Dalla morte di Giuseppe Garibaldi alla Liberazione del ’45: Novecento è il film-fiume (oltre cinque ore di durata) che Bernardo Bertolucci ha messo in scena nel 1976 per raccontare la storia d’Italia dal punto di vista di due amici, uno aristocratico, l’altro figlio di contadini, interpretati rispettivamente dagli ottimi Robert De Niro e Gerard Depardieu. Possente dramma epico con sfumature politiche marcate, il lungometraggio di Bertolucci chiama a raccolta il gotha dei tecnici (Vittorio Storaro alla fotografia, Ennio Morricone alla colonna sonora) e il meglio del panorama attoriale nazionale (Stefania Sandrelli) e internazionale; è un film tutt’altro che perfetto ma che trasuda una passione priva di fronzoli capace di far respirare allo spettatore sia l’odore dell’humus che quello più ampio della Storia. Il tono con cui il regista di Ultimo tango a Parigi ha narrato la lotta di classe all’interno di un microcosmo di padroni e braccianti è schietto e vibrante e permette la realizzazione di momenti cinematograficamente superbi.
Le interpretazioni stellari del cast (immenso pure Donald Sutherland nei panni dell’incarnazione spietata e disumana del fascismo), la cura per i dettagli scenici e il lirismo quasi pasoliniano che caratterizza le relazioni tra i personaggi permettono allo spettatore di accusare senza troppe difficoltà il minutaggio strabordante, soprattutto nella prima parte, più lenta e meditativa. Nel secondo atto, la vicenda viene asciugata e l’occhio di Bertolucci si concentra su una manciata di personaggi rilevanti già adeguatamente caratterizzati di cui si segue le vicende durante il Ventennio. Ed è sempre nella seconda parte, però, che Novecento mostra il fianco: la vigorosa (e poco lucida) posizione politica del regista prende lentamente il sopravvento sulla narrazione, facendo scivolare il finale un po’ troppo nella retorica e appiattendo non poco le sfumature dei protagonisti.
Malgrado la presenza di un divo vincitore di Oscar del calibro di De Niro, Novecento non venne ben accolto negli Stati Uniti della Guerra Fredda (un po’ per la lunghezza e un po’ per il numero di bandiere rosse sventolate nell’epilogo) mentre più positivo fu il riscontro italiano. La carriera di Bertolucci venne definitivamente lanciata, conducendo il regista alla vittoria agli Oscar per L’Ultimo imperatore, e questo suo film alimentò attorno a sé una meritata aura di cult di altissimo spessore culturale, politicamente parziale quanto si vuole ma eccezionale nel ritratto delle mutazioni storiografiche dell’Italia a cavallo tra le due guerre.
Gli avvenimenti della Grande Storia prendono vita in un racconto mai dispersivo e di portata enorme, consegnati da un regista di estremo talento con una vitalità che anche quasi mezzo secolo dopo non è venuta meno; le performance attoriali decise e vibranti colpiscono e vanno a impreziosire i folgoranti curriculum dei partecipanti (presenti persino dei mostri sacri come Burt Lancaster e Sterling Hayden). Assieme a L’albero degli zoccoli di Olmi, probabilmente tra le ultime fiammate di un cinema italiano grande e importante.