Controversa figura del panorama cinematografico americano, Abel Ferrara è un autore che non ha mai messo pali davati a racconti inquietanti e addirittura osceni, tenendosi sufficientemente a distanza dai canoni di Hollywood da poter portare avanti una poetica più settaria, come un Martin Scorsese dei primi anni solo più lercio ed estremo. Ma è stato con Il cattivo tenente del 1992, presentato al Festival di Cannes dello stesso anno, che il regista del Bronx ha fatto davvero scalpore. Harvey Keitel, attore feticcio di Quentin Tarantino qui nella sua interpretazione più estrema e dolente, è il Tenente (per tutto il film non verrà chiamato in altra maniera, quasi a rimarcare l’universalità dell’opera), un burbero sbirro di New York che, pur fervente cattolico, abusa della propria autorità mentre dà libero sfogo a tutte le sue pulsioni più dissolute. La sua vita a base di stupefacenti, promiscuità e gioco d’azzardo è destinata a cambiare quando inizia a indagare su due balordi che hanno stuprato una suora.
Pur richiamando nello stile classici come Mean Streets di Scorsese (il cui protagonista era sempre Keitel), Il cattivo tenente è un noir viscerale e scattante nel ritmo, violento ma mai davvero gratuito, in cui la blasfemia convive con una sorta di lirismo liturgico che ha reso ancora più intense due sequenze divenute giustamente famose (la “fellatio” e l’apparizione di Cristo in chiesa). La sporcizia dei sobborghi della Grande Mela fuoriesce dallo schermo e investe lo spettatore, nauseato ma al contempo attratto da una storia dove in mezzo al putridume fisico e morale una fioca luce di speranza riesce comunque a trovare spazio.
Se a una prima aerea occhiata può sembrare solo uno sfoggio di eccessi, Il cattivo tenente in realtà è una nera e tumultuosa parabola sulla sofferenza. Il Tenente di Keitel offre un ritratto molto efficace del poliziotto fascista medio di una qualunque realtà urbana, il cui sistema di (dis)valori viene ben presto messo in discussione dal senso di colpa e dal contatto con il sacro. Ma non sempre l’espiazione è possibile, e lo stesso finale mostra vittime e carnefici incapaci di affrancarsi dei propri demoni perché “la tua vita non vale un cazzo in questa città!”. Già, la città. Sullo sfondo c’è lei, naturalmente: New York. Portata all’eccesso della degradazione ma riconoscibilissima; sede di dannazione e oscurità, dove nemmeno la luce del giorno riesce a bucare la cortina di effluvi malsani. Più che un agglomerato di cemento, ferro e vetro, la Grande Mela di Ferrara è un parassita che si nutre delle anime nere che brulicano nelle strade. Corruzione e lordura urbana varia riempiono le inquadrature che si susseguono sulle note di una colonna sonora sottotraccia, in una delle migliori sintesi di sacro e profano mai ammirate su uno schermo.
Delitti impuniti e torti invendicati prendono vita per mezzo di scelte stilistiche degne della più pura exploitation, ma estremamente raffinate nell’estetica. Il cattivo tenente è un apice che sarà impossibile da replicare per Ferrara (che ha dichiarato di aver diretto il film assumendo sostanze stupefacenti), e un imperdibile ritratto antieroico di quelli che lasciano il segno, anche se il contenitore pare valere più del contenuto e più volte si rabbrividisce per il disagio, al punto da voler interrompere la visione, se troppo sensibili. In chiusura, una piccola curiosità: malgrado il quarto d’ora di tagli orditi dalla censura per ridurre il divieto ai minori di 14 anni, l’allora presidente della cultura del Vaticano lo annunciò come uno dei film più importanti del Novecento. Una scelta strana, bisogna ammetterlo, ma tutt’altro che fuori luogo.