“Voglio mostrare come un pugile impari a dominare l’odio e la violenza.”
(Martin Scorsese)
Durante la cerimonia degli Oscar 1980 fu il comunque ottimo Gente comune di Robert Redford ad aggiudicarsi l’ambitissima statuetta di Miglior Film, non Toro Scatenato di Martin Scorsese, quello che il titano dei critici cinematografici Roger Ebert consacrò come il lungometraggio più importante degli Anni Ottanta. Ma come spesso avviene con numerosi titoli oggi considerati classici, anche a quest’ennesimo capolavoro del regista di Little Italy il trascorrere del tempo ha tributato i giusti onori, a fronte di una performance maiuscola di Robert De Niro e delle vivide emozioni di cui vibrano i fotogrammi impressi dall’operatore Michael Chapman.
Nato da un’idea dello stesso De Niro, che ha proposto il progetto a Scorsese dopo esser rimasto folgorato dall’immenso potenziale cinematografico dell’autobiografia dell’ex pugile Jake LaMotta, Toro Scatenato ripercorre ascesa e declino sportivo e personale del “toro del Bronx”, un leggendario pugile che tra gli anni Quaranta e i Cinquanta, grazie anche al sostegno della mafia, riuscì ad aggiudicarsi il titolo mondiale per i pesi medi. La successiva crescente obesità da ex campione rintronato che si dedica alla gestione di night clubs, una vita familiare allo sbando e gravi accuse di pedofilia ne segneranno l’inesorabile declino, e tutto ciò viene raccontato da Scorsese con un tono tragico e magistrale, che fa ruggire come un leone il fuoco della Nobile Arte mentre svela la complessità psicologica di una personalità fin troppo impulsiva e violenta.
“Hey, Ray: non mi hai mai messo giù…”
(Jake LaMotta)
Partendo dal presupposto che le scene sul ring sono solo una cornice per la parabola discendente di LaMotta, gli incontri di Toro Scatenato ancora oggi possono essere annoverati come i più realistici mai apparsi in un film sul tema, indelebili balletti di pugni, sangue, sudore e adrenalina che superano in resa scenica i già elevati risultati di Rocky (1976). Il bianco e nero delle riprese di Chapman racchiude gli scontri in un’atmosfera metafisica ed esalta la baldanza battagliera di colpi inflitti e pubblico esultante. Bisognerà aspettare il Michael Mann di Alì, uscito un ventennio più tardi, per ritrovare qualcosa di vicino a quel piglio e a quell’attenzione caratteristica dei match di Toro Scatenato. Anche se il memorabile “massacro di Boston”, in cui un rassegnato LaMotta si concede ai pugni d’acciaio dell’eterno rivale Sugar Ray Robinson, è destinato a rimanere con ogni probabilità un’imbattuta vetta di cinema.
Scorsese dà però il meglio di sé quando si tratta di narrare l’innata inclinazione autodistruttiva del suo antieroe, incapace di trattenere una predisposizione animalesca che ne denota le fragilità, incanalata in scoppi d’ira inarrestabili, dagli effetti devastanti per la vita di LaMotta al di fuori del ring. L’autolesionismo inconscio, l’incapacità di affrancarsi dalla schiavitù delle proprie zone d’ombra e il malessere delle relazioni umane diventano così collegamenti a doppio filo tra il “toro del Bronx” e il miglior personaggio scorsesiano, l’alienato Travis di Taxi Driver. Sarebbe superfluo spendere parole sull’estrema prova di De Niro, incline alla trasformazione fisica e qui ai massimi vertici della propria carriera di demiurgo del method acting che meglio di molti altri attori ha saputo trasmettere inquietudini senza tempo; e impossibile è trovare altre parole che non siano già state dedicate a un titolo a cui l’etichetta “capolavoro” ormai sta stretta da decenni.