In un ordinario sabato sera a Torino capita spesso di trovarsi a scegliere tra una serie di opzioni musicali piuttosto valide. Accade certo meno spesso che ci si trovi davanti a un conflitto generazionale vero e proprio, che si presta a una certa riflessione su cosa può essere considerato indie e cosa invece non lo è più. Dato che la redazione torinese si è allargata al punto da poter coprire più eventi presenti in città, mentre sabato scorso una sua parte si dirigeva all’Astoria per vedere (e intervistare) Hån e L I M, secondo una adeguata ripartizione generazionale ho approfittato per smarcarmi e andare a (ri)vedere, quasi in incognito, i Marlene Kuntz che hanno suonato alle OGR, acronimo che sta per Officine Grandi Riparazioni.
Insomma, da una parte della città abbiamo avuto l’indie che fu, rappresentato da uno dei primi gruppi a introdurre propriamente il concetto di musica indipendente nel nostro paese, ma che ormai si è istituzionalizzato quale una delle realtà più solide di un certo mainstream italiano (di cui, a fase alterne, possiamo perfino non vergognarci), e che infatti suona su uno dei palchi più importanti della Torino dei grandi eventi, quello che ha ospitato di recente il C2C e i Kraftwerk nella loro lunghissima performance multipla. Dall’altra parte, due ragazze piuttosto giovani si sono divise il palco dell’indie che sarà, essendo entrambe ancora piuttosto di nicchia e in procinto di lanciare il loro primo album, e quindi al di là di realtà più consolidate come quella dei Be Forest o degli Spartiti, che per esempio si sono esibiti di recente a sPAZIO211, nel quartiere di Barriera.
Ma le opposizioni esibite sui due palchi si possono moltiplicare in varie direzioni: il bellissimo spazio della Torino che rinasce dalle ceneri del suo passato industriale, in un quartiere che si ridisegna rapidamente intorno alla nuovissima stazione di Porta Susa, contro il locale di più tendenza di una delle sue zone più movimentate e giovanili, San Salvario, simmetricamente posto più vicino alla vecchia stazione di Porta Nuova; il noise-rock chitarroso di un gruppo tutto maschile, di fronte a due giovani donne che sul palco non esibiscono nessuno strumento acustico; oltre a quella più scontata che ci spinge a capire cosa la “generazione X” che sopravvive ha ancora da dire ai “millennials” che, giustamente, rivendicano il loro momento di sostituirla.
Infatti, come a volte si dimentica piuttosto facilmente, l’aspetto più palese del confronto tra le due realtà musicali è che se mettiamo da parte i borbottii e gli sbadigli del tipico ascoltatore dei Marlene Kuntz di fronte alla performance di una Hån (il sottoscritto, per mettere a tacere ogni polemica, appartiene a quella fazione che riesce a goderseli entrambi senza troppi patemi), quello che dovremmo notare è che L I M e Hån hanno più o meno l’età dei Marlene Kuntz ai tempi del loro debutto, quando portavano in giro Catartica nei loro primi live. La serata allora, piuttosto che uno scontro tra vecchie glorie e giovani, acquista i colori di un rito di passaggio di consegne tra chi ormai si è fatto, dopo numerosi anni, un nome e un giro, e le L I M e le Hån che un giorno a prenderne il posto, presentandosi magari sul palco di Sanremo, o sulla poltrona di X-Factor, accusate dai puristi di essersi vendute, e snobbate per andare piuttosto a seguire la serata di gente nuova che si esibisce in qualche locale che al momento non riusciamo neppure a immaginare. In fondo è questo che ci restituisce un’immagine di un’indie italiano sano, che si rinnova mostrando una sua certa vitalità e continuità nella sua disomogeneità, piuttosto che nel succedersi di una sequela di miseri cantautori che scimmiottano tutti la stessa voce e gli stessi testi, così come all’epoca capitava quando si andavano ad ascoltare i Marlene Kuntz e poi gli Afterhours, gli Scisma, i Bluvertigo, i La Crus, e via.
Avrete capito, che questo pezzo non si propone assolutamente di alimentare la nostalgia per un’epoca d’oro che non c’è più, né per un indie che, giustamente, non è come l’indie di un tempo. Ma allora, perché andare a vedere i Marlene Kuntz per la ventesima volta, e alternare l’attesa annoiata di fronte a una serie di canzoni a cui non ci si sente di appartenere ai momenti in cui i nostri beniamini suonano i pezzi che abbiamo amato, piuttosto che lasciarsi attraversare la freschezza di musica nuova? Se non perché alla rottura con la mia ex storica di quegli anni continuo a collegare l’assolo straziante di Nuotando nell’aria e il mio spirito masochista non ne ha avuto abbastanza, o perché mi risuonano nelle orecchie gli arrangiamenti per la cover di Cenere che eseguivo con la mia band degli anni dell’università, e neppure perché, anche grazie ai tour più recenti in cui hanno suonato per intero i primi due dischi della loro produzione, i quattro di Cuneo sembrano aver fatto un salto indietro alle loro prime esecuzioni, o almeno, alle prime a cui mi è capitato di assistere, più o meno diciotto anni fa?
