Uno chef odiato dalla moglie (Ugo Tognazzi), un giudice con il complesso di Edipo (Philip Noiret), un regista omosessuale represso (Michel Piccoli) e un pilota dell’Alitalia erotomane (Marcello Mastroianni) sono quattro amici in carriera ma insoddisfatti dalla vita che, durante un week-end di festa, scelgono di rinchiudersi una villa e abbuffarsi di cibo e sesso fino a morire: i grandi piaceri della vita diventano strumenti di autodistruzione, un’anticamera per il riposo eterno dopo un’esistenza di effimeri affanni. La grande abbuffata, capolavoro di Marco Ferreri del 1973, è tutto qui, in un’orgia pantagruelica e agonizzante che spinge il binomio eros e thanatos a un livello di decadentismo ed eccesso paragonabile solo al pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma.
È davvero dura guardare i quattro mattatori protagonisti ingozzarsi, sprecare il cibo, darsi alla promiscuità e cospargersi di escrementi per tutte le due ore di un vero capolavoro del grottesco. Il tono allegorico e surreale di questa oscura vicenda risulta estremamente tangibile grazie a una messa in scena molto fisica, carnale, in una sorta di voyeurismo artistico della metastasi fisica e spirituale dei personaggi. Ogni vizio umano viene portato all’estremo pietanza dopo pietanza, e tra plateali citazioni a Il Padrino di Coppola e flatulenze compulsive imbottite di puré di patate non c’è scampo al nichilismo borghese che tutto fagocita lasciando terra bruciata dietro di sé.
La grande abbuffata è l’opera più personale, completa e disturbante di Ferreri, drogata di metateatro dal quartetto di istrioni (tutti magnifici, anche se Tognazzi con quella parodia di Vito Corleone guadagna dieci punti in più) e dotata di una cattiveria fuori dal normale nei contenuti. Pur mancando la raffinatezza estetica del Pasolini di Salò, la cura formale del film è impeccabile nella sua grettezza, e la spendida (decadentissima) villa che fa da palcoscenico al racconto è la proiezione perfetta per le anomalie morali e l’umanità allo stato primordiale che vi trova sfogo come risposta alla mancanza di scopo.
Pochi film hanno ritratto con tale coraggio la disgustosa anima consumistica e falsamente progressista del borghese italiota medio, e mai la morbida forma di erotismo culinario quasi boccaccesco è stata così repellente come in La grande abbuffata. Da fruire nel periodo natalizio (magari prima del cenone) per mettere una bella pietra sopra i propri buoni sentimenti, e da confrontare con l’ancora più crudele e destabilizzante Nel più alto dei cieli di Silvano Agosti.