L’idea di Zabriskie Point (secondo film in lingua inglese del regista italiano dopo Blow Up del 1966) venne a Michelangelo Antonioni dopo un sopralluogo presso l’omonima depressione geologica statunitense, scelta come scenario chiave per un racconto che potesse sposarsi con naturalezza alla visione marxista dell’autore. Zabriskie Point, quindi, è il manifesto ultimo dell’espressione creativa di Antonioni, oltre che della sua sensibilità politica, grazie al quale viene rivendicato il potere viscerale dell’immagine a discapito della verbosità orale come veicolo di sensazioni e messaggi. Zabriskie Point è un potente e stratificato portavoce di temi e contraddizioni inserite in una ben precisa zolla temporale: siamo nei tumultuosi mesi successivi al ’68, le uccisioni sono all’ordine del giorno, e i giovani figli dell’autarchica borghesia americana rifiutano il loro status sociale per lanciarsi in moti rivoluzionari atti alla concretizzazione di una teoria sociale idealistica e sovversiva.
Con Zabriskie Point, Antonioni sfrutta la semplicità della storia, la sua molteplicità di profetiche chiavi di lettura a metà tra la sociologia e l’allegoria, per esporre tematiche molto più complesse e provocatorie sull’America, sui giovani e sulla società dei consumi, sul ripudio delle tradizioni americane e sulla faticosa ricerca del nuovo in un locus amoenus non ancora contaminato dall’alienazione della civilità. Il discorso si sviluppa attorno alla vicenda di Daria e Mark (interpretati da Daria Halprin e Mark Frechette, attori esordienti mai più apparsi al cinema), due giovani che a partire da un meeting universitario di contestazione (ostacolato dal fascismo di forze dell’ordine sempre pronte a compiere abusi di potere) intraprendono un viaggio nel cuore del deserto americano per attestare, attraverso la consapevolezza politica e sessuale, la loro libertà d’animo utopica e visionaria. Il sogno della fuga dall’omologazione e dal consumismo troverà il suo catartico culmine nelle immagini toniche di un finale (sulle note dei Pink Floyd) perfetto per sintetizzare l’anima sia scenica che argomentativa di Antonioni.
I paesaggi urbani e naturali che crescono e fagocitano l’utopia di Daria e Mark vengono fatti pulsare di vita propria dai piani-sequenza orchestrati da Antonioni per far respirare fino in fondo il malessere sociale e la volontà di riscatto. Deserti, montagne, cittadine di provincia popolate da gente sofferente, ribelle o remissiva, scorrono sullo schermo e arricchiscono il ritratto della violenta innocenza del marcato contesto hippie ed estivo, in un crescendo progressivo di perfezione visiva e percettiva. Come conteplato dalla miglior tradizione del road movie, da Easy Rider (1969) uscito l’anno prima al più recente Thelma & Louise (1993), il viaggio è tratteggiato come un flusso ininterrotto di metafore libertarie in netto contrasto con il feticismo consumista rappresentato dai messaggi promozionali dei cartelloni pubblicitari. Ogni tappa e ogni incontro riflette l’alternanza tra severa spontaneità di toni polemici al sistema ed esaltazione dell’amore libero e depurato da qualsiasi classificazione sociale indotta dalla fatuità mondana.
Venendo all’amore libero, il tema dell’incomunicabilità di coppia che aveva contraddistinto la precedente opera di Antonioni fa un passo indietro a favore dell’unione tra due anime simili, suggellata da un atto sessuale che viene nobilitato addirittura a forma di amore universale. L’esplosiva scena finale innescata dall’ipersensibilità di Daria, tinge di cremisi sanguigno l’epilogo mentre coriandoli multicolore dei beni di consumo di una villa si disperdono tra cielo e terra, sancendo il trionfo di nuova vita costruita su nuovi e più sani valori, ma soprattutto il trionfo del Cinema che riesce a donare a questo prodotto così ostico ma al contempo delicato quella comunicatività che l’autore andava perseguendo. La vitalità dei protagonisti detta le sue regole sul male del benessere materiale, facendo abbracciare al solitamente nichilista Antonioni un nuovo linguaggio più anarchico e positivo.
Zabriskie Point non è un film che si può valutare con una sola, aerea visione; è un attacco diretto alla borghesia dal ritmo lento e spesso astratto, ma compatto nella messa in scena ambiziosa e aguzzo nelle sottotracce. Allo spettatore degli anni Duemila può apparire così figlio dei suoi tempi da risultare indigesto e distante, ed è proprio per tali ragioni che è necessario visionare l’insieme filmico con la dovuta elasticità, soprattutto accettando (pur magari non condividendo) ciò che ha voluto trasmettere Antonioni.