Ricordo il mio primo concerto loro, a Roma, al Palacisalfa, nel 1999, introdotto, proprio come alle OGR, da L’odio migliore, dopo una breve suite strumentale. Era il tour di Ho ucciso paranoia. Certo al posto del molle Luca Lagash c’era il più tonico Daniele Ambrosoli, detto Dan Solo, nomignolo che gli rivelerà piuttosto fatale, visto che lascerà la band subito dopo l’uscita di Senza peso, nel 2003, per sparire qualche anno dopo dalla scena indie e non indie in modo piuttosto definitivo. Ma Cristiano Godano, Riccardo Tesio e Luca Bergia, tutti e tre ormai al di là della soglia dei 50 anni, sono splendidi e devastanti come non mai, conservando anche posture e movimenti riconoscibili ai fans di vecchia data e insistendo a presentare nella scaletta più o meno tutti i pezzi attesi dai fans, distribuiti soprattutto tra la prima parte del concerto, in cui la massima intensità è stata certamente toccata dalla classica Nuotando nell’aria, e nel bis, dove a una Ape regina forse quella si un po’ fiacca, è succeduta, come pezzo di chiusura, una trionfale Sonica.
Forse, andiamo a vedere i Marlene Kuntz perché si ha la sensazione siano diventati abbastanza mainstream da garantire una performance di alto livello, in quanto professionisti rodati, ma non abbastanza imbalsamati da annoiare come quando si va a vedere un gruppo che è rimasto bloccato al periodo della nostra adolescenza, quale che sia la generazione di appartenenza di questa adolescenza. Considerato che se i dischi nuovi non ci piacciono, parimenti, ai fans più giovani non piacciono quelli più vecchi, per quanto ci scandalizzi che non riconoscano Festa mesta dalle prime note, né sappiano cosa sta per succedere quando Godano infila una bacchetta tra le corde della sua Fender. Più semplicemente, andiamo a vederli perché i quattro rocker di Cuneo appaiono straordinariamente in forma quando suonano dal vivo.
Vedere i Marlene Kuntz alle OGR mette in rilievo il loro legame con la città di Torino, e infatti mi ha subito riportato al concerto che mi ha introdotto a Milano l’anno scorso, tenuto dagli Afterhours al Carroponte. I Marlene Kuntz sono piemontesi quanto gli Afterhours sono milanesi, e l’esibizione nelle due aree post-industriali ha riaperto nella mia mente, riproducendo lo storico conflitto tra Torino e Milano, le due città operaie della penisola, anche quello che ha caratterizzato una generazione di adolescenti e post-adolescenti che si contendevano il titolo del gruppo più esclusivo. Il risultato è stato molto diverso, e non solo perché nel duello tra i due divi considero ancora, con i suoi eccessi, Godano un personaggio che ha conservato qualcosa di genuino ed è invecchiato meglio di Agnelli. O almeno, mi viene da credere – a torto o a ragione – che Godano non ci sarebbe mai andato a fare il giurato di X-Factor, e spero di non aver modo di rimangiarmi quest’ultima affermazione. In definitiva, i Marlene Kuntz si vanno a sentire perché suonano bene, e regalano emozioni, quello che dovrebbe fare la musica, e pazienza se non sono più abbastanza di nicchia da suonare indie, e da essere amati dal popolo della musica “alternativa”.
In alcuni casi, mi sento di dire che valga la pena rinunciare a qualche quarto di “indiependenza”, se porta a suonare in una location così evocativa, e forse tra vent’anni lo faranno anche L I M e Hån, e anzi, è un’occasione per augurarglielo di cuore. Aver visto suonare nei miei più giovani e vulnerabili anni napoletani sia Marlene Kuntz sia Afterhours sullo stesso palco della ex-area Italsider di Coroglio in progressivo smantellamento, quella stessa area industriale in cui David Bowie ha sussurrato al pubblico che non aveva mai suonato in uno scenario così meraviglioso, con di fronte le gru dismesse e il mare, ha moltiplicato le vibrazioni emotive prodotte dai concerti di due realtà allora minuscole, sia quella del rocker più popolare del mondo intero. E, devo dire, fa un certo effetto riascoltarli in un altro di quei posti che oggi collegano attraverso la musica l’eredità di quella strada che attraverso pontili e carrucole collegava il Sud e il Nord del paese, laddove prima questo avveniva attraverso il duro lavoro nelle fabbriche e le storie di un’emigrazione ben diversa da quella attuale.