Città e musica, si diceva. Facile parlare di Bristol, di Berlino, perfino di Milano, o addirittura di Pesaro, ognuna con la propria scena. Città e festival, anche, tipico argomento estivo da webzine. Ormai ci sono posti meno consolidati nell’immaginario nazionale che hanno stabilito la loro posizione nel panorama festivaliero locale, e posti fino a qualche anno fa inimmaginabili come Castelbuono o Vasto compaiono nei dossier di riviste internazionali richiamando appassionati da qualsiasi nazione.
Ma invece, qualcuno si chiederà, cosa succede in una regione misteriosa come la Calabria, piuttosto estesa, se uno ci pensa, e consacrata al turismo delle famiglie campane ormai da quando è stato introdotto il concetto di villeggiatura per dipendenti statali? Possibile che non ci sia nient’altro che ombrelloni, mare e i balli latinoamericani, negli insopportabili villaggi vacanze dislocati ai piedi di centri storici le cui case si stringono sempre più in cima alle colline e ai promontori bruciati dal sole – e quest’anno anche dai piromani – per evitare il contatto con la massa di bagnanti che invade la regione per quelle poche settimane estive? La risposta la si scopre, come spesso accade, spostandosi in loco, e siccome anche quest’anno ho deciso di consacrare un mesetto alla riscoperta di questa regione che ama nascondersi ed essere cercata, ho scoperto che ci sono anche altre invasioni a prendere possesso dei borghi durante le settimane estive. Mi sono fermato tra le case a prima vista abbandonate del delizioso centro storico di Cosenza, dove ogni anno si tiene un festival chiamato appunto Il festival delle invasioni.
Ecco, non immaginatevi grandi nomi: sul cartello, spicca di certo quello di tutto rispetto di Michael Nyman, oltre a qualche band il cui nome si è perso nei meandri della memoria, come quello di Incognito e Planet Funk. La lista è lunga – si è trattato non di un vero festival, ma di una rassegna di eventi distribuiti in tutto giugno e luglio – e ci sono sicuramente musicisti internazionali jazz e blues di cui, ammetto con schiettezza, sono abbastanza ignorante.
Piuttosto, immaginatevi Cosenza. Imbucata in una vallata, da una parte c’è il centro più nuovo, col corso principale, quello dei negozi, i suoi palazzi più o meno nuovi che vi sorgono a lato, moltiplicandosi intorno ai suoi incroci. Più giù, c’è una distesa di palazzoni frutto del genio perverso dei grandi razionalisti degli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta, probabilmente gli stessi che hanno progettato il campus di Arcavacata, pochi chilometri più giù, o l’aeroporto di Lamezia Terme: delle strutture tra l’impensabile e il meraviglioso. Dall’altra estremità c’è il fiume: un rigagnolo solcato da una serie di ponti. E oltre il fiume c’è la città vecchia, una deliziosa distesa di palazzi, alcuni molto diroccati, che si arrampicano sulla collina fino a raggiungere lo splendido castello, di cui probabilmente pochi hanno sentito parlare al di fuori dei confini regionali, ma che è una delle strutture normanne meglio conservate è più affascinanti del meridione, e pure d’estate si presta a essere location di eventi e concerti.
Ma se volete cogliere lo spirito del festival, ecco, tornate giù, sul fiume, dove una serie di stand con cibi e bevande – il pane cunzato! – si distende intorno al primo palco, quello più grande. Poi proseguite per la stradina che si infila tra le case vecchie e sale piano piano, aprendosi sulla prima piazza, di fronte al bel duomo, col secondo palco; quindi proseguite verso il terzo palco, mentre intorno a voi avete le luci tenui di salumerie e tavernette; e infine, a fianco ad uno dei bar storici della Cosenza che furono, eccovi la piazzetta col quarto palco, dove siamo diretti. Ecco spiegato il nome del festival: un flusso di sonorità diverse invade le viuzze del centro, e vi accompagna da una tappa all’altra, con concerti che cominciano a orari sfalsati in modo da permettere di ascoltare un pezzetto di ogni band – per la maggior parte gruppi locali, ma che male c’è, finché la musica è piacevole non si bada all’etichetta. E poi, finalmente, ci sono loro. I Camera 237.
