Le spettacolari riprese aeree delle Montagne Rocciose e le note distorte e agghiaccianti del gregoriano Dies Irae, ri-arrangiato per l’occasione con minacciosi synth da Wendy Carlos, sono al centro degli indimenticabili titoli di testa di Shining, adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Stephen King con cui Stanley Kubrick ha dato il benvenuto agli Anni Ottanta. Jack Nicholson interpreta Jack Torrance, uno scrittore in crisi creativa con un passato da alcolista che viene ingaggiato come custode invernale del sontuoso Overlook Hotel, un albergo costruito agli inizi del Novecento su un antico cimitero indiano. Assieme alla moglie Wendy (Shelley Duvall) e al figlio Danny (Danny Lloyd), Jack si reca presso la struttura sperando di trovare in quei mesi di pace l’ispirazione necessaria al completamento del suo nuovo romanzo. L’arrivo delle nevi e l’isolamento finiranno però per acuire l’incomunicabilità della famiglia e l’eccentricità aggressiva di Jack, e pian piano ognuno dei tre personaggi inizierà ad avere allucinazioni sulle spaventose presenze che mai hanno abbandonato l’albergo.
Da una semplice “storiella sulla crisi creativa” tinta di soprannaturale (come la ha descritta King stesso), Kubrick ha realizzato l’ennesima opera di altissimo profilo culturale, dirigendo un horror asettico, avvolto da colori opachi e gelidissimi, disturbante più per i nervi che per la vista pur non risparmiando virate verso una violenza grafica intensa che ha dato vita a momenti immortali come quello del corridoio sommerso da un’ondata di sangue. Il labirinto e il cerchio sono le due immagini più simboliche ed evidenti di un film in cui tutto è geometria. Geometrico è il giro del triciclo di Danny tra i corridoi, geometrica è la perfezione di quel “All work and no play makes Jack a dull boy” ripetuto all’infinito su centinaia di fogli di carta, ciclica è la spirale di violenza che si ripresenta tra le mura dell’albergo, così come ciclica pare essere la presenza di Jack come custode del locale. “È sempre stato lei il custode” dice lo spettro di Grady (Philip Stone) a Torrance, e per tutto il film (specie nel finale) Kubrick dissemina indizi che alimentano un grande dubbio: ma è davvero la prima volta di Jack Torrance all’Overlook o no? Questa oscura domanda, come tutte le altre che sorgono in corso di visione, pur riallacciandosi a un possibile legame tra l’Overlook e il cimitero indiano, non otterrà alcuna risposta tangibile.
Anche senza pretendere di voler trovare significati profondi al suo interno, Shining resta per prima cosa un grandissimo horror, forse non così importante nella storia del cinema di genere come altri titoli più grezzi e viscerali come Halloween di John Carpenter o Society di Bryan Yuzna, ma che fa proprio dell’eleganza formale il tratto distintivo grazie al quale Kubrick ha saputo generare un orrore più introspettivo e familiare, dove certamente l’aura minacciosa di ambienti vuoti e claustrofobici accresce la suggestione, ma che ricorda a tutti noi quanto i fantasmi del passato possano essere di gran lunga più terrificanti. Senza Jack Nicholson, sempre malsano e terrorizzante anche quando sfocia nell’over acting, la discesa nella follia di Torrance non sarebbe stata ugualmente potente e forse parleremmo di un film diverso, ma sarebbe ingiusto non menzionare Shelley Duvall e Jake Lloyd, il cui punto di vista smarrito e impanicato è quello dello spettatore, grandiosi per come siano riusciti a tener testa a un primo attore tanto ingombrante. Shining, malgrado la disapprovazione di un King non contento della fedeltà al romanzo tradita, ha consolidato la fama di Kubrick come tiranno del set (leggendari gli aneddoti che riportano di una Duvall portata sull’orlo di una crisi isterica) e consegnato al filone delle “case infestate da anime in pena” il suo nume tutelare.