Figlio minore del periodo più creativo di Ingmar Bergman (Il Settimo Sigillo e Il posto delle fragole), Il volto (1958) è di sicuro il lavoro più misticheggiante ed enigmatico del maestro svedese, un ritratto fedele della vecchia Europa di fine Ottocento sospeso tra il razionalismo positivista dello scienziato Vergerus (Gunnar Bjornstrand) e le pratiche illusionistiche del mago di strada Vogler (Max Von Sydow), due convinzioni culturali contrapposte per incarnare la posizione attendista di Bergman, il quale cura con estrema attenzione l’ambientazione per influire concretamente sull’esplorazione della mentalità del tempo che si approccia alle nuove discipline scientifiche, pur tenendo un occhio di riguardo per la magia come retaggio del passato.
Analogamente a Il Settimo Sigillo, in Il volto convivono la buia austerità del dramma e la giocosità della commedia. Ingmar Bergman prosegue il suo magistrale carosello di dualismi e divertissement mettendo in primo piano una neutralità che non indica mai dove si trovi la ragione e, proprio come un prestigiatore fa con il suo pubblico, si balocca a mescolare e rimescolare le carte (e addirittura a umiliare i suoi stessi personaggi) per stupire gli spettatori con continui e mai prevedibili snodi in chiaroscuro che rinunciano alla separazione netta tra bene e male mentre spiegano anche il desiderio, l’amore giovanile, la maturità coniugale, la devozione, il tradimento e il magnetismo dell’attrazione sessuale.
Progenitore di Persona della giustapposizione di essere e apparire, Il volto esibisce uno spettacolo di specchi, espressioni, maschere da lanterna magica che pone al centro del racconto l’ossessione per la morte: il brillante dottor Vogler trascorre la vita a cercare di cogliere l’istante tanatografico senza mai riuscire a svelare il mistero dietro la più antica tra le paure umane. Emerge, dunque, l’idea tangibile di un mondo fallace in cui tutto può essere vero o falso, che dimostra come l’immagine pubblica possa essere ingannevole. Su tutto prevale la sincerità spassionata di Bergman nell’esame degli interrogativi esistenziali dell’uomo che cerca Dio, trovando culmine pacificatore in un finale quasi felliniano che è elogio alla bellezza della vita.
Con un’impeccabile dettatura dei tempi di narrazione e una regia estremamente elegante ed espressiva, Il volto fa affidamento a una scrittura scespiriana per far confluire la semplicità narrativa nella mediazione universale in un richiamo all’essenza del teatro come espressione dell’ordinario. Per l’occasione, Bergman riunisce molti suoi fedelissimi interpreti, dal sempre immenso Von Sydow alla ieratica Igrid Thulin, e ciò non può che beneficiare sull’anima metafisica della pellicola sfregiata dai tagli di luce espressionisti particolarmente suggestivi della fotografia di Gunnar Fischer.