Christian Löffler – Graal (Prologue)

Continua la favola incantata di Christian Löffler, producer apparso come un fuoco fatuo nella bruma delle pianure verdeggianti del nord della Germania diversi anni fa, in grado di irretire con disinvolta semplicità grazie alla sua techno idm, di stampo delicatamente classico.  Se con A Forest prima, e Mare poi, l’artista aveva dipinto i suoni di una natura melanconica e segreta, per descrivere invece il nuovo lavoro non ci si può esimere dal partire parlando di un viaggio, anche se, fortunatamente, non come scontata metafora  per raccontare un album di musica elettronica. Artifizi retorici a parte, questa volta tale parola è ammantata di una sua spiccata concretezza. Graal è, infatti, un lavoro concepito in itinere a cavallo tra il 2017 e il 2018, in un momento in cui Löffler si trovava in tour, spossato per la pressione e frustrato dall’impossibilità di poter comporre. Si tratta, come definito dallo stesso autore, di una sorta di “diario di viaggio” musicale creato tra una tappa e l’altra, composto su di un aereo, di un treno o di un’automobile che lo conduceva altrove.

Non a caso Graal racchiude al suo interno un’anima tormentata, costantemente contesa fra due opposti che a tratti si respingono e a tratti si rincorrono, ma che non possono fare a meno di convivere in un movimento fluido e perpetuo. E la genesi del disco, a metà fra l’impulso a inventare e la necessità di evadere dallo stress del tour, non rappresenta che la prima traccia evidente di questa tensione che permea l’intera opera, così evidente da sembrare quasi palpabile. Lo stesso processo creativo si divide, nelle sua fase progettuale, in un’insolita competizione fra talenti diversi: Löffler ha infatti studiato Arti Visive ed accompagna alla composizione musicale la realizzazione di disegni, in un vicendevole scambio in cui le due arti si confondono e si alternano nei ruoli di ispiratrice. E il suono che segue lo schizzo o viceversa? Poco importa, probabilmente, al netto di uno sforzo teso a realizzare un progetto volutamente grezzo e quasi “sporco” nella sua istintualità, così piacevolmente distante dalla perfezione di un album di studio.

Intimità e malinconia sono le due parole chiave che permettono di continuare attraverso l’analisi di una dicotomia che procede anche dal punto di vista sensoriale. Quella del producer tedesco è una musica che avvolge e si attorciglia sinuosa e calda, a tratti ornata da svolazzi sintetici o da morbide percussioni, ma che alla base è intrisa di una malinconia che l’artista non tenta di celare affatto e alla quale, anzi, pare sia condannato. Ad una Ry che si affaccia prima timida e poi più incalzante con i suoi impulsi da techno minimal, fa da contraltare il synth vivace di Bird. Le due tracce non strumentali sono forse la sintesi di questo duraturo equilibrio fra opposti: da un lato la glaciale Running, con Josephine Philip capace di partorire paesaggi sonori a temperature da zero Kelvin, dall’altra l’irresistibile voce di Mohna in Like Water che accarezza placida l’ascoltatore, rassicurandolo.

Non diversamente, Refu e Graal sono una fervida espressione di una contemporanea miscela di leggerezza e gravità, con la prima calma e oscura nel suo ritmo etereo, e la title track impegnata in una cavalcata attraverso il cosmo, in sella a contrabbassi e percussioni minimal. La forza di questo disco risiede definitivamente nella capacità evocativa, al punto che non è difficile immaginarsi una serie di istantanee che rappresentano il momento creativo dell’artista: una jam sotto un cielo stellato in una notte di spostamento, un disegno a carboncino mentre il treno attraversa una galleria, le onde del Baltico che si infrangono –imperturbabili- sulla costa vicino a Rostock.

Come indicato dal titolo completo, Graal (Prologue) è soltanto un preludio, un’anticipazione di un album da studio che seguirà entro la fine dell’anno. Si tratta, tuttavia, di un disco dotato di una propria autonomia, molto al di là di quanto si potesse prevedere. Löffler riesce, con un esperimento sui generis, a trasmettere una sensazione insolita: una specie di empatia musicale che lavori più raffinati e più levigati smarriscono, nel nome di una produzione ipercontrollata e sempre più studiata a tavolino. L’idea che una ruvida immediatezza sensoriale e una autenticità di suoni possano far capolino in mezzo ad una selva di produzione elettronica seriale, ha il sapore d’acqua di una fonte di montagna, tanto ferruginosa quanto fresca e godibile. E il viso di chi si abbevera, in questi casi, si apre sempre in un gran sorriso.

 

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