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Estratto | Ci sono molti modi di Valerio Valentini

Ci sono molti modi è il romanzo di esordio di Valerio Valentini pubblicato dalla casa editrice indipendente Readerforblind nella collana anián. In libreria dal 7 marzo, il titolo è sia omaggio a una canzone degli Afterhours, che un affidarsi ai molti modi del caso che è la vita del protagonista. La storia prende vita dall’umidità di una casa della provincia romana e procede vorace a prosa sciolta.
Valentini è già autore di raccolte di racconti, Ci sono molti modi è il suo primo romanzo. Diamo una lettura a un estratto.

La vita è in prestito.
Ci viene concessa quando nasciamo, ma ha un tempo limitato. Dicono che quando finisce sia solo l’inizio, perché è soltanto il corpo che muore. L’unica cosa di cui abbiamo bisogno per ingannare l’attesa è quel sentimento di giustizia e conforto: a pensarci bene la religione nasce da questo, così ogni luogo che visiti, ogni cultura che incontri tenta di dare le sue risposte, tenta di consolare a modo proprio le persone che vivono e, insieme, attendono. Ci siamo inventati religioni in cui i regni ultraterreni servono a conservare la nostra anima per l’eternità o filosofie che invece contemplano la reincarnazione. Non so a cosa sia meglio credere, ma nel corso della mia vita ho riflettuto molte volte su quello che definiscono “grande passaggio” e alla fine, mi sono fatto un’idea. Quando moriamo, il nostro corpo smette di funzionare e si arresta. Si blocca il respiro, si immobilizza il cuore: una morte chimica alla quale, solo successivamente, segue quella delle cellule del cervello. Ma nel frattempo succede qualcosa di interessante: il nostro corpo comincia a produrre una sostanza psichedelica, una sorta di droga naturale, la stessa sostanza prodotta dal nostro corpo quando sogniamo. E allora sogniamo, anche se non ce ne rendiamo conto, sogniamo più di quanto abbiamo mai fatto in vita perché quest’ultima scarica è la più forte e i neuroni sono iperattivi. Cominciamo a vedere una sorta di film dei nostri ricordi. Ricordi e fantasie, ricordi e immaginazione. Ci facciamo un trip e solo dopo cala il sipario. In quel momento l’attività cerebrale cessa e non rimane più niente di noi. Niente dolore, niente pensieri, nessuna consapevolezza di chi siamo stati e di chi avremmo voluto essere. Niente redenzione, niente di quello che abbiamo fatto in vita e che, per un attimo o sempre, abbiamo pensato potesse essere utile per il trapasso. Niente.

Tutto rimane come era prima di noi. La nostra elettricità si disperde, dal cervello a tutte le altre piccole cose di cui siamo composti. E quando siamo lì, inermi, finiti, morti, restano solo i microbi, i batteri che popolano tutti gli angoli del nostro corpo. Iniziamo ad avere un nuovo scopo: la vita utile e non umana comincia quando finiamo a pezzi, diventiamo polvere, ossa e odori. Siamo riciclati: la nostra materia, quella che le religioni chiamano anima, inizia a muoversi. Ci spostiamo, cominciamo a essere mille cose, e a viaggiare in miliardi di altri posti. Questo vuol dire che ogni briciola di energia dentro di noi, ogni particella, continuerà a far parte di qualcos’altro. Magari diventeremo pesci o magari bruceremo in una supernova tra dieci milioni di anni. Capiamo che ogni nostro atomo viveva in una forma diversa: una stella, un mammut oppure una scimmia. Una quantità infinita di altre cose, bellissime o riprovevoli, disgustose o infinite ma, con una costante unica: il terrore di morire che abbiamo adesso.

Avremo una nuova vita, un nuovo scopo. Io sarò muffa. Mi espanderò ovunque e nessuno potrà fermarmi, perché l’umidità è un nemico mortale che uccide lentamente, entra nei muri, si stanzia, sembra scomparire – se trattata – ma poi torna in tutto, nell’aria che respiri e nelle ossa, corrodendole.

La verità è che qui, dove vivo, è umido. L’umidità mi attrae a sé inesorabile e non riesco a fare altro che subire questa lenta liquefazione del mio corpo. Diventerò vapore e sarò visibile solo di notte, sotto i lampioni accesi al bordo della strada.
Ho fitte di dolore che mi attraversano dal cranio alle dita dei piedi, dalla schiena allo stomaco; e mentre mi trascino per la pista ciclabile, tagliando di poco la strada che mi porta a casa, si fa sempre più viva la voglia di rivedere la vecchia palude, sopra la quale oggi si arrampica tutto questo asfalto crepato. La palude c’è ancora, ma è nascosta; si fa calpestare di giorno in giorno, impervia e scivolosa, più intricata rispetto a quando era visibile. Eccola lì, la solita voglia da bestia di provincia; tutto questo mi fa sentire a casa.

A volte me la vivo da schifo questa solitudine, penso che altrove potrei essere più felice, avere un lavoro normale e non sentire più questa puzza che mi impregna le narici, l’acqua che mi scorre sulle ossa. Poi però mi rendo conto che, dopotutto, questa città è sempre stata buona con me. Con le sue palme malate, i suoi ponti tutti diversi tra loro, con le sue zone residenziali piene di villette gialle a due piani tutte uguali e i palazzoni centrali che coprono l’orizzonte del Tirreno, fin là, al suo lungomare fatiscente, piccolo e stretto, addobbato da alberi rachitici con le foglie secche anche in primavera. Una città piccola e a misura d’uomo che non aspira più a nulla perché si ritiene soddisfatta della sua intolleranza, della sua omertà e di quel suo prato grande e incustodito vicino al comune, con l’erba bassa e arida, piena di merda di cane e buste di plastica, con le panchine sempre sghembe. Una città piccola e a misura d’uomo, ma piena anche dei ricordi di un bambino felice. Io.

