A rivedere oggi The Blues Brothers, l’immortale e mordace capolavoro di John Landis che ha contribuito alla risurrezione del genere R&B tramite un omaggio spensierato a icone quali Ray Charles e James Brown (presenti in brevi cameo), la prima sensazione è la commozione. Chi davvero ama la musica tout-court non può non annoverare tra i suoi preferiti un film che sbalordisce per il brio rivoluzionario con cui vengono fusi commedia farsesca e action movie, musica e movimento. La precisione registica di Landis, il ritmico tempismo comico di battute e atteggiamenti, l’alchimia tra John Belushi e Dan Aykroyd, il loro outfit scopiazzato da gente come Tarantino… nulla è fuori posto, e tutto è necessario all’economia delle vicende. E soprattutto travolgente.
Scritto dal regista assieme ad Aykroyd, The Blues Brothers si basa sui due omonimi personaggi TV del Saturday Night Live e ricava dai suoi quasi 30 milioni di budget un vortice di immagini e sensazioni irripetibile. Scontati tre anni di galera per rapina a mano armata e riunitosi al fratello Elwood (Aykroyd), il paffuto e sgangherato Jake Blues (Belushi) scopre che l’orfanotrofio dove hanno trascorso l’infanzia rischia la chiusura se non viene versata la somma di cinquemila dollari. Per racimolare il denaro necessario, i fratelli decidono di riunire la loro vecchia band con un concerto di beneficienza, ma si troveranno invece a fuggire dalla polizia e dai nazisti dell’Illinois in una serie epica di avventure sempre più improbabili ed esilaranti. Il tutto a ritmo di una ricca e straordinaria colonna sonora (Jailhouse Rock, Minnie Moocher, Everybody needs somebody to love).
Lo scopo principale di The Blues Brothers, va da sé, è quello dell’intrattenimento citazionista senza particolari esigenze colte, idea rafforzata dalla linearità di una trama che serve solo come collante tra uno stacchetto canoro e l’altro. Tuttavia la struttura da musical è molto più solida rispetto agli standard di genere, per quanto i momenti musicali siano innegabilmente irresistibili. Questo è merito esclusivo del tocco sensibile con cui Landis ha dato dignità al racconto puro, seminandolo di strepitosi spunti satirici (James Brown, spesso accusato di inserire oscenità nelle sue canzoni, interpreta un reverendo) e improvvise schegge di thrilling. L’assedio del palazzo delle tasse e gli inseguimenti rocamboleschi per le vie di Chicago centrano il bersaglio della scarica di adrenalina per creare capolavori di coordinazione degli stunt e montaggio serrato che tengono alta la tensione.
Passati i quarant’anni, The Blues Brothers mantiene intatta la sua statura di precursore artistico capace di riportare alla ribalta un filone sonoro reputato bollito come di innovare il cinema dei successivi dieci anni (il buddy-movie si può dire che nasca qui). Assieme a due assi del calibro di Jesus Christ Superstar e The Rocky Horror Picture Show, il cult di Landis sintetizza l’idea definitiva di musical cinematografico, in cui la musica non è esclusiva decorazione del film, ma si adatta al pathos della narrazione sia per divertire che per abbattere tutti i muri sociali ed etnici in nome della passione comune per l’arte. Un ragguardevole risultato per un regista che di grandi pagine di cinema ne scriverà ancora parecchie.