Quando la speranza non coincide con la salvezza: “Cieli in fiamme” di Mattia Insolia

Camporotondo, anno 2019. Un uomo sulla spiaggia, Riccardo Giordano, fa i conti col passato che gli schiaccia l’esistenza, in mano ha una pistola. È questa l’apertura di “Cieli in fiamme”, Mondadori, il nuovo romanzo di Mattia Insolia, un prologo che definisce il tono e dichiara le intenzioni dell’intera narrazione, intenzioni che l’autore non tradisce mai, nemmeno nelle ultime pagine. “Cieli in Fiamme” è, per questo, un romanzo circolare, che si compie e si completa contando solo su sé stesso.

Siamo, allora, in due luoghi immaginari in un Sud incredibilmente realistico, Camporotondo e Paloma. Nell’estate del 2000 a Camporotondo c’è Teresa Vasta, un’adolescente insicura in vacanza con i genitori Marco e Maria. Nell’inverno 2019 a Paloma, invece, c’è Niccolò, un diciottenne furioso, eccessivo e sprezzante che con Teresa condivide, seppure con modalità di espressione diverse, la stessa rabbia verso i genitori e il sistema in cui abita. Il dettaglio fondamentale è che Teresa è la madre di Niccolò.

Insolia torna al romanzo affrontando un preciso tema portante, quello della rabbia generazionale, collocandolo in due epoche distinte, ma intrecciandone, anche a diciannove anni di distanza, significati, conseguenze e manifestazioni. La prima, tra tutte, è lo scontro con le figure genitoriali, il nemico più vicino e più comodo. Teresa vive una situazione disastrosa: una madre violenta che la punisce con le parole prima, e con le botte poi, che riversa ciò che rimane della sua infelicità su un padre inerme, «uomo anonimo» secondo Teresa stessa. Zoppica leggermente Maria, e ha in sé gli echi delle madri rotte e infelici che le migliori scrittrici italiane hanno saputo raccontare, un nome su tutte: Elena Ferrante e la madre di Lenù nella quadrilogia de “L’amica geniale”. Anche il padre di Teresa, si diceva, è sopraffatto dal suo ruolo, dalla polvere di un passato complicato che non svanisce, talmente a pezzi che sua figlia si chiede se «fosse quella la vita che aveva sempre voluto, che aveva sempre immaginato per sé, o se un tempo avesse desiderato essere altro». Un pensiero frequente nelle famiglie disfunzionali, dove si è perso il contatto emotivo o, forse, non è mai esistito come nel caso dei Vasta. La loro infelicità invade ogni cosa: si manifesta nell’aspetto, nelle azioni, fino a prendere possesso anche dell’ambiente in cui vivono. Per i suoi genitori, Teresa riserva pensieri impietosi e interazioni stranianti che sbriciolano la sacralità dei ruoli, guastati senza possibilità di rimedio da retorica e aspettative. Per la giovanissima Teresa, il senso di estraneità dalla famiglia è talmente invasivo che quando si affaccia un minimo tentativo di intimità, si redarguisce per placare ogni istinto. A distanza di diciannove anni si ripropone lo stesso schema anche per Niccolò, talmente immerso nella violenza che per la madre, Teresa adulta, riserva solo il peggio di sé. L’urgenza è quella di non essere mai come i propri genitori, ma né Niccolò né Teresa hanno i mezzi emotivi e cognitivi per fermare quel declino, anche se il finale del romanzo riserva un importante cambiamento di fronte. Insolia lavora sullo smarrimento dei singoli anche attraverso il loro linguaggio e gli strumenti narrativi che lo accompagnano: contrae le parole di Niccolò, per esempio, e sia nel ragazzo che nella versione adolescente di sua madre, innesta pensieri intrusivi che, da soli, scolpiscono i due protagonisti meglio di mille flashback.

Mattia Insolia

I luoghi del romanzo rispecchiano l’abbandono generale e le emozioni dolenti che affliggono i personaggi. «A Teresa quel posto, Camporotondo e dintorni, metteva tristezza», scrive Insolia, e più avanti insiste:

Il paese ingabbiava poche migliaia di anime, e a Teresa ricordava una vedova: era lindo e ben tenuto ma pronto a morire. Un tabacchino, un’edicola, il Conad, due panifici, una pizzeria, una rosticceria lercia, dei negozi, tre bar, il pub Miami. Strade piccole, balconcini foderati di testa di leone o di cagnaccio. Marciapiedi stretti, vetrine minuscole e popolate di mercanzia impolverata. sbiadita. Era tutto sospeso, lì. La vita e il tempo non ci riuscivano, a entrare.