Su una di quelle panchine, un giorno sedeva Marco, uno dei tanti figli di papà che odiavo e odio ancora perché diversi da me. Mi guardava con quell’aria di superficialità e teneva in mano l’ambito pallone, quello della Tango, che assicurava prestazioni migliori rispetto a quelle che poteva regalare il mio SuperTele da duemila lire. Mostrava a tutti l’ultimo modello della sua BMX, legata a un albero.

«Tu non giochi», mi diceva ogni volta che mi avvicinavo con il pallone sottobraccio. Io restavo a guardarlo, con le mani sudate e la bocca aperta, immaginandomi di prendergli quella piccola testa di cazzo e ficcargliela dentro a una pozzanghera; poi sorridevo, mi giravo e continuavo a palleggiare con il mio SuperTele da duemila lire.

La maggior parte delle volte pensavo a quanto sarebbe stato bello essere al mare a costruire castelli di sabbia, me ero solo. Papà in giro a caccia di lavori e mamma a casa, ma senza patente. Per la verità l’aveva, ma si rifiutava di guidare perché un giorno aveva messo sotto un ciclista: niente di grave, ma lo spavento fu tale che non ne volle più sapere di rimettersi al volante. I nonni invece abitavano fuori città. Mio nonno, che nella vita era stato un mastro muratore, ora vagava per il quartiere rubando tutto quello che gli capitava sottomano: cleptomania acuta. Nonna invece era diversa dalle altre, non passava intere giornate a preparare pranzi e cene per i nipotini o a lavorare ai ferri. No, lei viveva le ore per giocare al Lotto. Giocava qualsiasi numero le capitasse a tiro e, se non ne trovava nessuno, se lo procurava:
«Bello de’ nonna, quanti gol hai fatto oggi alla partita?», diceva. Io rispondevo e lei scattava fino al botteghino. La odiavo, con quei soldi avrebbe potuto comprare qualcosa per me.
Ancora oggi, il ricordo di Marcolino mi tormenta. Rivedo me e il mio pallone in mano mentre, passeggiando verso la spiaggia, non riesco mai a raggiungere il mare.

Ho provato anche a lavorare nella grande città, a prendere il treno, la metro e l’autobus tutti i giorni per pochi soldi, ma ogni fine mese mi sentivo sempre più insoddisfatto e frustrato, perché in fondo, e nonostante tutti i miei sforzi, sono una bestia di provincia. Eppure Roma l’avrei voluta vedere come attraverso l’obiettivo di una macchina fotografica come i turisti felici, gioiosi di calpestare la stessa strada battuta dalle lettighe secoli prima, turisti che silenziosi ed emozionati respirano lo smog dell’ora di punta pur di farsi una foto con la mano risucchiata nella bocca della verità, Ma la verità è un’altra, la verità è che l’autobus non passa mai, se non nella direzione opposta a quella in cui ti trovi, e la metropolitana che si ferma davanti al Colosseo non è una corsa che ti serve se devi raggiungere il tuo ufficio che ovviamente non si trova in centro. E allora implode la strada, esplode San Pietro. Cinecittà diventa un parco giochi per gente annoiata e la strada è di nuovo bloccata tranne che per le auto blu. Nulla oltre l’odio. Non voglio che mi si tocchi, in treno, sull’autobus, in metro, per strada. Mi fanno schifo le altre persone, mi fa schifo la città perché non ce l’ho mai una macchina fotografica quando mi trovo a Roma.

Vorrei solo che ogni tanto la mia quotidianità fosse più stimolante, tanto per darmi una scossa e sentirmi meno fradicio. In fondo, non ci vuole tanto impegno per affrontare la giornata se devi solo alzarti, forse lavarti e guadagnare quel poco che serve per restare in vita. Certo, forse a sessant’anni avrò bisogno di qualcosa in più, speriamo che da qui a vent’anni Xanax e puttane saranno mutuabili. A dieci anni mi sarebbe bastato un pallone Tango, a trenta mi accontento di cibo del discount e qualche sigaretta, a sessanta di ansiolitici e prostitute. La mia palude tutto questo ce l’ha. Mi piace essere una bestia di provincia e di fame del mondo, carestia e crisi non me ne frega niente.

Il lavoro per il quale vengo pagato è semplice, poco remunerativo ma di scarso impegno, non credo possa nemmeno definirsi un vero e proprio lavoro ma a me piace chiamarlo così. Aiuto gli altri a morire. Tuttavia, funziona così, io sono un’Arpia e aiuto le persone ad attraversare il Flegetonte. Nessuna pianta verde o speranza di redenzione, solo buio. Non rami dritti, ma nodosi e contorti. Nessun frutto ma solo spine avvelenate. A chi mi chiede che lavoro faccio per vivere, almeno una volta vorrei rispondere: arrivo e taglio qualche ramoscello da cui escono parole e sangue. Gli ultimi istanti di un’esistenza senza infamia e senza gloria di cui il mondo avrebbe fatto volentieri a meno. E di solito non importa quale sia il motivo della decisione dei miei utenti, basta che muoiano. Sia chiaro: non sono io a ucciderle, sono solo un piccolo aiuto, un consigliere: quello che li sosterrà nel preparare gli ultimi giorni della loro vita.

 

Redazione

"Niente da offrire eccetto la nostra stessa confusione" J.K.

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