Ad Anna Shirley Cuthbert, la protagonista di Chiamatemi Anna, la serie Netfix in tre stagioni tratta dal romanzo Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery, ho voluto bene. Ho passato le sere di questi mesi di reclusione e naufragio emotivo dietro le sue avventure quotidiane, le sue frasi altisonanti piene di ironia e verità (“sono una coscienziosa obiettrice dello status quo” “non so cosa amo di più se la spilla o il verbo perpetuare” “ho deciso che sarò io l’eroina della mia storia”), le sue battaglie sociali, il suo debole sottaciuto per Gilbert Blythe, le sue amicizie. Mi torna in mente quello che le fa ripetere il maestro Philips in classe quando Gilbert le tira le trecce per stuzzicarla e lei lo picchia (“Anna Shirley ha davvero un brutto carattere”) o ciò che le dice Marilla, madre adottiva, per consolarla e tirarla via da un umore buio (“Hai una mente agile e brillante, Anna, non vedo perché dovresti reprimerla”).
Chiamatemi Anna è una serie che dà un tono di modernità e di magia ad un romanzo considerato per ragazzi e che, invece, parla forte e chiaro anche agli adulti. Sebbene sia ambientata alla fine dell’Ottocento, nella comunità rurale di Avonlea, Canada, la storia rende tutta la complessità dell’adolescenza e dello stare al mondo. La narrazione non è monodimensionale, da consumare e via: è prospettica, zeppa di sfumature, non scivola, avvolge. Vengono affrontati temi complessi e con i quali Anna e i suoi amici fanno i conti: l’omosessualità, l’emancipazione femminile, la genitorialità, il razzismo, la crescita individuale, la centralità della cultura e dell’insegnamento, la difficoltà e la soddisfazione del non allinearsi, l’amicizia, l’innamoramento, la disobbedienza, se necessaria. Da bambina il cartone animato tratto dal romanzo non era tra i miei preferiti. La serie invece mi ha conquistata: è un prodotto cinematografico efficace per raccontare le vicende di questa ragazza dai capelli rossi e le lentiggini, che ricorre all’immaginazione quando la realtà puzza troppo. A suo modo, ci indica decine e decine di via d’uscita dalla paura e dal pregiudizio.
Anna è fantasiosa, distratta, ma non arrendevole, affronta a muso duro gli eventi spiacevoli. Trae ispirazione dai romanzi, dalle poesie, dal creato, dalle persone che stima. Non si risparmia, si consuma, contrasta la prepotenza e sostiene la generosità, ogni giorno, come fosse un’avventura. Fonda un circolo letterario, costruisce un rifugio segreto nel bosco, scrivere la rimette in sesto e se invia una lettera, attende la risposta come se fosse una questione di vita o di morte. È allegra, ma non teme di mostrarsi ferita o malinconica. In lei non c’è nulla di costruito o di posticcio. Andrebbe d’accordo con Jo March, probabilmente. O forse litigherebbero e basta per quanto sono simili, non lo so.
La migliore amica di Anna è Diana Barry, nipote di Josephine Barry, dama iconoclasta che prende Anna e Cole Mackenzie, giovane artista sofferente, sotto la sua ala. La schiera di amici di Anna è composta da ragazzi e ragazze appassionati: sono legami solidi, profondissimi. Tuttavia, come in ogni storia, e in ogni vita, non mancano i detrattori: bulli viziati e bisognosi di affetto come Billy Andrews, o insegnanti nocivi che celano uomini frustrati e arrabbiati, come il maestro Philips. Niente a che vedere con la signorina Stacy, l’insegnante che fa capolino nella seconda stagione della serie e che con i suoi metodi di insegnamento travolge Anna e compagni. Qualcuno le rammenta che un insegnante deve applicare le regole, insegnare l’obbedienza e il rispetto della morale; lei replica: le menti creative sono la forza del progresso e i sognatori cambiano il mondo. Spiega che il suo obiettivo è solleticare gli studenti e spingerli oltre il seminato. Inutile dirlo: Stacy è fondamentale nel percorso di crescita intellettuale di Anna.
Conosciamo Anna che è una preadolescente e la seguiamo fino alla giovinezza. C’è una puntata in cui lei è a scuola e ha dolore al basso ventre. Quella stessa notte macchia le coperte del letto di sangue: è la prima mestruazione e nessuno gliene aveva mai parlato. Mentre Marilla prova a tranquillizzarla, Anna non fa che piangere e lamentarsi: non è pronta a diventare donna e ad abbandonare l’aura di monello. Ma sboccerà e imparerà a fronteggiare le difficoltà seguendo la sua voce. Memorabile l’editoriale che pubblica sul giornale scolastico sulla completezza della donna, che non è né estensione né proprietà del maschio. Il dolore di Anna è l’infanzia negata: cresciuta in un orfanotrofio, fa i conti con un passato senza amore. Eppure, come le fa notare Cole, è proprio questo vuoto che nutre la sua immaginazione e la sua capacità di immedesimarsi negli altri. Il rapporto con Marilla e Matthew Cuthbert consente ad Anna di credere in sé stessa: il loro affetto e la loro stima la accompagnano. Ma è anche l’arguzia di Anna ad accompagnare loro. Nel romanzo, come nella serie, c’è una critica profonda all’educazione, sia scolastica che familiare, preconfezionata e unilaterale.
La diffidenza di alcuni verso l’esuberanza e la libertà espressiva della ragazza si tramuta presto in ammirazione: Anna è una risorsa, una trascinatrice, una che è pronta a farsi in quattro per aiutare chi è in difficoltà. Anche chi la tiene a distanza finisce con l’apprezzarla, bene o male. La Montgomery deve essersi divertita a tratteggiare il profilo di una ragazza fuori dagli schemi (lo era nell’Ottocento e lo sarebbe anche adesso), una specie di eroina dell’ordinario, armata di parole e tenacia. Una ragazza libera, sebbene abbia trascorso l’infanzia segregata nella soffitta di un orfanotrofio.
Ad Avonlea c’è qualcuno che è fuori dagli schemi almeno quanto lei. È Gilbert Blythe, compagno di classe di Anna, con il quale stabilisce un rapporto elettrico, fatto di sfide letterarie, sollecitazioni, baruffe, incomprensioni, profonda stima. Si avvicinano e si allontanano, finché si ritrovano a fare i conti con i loro sentimenti. Gilbert è il vero rivoluzionario di Avonlea: diventa socio ed amico fraterno di Sebastian, un ragazzo di colore conosciuto quando entrambi lavoravano sulle navi mercantili. La loro amicizia induce Gilbert a condurre con sé Sebastian nella casa di famiglia e ad accoglierlo, contro la riluttanza della comunità. Come Anna, anche Gilbert ha il cuore aperto e in perenne ascolto.
In Anna e nelle storie che le orbitano intorno ci siamo riconosciuti. Netflix, però, ha deciso di non supportare il prosieguo della saga e di privarci della gioia di seguire i protagonisti della serie al college e oltre. Noi fan di tutte le età siamo dispiaciuti: abbiamo un bisogno disperato di questa ragazzina fuori moda che procede spedita verso il Novecento e l’età adulta curiosa e indipendente.