Per rispondere alla domanda: che musica si suona a Cosenza? Ebbene, negli ambienti alternativi nostrani credo che uno dei pochi gruppi che abbia avuto una visibilità nazionale siano proprio i Camera 237, così su due piedi, vi direi che a Cosenza si suona post-rock. Si tratta di una band che non vedevo da molti anni, più o meno dagli anni in cui il genere aveva contagiato l’intera zona tra Caserta e Napoli dove ho vissuto gran parte della mia esistenza, e i gruppi esplodevano numerosi e dotandosi di nomi abbastanza inconsueti: Il Cielo su Bagdad, A New Damage, Iristea, Mantra Above the Spotness Melt Moon, perfino io avevo trovato posto come batterista in un gruppo post-rock di un certo richiamo. Ogni gruppo ha proseguito in direzioni diverse dopo la parabola post-rock, così come hanno fatto gli individui che le componevano, visto che tutti i gruppi ciati si sono disgregati lentamente, riconoscendo in fondo che gli unici a credere davvero nella longevità del genere sono gli scozzesi Mogwai. E poi ci sono i Camera 237, di cui avevo perso le tracce credo da quel lontano concerto credo nel 2010 in un locale di quell’hinterland compreso tra la provincia disumana che unisce in modo coerente e continuo Caserta e Napoli. Erano stati splendidi. Avevo visto il loro nome su un cartellone durante una passeggiata diurna per le vie della città qualche settimana prima, e deciso di tornare per vederli al festival, nonostante l’ultimo disco risalga al 2013, e il loro nome sia tornato nelle webzine solo in occasione di un singolo più recente, del 2016, My Disorder.
È stata una scelta di cui non mi sono affatto pentito. La serata è cominciata tardi, oltre mezzanotte, ma ciò nonostante, è proseguita imperterrita e a pieni volumi per un’ora abbondante, concludendosi ben oltre l’una, nonostante il palco sistemato tra le case in pieno centro: una roba piuttosto inedita. Il quartetto cosentino ha suonato molti pezzi vecchi, ma anche il singolo di cui sopra, coprendo tutte le sonorità del post-rock esplorate nei tutto sommato pochi anni in cui il genere è proliferato, assemblate in modo originale ed eseguite con una maestria impeccabile: lo senti che sono vibrazioni tutte loro, che padroneggiano e che trasmettono generosamente al pubblico riunitosi intorno. Li vedi sul palco, tutti e quattro dietro i loro strumenti, composti e lirici fino al momento in cui il batterista stacca sui piatti e i due chitarristi si distendono nella classica posa costipata di chi grattugia le corde con intensità crescente dopo aver pestato il booster collegato ad una catena di delay e overdrive in sequenza, rianimandosi a seguito di due buoni minuti di arpeggi, il bassista un po’ defilato ma pure lui presissimo.
I Camera 237 negli scatti di Alessia Naccarato al Color Fest 2015
Non è nostalgia, non è vintage, perché in pochi minuti di esibizione, per circa un’ora, i Camera 237 ci riportano indietro a quel periodo di grande passione e il post-rock è di nuovo vivo: ci credono i musicisti sul palco, ci credono gli hipster locali che scattano foto in pose improponibili e bevono birra e applaudono, ci crediamo noi tutti riuniti nel Largo Antoniozzi, perché quando una band ti trasmette l’idea di essere sicura di quello che sta suonando non esistono generi né tendenze, ma solo una serie di vibrazioni che ti investe direttamente e ti avvolge le gambe, ti aggancia il cervello, ti infila in un loop che ti impedisce di tornare a casa anche se è tardissimo e hai voglia di dormire, e sai pure che da Cosenza a casa tua ti aspetta un’ora e mezza di guida al buio arrampicandoti tra le pendici della Sila. Così si prosegue lasciandosi cullare dalle distese armoniche interrotte da fragorose cavalcate che si riversano sulle pareti dei palazzi intorno fino a notte fonda, fino al momento in cui viene annunciato l’ultimo pezzo, e poi mestamente si torna nel mondo reale, ripercorrendo a ritrovo le stradine del centro ridotte al silenzio al termine di tutte le esibizioni.
Bene, dunque, lo confesso, a questo giro vi ho trascinato nel diario di un post-rocker irredento che non si sente neppure di dover chiedere scusa. Anche perché la colpa in fondo è tutta loro, dei Camera 237. E quando qualcuno vi chiede che musica si suona a Cosenza, sentitevi in dovere di rispondere: a Cosenza si suona post-rock.