Cinema Cult | Scarface di Brian De Palma

Allerta spoiler.

Quella del remake è sempre un’operazione rischiosa. Estrapolare un’opera dal suo contesto storico e culturale senza un adeguato ri-adattamento finisce per svilirne il senso, ma non è il caso di Scarface di Brian De Palma, rifacimento di un’omonima pellicola degli Anni Trenta di Howard Hawks. Sceneggiato da Oliver Stone, il lungomentraggio trasporta la vicenda dalla Chicago del Proibizionismo alla Miami anni Settanta, ma non si limita a riproporre con fedeltà il soggetto del predecessore, e si presenta come un’opera di profondo spessore culturale dalla marcata dimensione politica. È uno spaccato cruento ed eccessivo di un’America “drogata” dalla corruzione e dalla sete di potere e una profonda introspezione del narcotraffico latino a Miami negli anni Settanta; è la parabola discendente del piccolo delinquente Tony Montana (Al Pacino) che ascende in grande stile negli alti ranghi della malavita ma non riesce a tenere le redini del suo impero, finendo con il decretarne la distruzione.

Brian De Palma, Oliver Stone, Al Pacino & Steven Bauer sul set di Scarface

Sebbene la trama, pur semplice e lineare, sia molto intrigante, il film sarebbe stato lo stesso senza l’occhio onnisciente del maestro De Palma? Un regista diverso avrebbe girato un normalissimo film d’azione, ma De Palma è riuscito a imprimere ancora più forza alla straordinaria sceneggiatura di Stone, suddividendo il racconto in tre atti ben distinti. La prima parte (che si apre con un documentario che mostra le masse di profughi cubani che sbarcano nel Nord America per ordine di Fidel Castro) è incentrata sugli inizi del protagonista all’interno del crimine organizzato di Miami e sugli orrendi affari in cui è coinvolto, chiudendosi con la sua investitura a padrino. Qui il regista conferma il suo pirotecnico talento nella costruzione di una suspense implacabile, e a spiccare soprattutto sono la sanguinaria secchezza delle scene d’azione e del dialogo nervoso. Il secondo atto affronta con ritmo più disteso e stile più spettacolare la cementificazione del fragile impero di Tony, ponendo l’accento sulle folli mode degli anni Settanta a fare da contraltare alla violenza e alla ruvidezza dei rapporti umani. Nella terza e conclusiva parte (volutamente sopra le righe), il regista spinge l’acceleratore sui toni tragici della vicenda per descrivere l’inesorabile declino del suo gangster, ossessionato a tal punto dal controllo del suo piccolo mondo da far naufragare prima la lealtà dei suoi amici e poi il matrimonio con la bella Elvira (Michelle Pfeiffer). Il tutto si conclude inevitabilmente con l’autodistruzione di Tony in un mastodontico e violentissimo regolamento di conti finale.

 

Nonostante la lunga durata e le nette differenze di stile, le transizioni tra i tre atti non si avvertono e il film scorre limpido e con naturalezza, catturando lo spettatore con una storia esplosiva e con un anti-eroe da antologia. E a questo punto sorge spontanea una seconda domanda: Scarface avrebbe avuto lo stesso impatto senza Al Pacino? Probabilmente no. Infatti, l’attore italoamericano – doppiato divinamente da Ferruccio Amendola – sfrutta la sua formazione teatrale in modo folgorante, energico ed istrionico. Il suo Tony Montana, dotato di una faccia da schiaffi con pochi pari, conquista dal primo momento lo spettatore a suon di smorfie, sorrisi beffardi ed espressioni feroci; alternando urla, imprecazioni e borbottii con frasi ad effetto, Pacino si muove implacabilmente dai sobborghi del ghetto di Miami fino agli eccessi sfarzosi di ville in stile hollywoodiano, regalando all’immaginario un personaggio fascinoso e memorabile, malvagio, sì, ma unico nel suo genere.

Attorno a lui un coro di attori in gran forma: l’esordiente Steven Bauer perfettamente credibile nel ruolo del migliore amico di Tony, una giovanissima e stupenda Michelle Pfeiffer nei panni della capricciosa e algida moglie del gangster, passando per un breve ma incisivo cameo di F. Murray Abraham. Ciliegia sulla torta la splendida colonna sonora di quel mito di Giorgio Moroder, caratterizzata da synth sognanti o ferocemente ringhianti a seconda della situazione, sempre perfetti e mai invadenti. Qualcuno ha definito questo controverso capolavoro la prima grande epopea di gangster post-Il Padrino. Senza alcun dubbio è un thriller gangsteristico magistrale e di talento, un remake all’altezza dell’originale (per chi scrive persino superiore) e uno dei più coinvolgenti e iconici film realizzati.

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