Di Paloma, invece, si dice: «Paloma sembrava ancor più grigia e disfatta. Il mondo visto dalla Festa del padre era peggiore, realizzò Niccolò».
In un alternanza ritmica tra le vicende di Teresa nel 2000 e Niccolò nel 2019, nella bruttezza e disperazione imperante, Insolia dà il suo meglio proprio con Teresa, nutrita di dettagli reali e curati, cuciti addosso a una ragazza insicura, acerba, che lotta per formarsi una coscienza del sé staccata da quella della madre.

E da allora non poteva più far a meno di domandarsi se quella bruttezza, che la teneva con la testa schiacciata per terra, che non le permetteva di alzare gli occhi sul mondo, che la faceva sentire un’esclusa, in realtà, non fosse che una fantasia e il suo un corpo come tanti, ma imbruttito dal suo sguardo.

Questa frase dà la perfetta tridimensionalità a Teresa, in bilico tra autodeterminazione e residui d’infanzia, una ragazza che deve ancora comprendere il suo corpo e nel frattempo se lo pizzica, lo prende a pugni, ma per calmarsi annusa i suoi capelli profumati di shampoo all’albicocca e mantiene piccoli riti da bambina, come la colazione con le Macine, perché ancora incapace di emanciparsi. La percezione che Teresa ha del suo corpo è solo il dolore aggiunto alla violenza della madre e all’immobilità del padre, un padre figurativamente “morto”, che non la libera né da Maria, né dai suoi stessi sensi di colpa. In questa inadeguatezza Teresa conosce Riccardo Giordano, il padre di Niccolò, e assiste alla sua stessa trasfigurazione per opera sua, l’approccio col sesso, il desiderio, la violenza maschile, le bugie.

Niccolò, intanto, inizia un viaggio in auto forzato col padre e la loro interazione è l’altro elemento di punta del romanzo, con uno scambio continuo e feroce di paure, aggressioni tra i due e rari, ma pur sempre presenti, momenti di contatto. Niccolò e Riccardo sono due bestie feroci che si mordono e attaccano in ogni occasione: il primo è violento, scurrile, sanguigno, suo padre, invece, si svelerà più lentamente e rimarrà perso nel mondo che ha costruito attorno ai rimorsi. Per entrambi Insolia riserva una profondità singolare, ma sempre sconnessa dalla realtà, nel caso di Riccardo, e confusa, nel caso di Niccolò. Se Riccardo non sa come essere padre, Niccolò non sa come essere figlio.

Copertina Cieli in Fiamme, foto Alessia Ragno

La chiave di lettura per Riccardo è racchiusa nella frase che ripete al figlio con ossessione, quel «lasciarsi accadere» che per l’uomo significa avere libertà di azione, seguire i propri impulsi, anche a discapito di chi gli è stato intorno. Ma non c’è libertà senza rimorsi, e questi che lo corrodono dall’interno, lo consumano e gli maledicono l’esistenza. L’unica fortuna di Riccardo è che suo figlio, in qualche modo, afferra il significato dei rimorsi appena in tempo, quando la sua voce interna prende forza. «I cattivi al mondo devono pur esserci» è la frase che rimbomba nella testa di Niccolò ed è un’ulteriore chiave di lettura per comprendere l’intero romanzo: Insolia rinuncia alle buone maniere del lieto fine e affonda le dita nel torbido, rimesta le emozioni più dolorose e gli istinti proibiti fino a quando non appare quell’unico spiraglio di speranza in cui si può affermare: «Io posso essere altro». È questa la conquista del romanzo intero: dimostrare che esiste un’alternativa alla condanna a essere mostri, replicanti, o «zombie», per usare le parole di Niccolò. E in questa battaglia per la sopravvivenza le vittime principali sono le relazioni genitori – figli, lo scontro per eccellenza, che si replica nel tempo intatto, col peso del trauma generazionale che si rinnova fino a quando non c’è qualcuno a spezzarlo a sue spese.

I figli sono coacervi di rimorsi e rimpianti, dolori e piccole felicità mai dimenticate o vissute che genitori, poveri diavoli che lottano per preservassi dall’annientamento, costruiscono nel tentativo di ricostruirsi. Mescolandoli a quell’amore sono convinti, e felici, di riversare nei propri figli, infilano nel risultato della loro unione pure tutti i materiali di scarto accumulati fino a quel momento. Per alleggerirsi, discolparsi e, infine, amarsi.

Leggere di questa genitorialità corrotta è, paradossalmente, un sollievo, una liberazione dal peso delle già citate aspettative, e l’esperienza autoriale di Insolia costituisce una finestra in cui la narrativa italiana si sporca pesantemente le mani e non ha paura di farlo. Che conquista, però, riconoscere che la speranza non sempre coincide con la salvezza.

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