Cinema Cult | L’anno del dragone di Michael Cimino

Spesso approcciarsi al Cinema vuol dire fare i conti con una pluralità di pensiero tale da rendere impossibile un giudizio critico totalmente unanime; tuttavia L’anno del dragone rientra in quella ristrettissima cerchia di film la cui oggettiva bellezza non può essere in alcun modo confutata. Si tratta di un solidissimo poliziesco del 1985, scritto con piglio da Oliver Stone, diretto dal mai fino in fondo elogiato Michael Cimino e interpretato magistralmente dal “divo maledetto” Mickey Rourke.  Nel 1980 Cimino si era quasi rovinato per girare il suo imponente e costosissimo I cancelli del cielo, e questo progetto curato dal tandem Dino De Laurentiis-MGM ha costituito la miglior possibilità di sanare quella vecchia ferita.

L’anno del dragone è uno dei più grandi esempi di cinema commerciale all’indomani della Nuova Hollywood, un’intensa calligrafia dell’America xenofoba anni Ottanta dilaniata dagli spettri della guerra in Vietnam, stretta nella morsa della criminalità asiatica e al centro di conflitti generazionali che impongono sovversioni gerarchiche con la violenza. Chinatown è l’ombelico di questo subbuglio culturale, tra taciti “patti” instaurati dalle forze dell’ordine con le mafie cinesi, individualismo sfrenato e corruzione insinuata ai livelli della politica; l’unica persona che prova a rispondere davvero alla progressiva decadenza sociale è il pluridecorato capitano Stanley White (Rourke), poliziotto di origine polacca rinomato per la sua incorruttibilità. Con un solo difetto: è razzista.

La sceneggiatura di Scarface già aveva dato prova della capacità di Oliver Stone di intrecciare le tribolazioni personali dei suoi antieroi con mosaici politico-sociali più ampi, ma con L’anno del dragone viene compiuto un ulteriore passo in avanti: se il film di De Palma passava al setaccio l’introspezione del narcotraffico latino per “motivare” le ambizioni autodistruttive del gangster Tony Montana, qui il percorso di redenzione del personaggio di Rourke è impegolato in disegni dalla portata internazionale (la lotta alla triade cinese), nonché usurato dalle pressioni di un’etica professionale che droga il protagonista d’odio e paranoia.

Mickey Rourke in L’anno del dragone

Il tema centrale del film è quello dell’uomo osteggiato dai traumi e incapace di inserirsi davvero in un tessuto sociale: White è un sottoprodotto delle peggiori idiosincrasie americane post-belliche; la ruvida ossessione per il Vietnam lo divora, si riflette nel suo agire poco ortodosso e nel modo di rapportarsi ad amici e persone amate. Chinatown prende le veci del fronte nel sud-est asiatico, mentre l’epurazione del crimine sembra nascere più dall’odio per il “giallo” che non da un reale sentimento di giustizia. Questa caratterizzazione innesta alla classica matrice poliziesca alcuni elegantissimi lembi noir, e fa dialogare L’anno del dragone con un precedente capolavoro di Cimino, Il Cacciatore, anch’esso tragedia umana di cuori contaminati dalle tenebre vietnamite.

Cimino dirige come nei suoi momenti migliori, non perde mai il controllo sul numero elevato di story-lines e sa come alimentare un’atmosfera di tensione e claustrofobia pronta a esplodere in violenza grafica. Sebbene L’anno del dragone possa apparire un film di minor respiro rispetto a Il Cacciatore o I cancelli del cielo, la sensibilità del regista nel curare inquadrature piene di clamorosi dettagli visivi resta come sempre eccezionale. Doppi giochi, una non invasiva vena sentimentale e una crescente sensazione di pericolo scorrono a ritmo indiavolato per quasi due ore e venti, mentre la narrazione si distende quel tanto che basta a far sgorgare le conflittualità dei personaggi.

Per quanto pregno di contenuti, il film non risulta mai dispersivo o superficiale, andando a fondo a tutte le sue annose questioni politiche tramite risvolti pesanti come macigni. Ovviamente tutta questa eccellenza tecnica beneficia pure delle prove attoriali, passionali e veementi, pregne di una pungente alchimia. Su tutto però regna l’inquietudine scaturita dalla consapevolezza che si può vincere una guerra personale, ma non è detto che si riesca a cambiare il mondo. Un’opera spesso cinica e violenta, che però non dimentica lo sguardo della tenerezza e della più profonda umanità.

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