolare dell’America.
Criticare il giornalismo in quanto tale come una disciplina essenzialmente egoistica, dove le fotografie sono trofei e rappresentazioni della traccia del singolo sulla storia, è deresponsabilizzante e parziale rispetto alla critica della stessa società che ha prodotto una tale decadenza dell’informazione. Considerando che ad oggi, con una guerra genocidaria in corso, il giornalismo indipendente è l’unico schermo che ci permette di dare uno sguardo non filtrato su Gaza, appare davvero incompleto il discorso di Garland, in quanto non si può criticare il mondo senza criticare la struttura sociale che lo sorregge.
Civil War, dunque, è un lungometraggio che propone degli spunti che non vanno mai in porto, soffermandosi su questioni interessanti ma affrontate con estremo idealismo e avulse da una critica della realtà politica e sociale fattuale, risultando un film a dir poco incompleto.